Reati fallimentari: nessun obbligo di consegna al curatore delle scritture contabili da parte dell’ex amministratore della società fallita. Necessaria la prova dell’intenzionalità del liquidatore di omettere la consegna della contabilità al curatore

Tribunale di Milano, Sez. I, 11 gennaio 2018
Presidente Fazio, Estensore Rizzi

Con la sentenza in commento, la prima sezione penale del Tribunale di Milano affronta due delicati temi in relazione alla tenuta delle scritture contabili della società fallita e all’obbligo di consegna delle stesse al curatore.

Si tratta in particolare: i) dell’insussistenza, in capo all’amministratore cessato in epoca precedente la declaratoria di insolvenza, dell’obbligo di consegna dei libri contabili al curatore; ii) della necessità di provare la volontà – in capo al liquidatore in carica all’atto del fallimento – di non consegnare la contabilità al curatore.

Il Tribunale di Milano, accogliendo le richieste delle difese, ha assolto tutti gli imputati dal reato di bancarotta fraudolenta documentale, in particolare – per l’amministratore delegato cessato – per non aver commesso il fatto, per il liquidatore in carica alla data della dichiarazione di fallimento perché il fatto non costituisce reato.

Con riguardo all’imputazione formulata a carico di tali imputati, l’accusa contestava la mancata consegna di tutta la contabilità sociale al curatore fallimentare ritenendo gravante tale obbligo sia sul liquidatore in carica al momento della dichiarazione di fallimento sia sull’amministratore da tempo cessato.

Più nello specifico uno degli amministratori, cessato dalla carica oltre un anno prima rispetto alla dichiarazione di fallimento, è risultato comunque imputato del reato di bancarotta fraudolenta documentale posto che, secondo la tesi dell’accusa, gravava anche su di esso l’obbligo di consegna delle scritture contabili al curatore nonostante la società fosse stata dichiarata fallita dal Tribunale di Milano oltre un anno dopo la cessazione del medesimo da ogni incarico.

Quanto, invece, alla posizione del liquidatore in carica al momento della declaratoria di insolvenza, l’accusa ne ha richiesto la condanna per non avere, anch’esso, provveduto alla consegna delle scritture contabili al curatore pur essendone obbligato.

Per la posizione dell’amministratore cessato prima della dichiarazione di fallimento i giudici meneghini, con la sentenza in commento, osservano che “…quanto al contestato delitto di bancarotta fraudolenta documentale, giova, innanzitutto, evidenziare che non è ravvisabile alcun obbligo di consegna al curatore delle scritture contabili in capo all’ex amministratore della società (cfr. Cass. 21818/2017).

Pertanto, la condotta penalmente rilevante può essere addebitata esclusivamente a colui che ricopre la carica di amministratore della società al momento della dichiarazione di fallimento della stessa, mentre per poter ritenere sussistente una responsabilità per bancarotta documentale di colui che ha formalmente rivestito la condotta di amministratore in una fase precedente, è necessario che sia contestato e provato che lo stesso fosse anche amministratore di fatto nell’ultima fase di vita della società o che abbia concorso, in qualità di extraneus, nel fatto dell’intraneus (amministratore della società al momento del fallimento) con la consapevolezza di determinare un depauperamento del patrimonio sociale ai danni dei creditori (cfr. Cass. 21818/2017 cit.)

Secondo il Tribunale, confortato dal precedente giurisprudenziale della Suprema Corte richiamato, non può dunque invocarsi alcun obbligo di consegna delle scritture contabili a carico dell’amministratore cessato, fatto salvo che non si provi che il soggetto in questione, al di là della perdita formale della qualifica di amministratore di diritto, né abbia assunto, sino alla data del fallimento, quella di fatto piuttosto che concorso nel reato in qualità di extraneus.

Pertanto in capo all’amministratore di una società che sia “effettivamente” cessato da tale carica e che non abbia successivamente concorso nel reato come “extraneus” non grava alcun dovere di conservazione della documentazione contabile né un obbligo di consegna della stessa al curatore, in quanto la relativa posizione di garanzia incombe – in via esclusiva – sul soggetto che rivesta la carica di amministratore (piuttosto che di liquidatore) al momento della dichiarazione di fallimento.

Per quanto concerne la posizione del liquidatore, poi, il Tribunale, pur avendo accertato che il medesimo avesse ricevuto almeno parte della documentazione contabile della società, ha ritenuto del tutto insussistente il dolo specifico previsto dalla norma, in quanto assente la prova che il medesimo fosse animato dall’intenzione di nascondere la contabilità “al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto”.

E ciò per due motivi: innanzitutto perché non era emerso nel corso del dibattimento che il liquidatore avesse intrattenuto prima della sua nomina rapporti con la società fallita; secondariamente in quanto, nella fattispecie, il liquidatore era stato nominato quando ormai la liquidazione era pressoché completata, per cui era evidente che non potesse avere alcun interesse a non consegnare o ad occultare i documenti contabili.

Ne conseguiva un’assoluzione dell’amministratore cessato per non aver commesso il fatto e del liquidatore perché il fatto non costituisce reato.

La pronunzia in esame assume interesse con riguardo alla posizione del liquidatore essendo pacifico che all’amministratore “realmente” cessato prima della dichiarazione di fallimento (fatte salve le eccezioni formulate dal Tribunale di Milano con riferimento all’amministratore di fatto o al concorso dell’extraneus nel reato proprio) non competa alcun obbligo di consegna dei documenti al curatore gravando, in capo al medesimo, unicamente il passaggio di consegne a favore del nuovo amministratore o liquidatore.

Correttamente affermano i giudici milanesi che la garanzia di consegna delle scritture contabili si pone a tutela certamente della ricostruzione del patrimonio sociale e del movimento degli affari dell’impresa fallita ma affinché si possa ritenere consumato il più grave reato di bancarotta documentale è necessario che qualsiasi manipolazione delle stesse, finanche la mancata consegna o l’occultamento, abbiano come finalità quella di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori.

Il dolo specifico così tracciato dalla sentenza in commento – il cui onere probatorio grava sull’accusa – può ritenersi integrato unicamente qualora si pervenga alla dimostrazione che il liquidatore non si sia limitato ad operare nella fase terminale di chiusura della società ma che, in realtà, avendo interessi personali o di terzi da tutelare, si sia anzitempo ingerito nell’attività gestoria.

Tali circostanze costituiscono la presunzione che la finalità perseguita fosse proprio quella di avvantaggiare sé od altri piuttosto che arrecare pregiudizio ai creditori.

Ebbene, nel caso sottoposto al Tribunale di Milano con la sentenza in commento, è stato dimostrato che il liquidatore, pur avendo omesso in tutto la consegna della contabilità, prima della sua nomina non aveva intrattenuto alcun rapporto con la società fallita ed i suoi soci e amministratori.

Un’altra circostanza ritenuta fondamentale ai fini della dimostrazione dell’insussistenza dell’elemento psicologico del reato è da rinvenirsi nel momento in cui liquidatore era stato nominato ovvero quando di fatto la liquidazione era terminata.

Pertanto la mera posizione di legale rappresentante all’atto del fallimento della società non comporta sic et simplciter la penale responsabilità ex art. 216 comma 1 l. fall. ma occorre un quid pluris costituito dalla dimostrazione, al di là di ogni ragionevole dubbio, che l’agente abbia agito con l’intento di porre in essere una condotta lesiva degli interessi dei creditori o, a maggior ragione, atta a nascondere propri o altrui vantaggi.

Dunque non un ruolo di garanzia ma un abuso della propria posizione e dei propri doveri.

il giudizio abbreviato

Il giudizio abbreviato non è un giudizio breve! Utilità del giudizio abbreviato. Gli artt. 438-443 c.p.p. disciplinano il giudizio abbreviato: rito speciale a natura premiale, deflativo del dibattimento. A fronte dello sconto di un terzo della pena, applicabile in concreto, l’imputato può chiedere di essere giudicato nell’udienza preliminare sulla base degli atti contenuti nel fascicolo delle indagini preliminari. Non vi è dubbio che il giudizio abbreviato possa essere un vantaggio per il giudicando che ovviamente è libero di richiederlo. In alcuni casi, però, da parte dello stesso, vi è una necessità di ricorrervi, sia per la delicata posizione giuridica (ad es. giudizio direttissimo con misura cautelare o giudizio immediato) sia per la gravità delle accuse formulate, le cui conseguenze giuridiche possono essere non evitate, ma almeno lenite dall’esistenza di un rito alternativo che riduca la pena. La stessa prova “evidente”, idonea a giustificare il ricorso al rito immediato, poi, in caso di conversione al giudizio abbreviato assurgerebbe a elemento determinante ai fini della decisione. Data la natura deflativa, il rito ex art. 438 c.p.p., esaurendosi nella sola udienza preliminare comporta la rinuncia alle garanzie processuali connesse alla celebrazione del dibattimento, quali la completa, immediata e contestuale formazione della prova in contraddittorio tra le parti di fronte ad un giudice terzo e imparziale. Tale rito speciale, soprattutto nella sua ipotesi base, si caratterizza difatti come procedimento “a prova contratta”, nel quale le parti accettano che la res iudicanda sia decisa sulla base degli atti d’indagine già acquisiti, rinunciando a chiedere ulteriori mezzi di prova. In tal modo, consentendo di attribuire agli elementi raccolti nel corso delle indagini preliminari, quel valore probatorio di cui essi sono di norma sprovvisti nel giudizio che si svolge nelle forme ordinarie. Perché come è noto la prova si forma solo in dibattimento. La rinuncia al diritto di formazione della prova nel pieno contraddittorio tra le parti è totale allorché, in sede di indagini preliminari o di udienza preliminare, non sia stato neppure celebrato l’incidente probatorio. Vero che, la legge, consente all’imputato di condizionare l’adesione al giudizio abbreviato, permettendogli di porre delle condizioni per la effettiva integrazione della prova (c.d. giudizio abbreviato condizionato). Viceversa nel processo ordinario, l’imputato al pari del pubblico ministero è protagonista del contraddittorio processuale, al fine di arrivare alla migliore formazione della prova. La contesa ad armi pari, che si svolge dinanzi al giudice, non può prescindere dalle due parti necessarie: accusa e difesa. In un processo accusatorio – in cui vige la presunzione di innocenza – la figura dell’imputato non deve essere quella di un soggetto passivo che subisce inerte l’imputazione mossa dall’accusa, ma
di parte necessaria, che attraverso il rapporto dialettico sia posta in grado di tutelare a pieno i propri diritti fondamentali, primo fra tutti il diritto di difesa. A tal proposito appare fondamentale rimarcare che il ruolo del pubblico ministero non è quello di mero accusatore, ma pur sempre di organo di giustizia obbligato a ricercare tutti gli elementi di prova rilevanti per una giusta decisione, ivi compresi gli elementi a favore dell’imputato. Ma nella prassi, tuttavia, lo svolgimento delle indagini preliminari sono orientate unilateralmente alla ricerca di elementi d’accusa e quasi mai esse sono finalizzate alla ricerca di elementi a discarico a favore dell’imputato. Di conseguenza, si può ragionevolmente dedurre che nel rito abbreviato, la difficoltà difensiva non consiste già solo nella gravità dell’imputazione mossa dall’accusa, ma nelle modalità di preparazione, inoltro ed utilizzo degli atti preparati dalla stessa e che vengono acquisiti per effetto dell’abbreviato, direttamente e completamente quali validi fonti di prova. Diviene fondamentale perché vi possa essere un valido giudizio abbreviato, che i suddetti atti preparatori di indagine siano quando più possibile aderenti e completi sui rilievi del fatto o dei fatti. Siano le suddette fonti, realizzate con massimo scrupolo e la miglior efficacia, tale da produrre un risultato che sia il più giusto possibile nel rispetto delle regole del processo, perché realizzato mediante atti a loro volta ottenuti con lo scrupoloso rispetto delle regole. Va da sé che il Giudice, alla luce di un materiale probatorio redatto prevalentemente, quando non esclusivamente, dall’attività dall’accusa senza che l’imputato abbia avuto modo di completarne o contestarne a pieno il contenuto, come invece accadrebbe in dibattimento in un giudizio ordinario, abbia un compito più gravoso perché da affrontare con scrupolo maggiore, al fine di decidere con piena e genuina cognizione di causa circa i fatti oggetto di giudizio. Emerge chiaramente la maggior dimensione che raggiunge il giudice nel momento in cui amministra la giustizia su un giudizio abbreviato, cioè una maggiore ponderazione degli elementi portati alla conoscenza, un’analisi critica portata all’estremo, in modo da permettere una base parimenti sufficiente, come sarebbe del caso di un giudizio dibattimentale nella quale inserire le istanze e le argomentazioni portate dalla difesa. Lo stesso Giudice, per quanto appena detto, dovrà sentirsi investito di un dovere maggiormente scrupoloso nella valutazione ed accettazione degli elementi di fatto rilevanti. Alla luce dei motivi su esposti, si potrebbe concludere che il rito abbreviato per essere valido strumento di amministrazione della giustizia e per poter soddisfare i requisiti del giusto ed equo processo ex art. 111 Cost., richieda una notevole attività di critica giuridica degli elementi di prova – come si vede in gran parte provati dall’accusa – con l’attività critica ponderata, come detto, già scrupolosa e piena di significati. Considerando che si tratta comunque di un giudizio che ha una sua
collocazione nell’ordinamento, ed è un giudizio abbreviato e non un giudizio breve, come si potrebbe pensare cadendo in errore ritenendo che il motivo della richiesta del giudizio abbreviato sia determinato dall’esclusivo obbiettivo di ottenere la riduzione della pena e non, come sempre, dettato e animato da un desiderio di giustizia. Avv. Luigi Scialla Dott. Antonio Giuseppe Carta

Coltivazione stupefacenti e principio di offensività

Con la sentenza n. 2618 del 21 Gennaio 2016 la VI sezione penale della Cassazione affronta la questione della coltivazione delle sostanze stupefacenti (Art. 73, comma quinto, del D.P.R. n. 309 del 1990) ed il principio di offensività.

La Corte d’Appello di Cagliari aveva affermato la penale responsabilità dell’imputato sulla base di alcuni semplici elementi: i) la conformità della pianta al tipo botanico previsto dalla legge; ii) la sua attitudine a giungere a maturazione; iii) la capacità di di produrre sostanza stupefacente.

Come è facile constatare si tratta di un orientamento piuttosto rigido e restrittivo, che anticipa molto la soglia di punibilità del reato.

E’ pur vero che il delitto di coltivazione di sostanze stupefacenti è un reato di pericolo presunto a consumazione anticipata, ma precisa la Suprema Corte che deve essere comunque bilanciato con il principio di offensività.

In tema di sostanze stuperfacenti, quindi, è necessario verificare in concreto l’offensività della condotta di coltivazione attraverso l’accertamento dell’idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile, idoneo a ledere il bene giuridico tutelato, la salute.

Con riferimetno alla coltivazione, pertanto, è necessario accertare la potenziale lesività delle piante, valutata al momento dell’accertamento del fatto e non alla futura ed aventuale capacità della pianta di mettere in pericolo il bene tutelato.

Nel caso specifico, le piante sequestrate non avevano portata offensiva poiché prive di effetto drogante, infatti si trattava di piccoli ed insignificanti germogli contenuti in bicchierini di caffè non giunti a maturazione.