La diffamazione a mezzo internet, Facebook e Twitter: risvolti probatori e strumenti di tutela.

L’art. 595 del codice penale statuisce che chi offende l’altrui reputazione è punito con la reclusione fino ad un anno, se  questa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato la pena è aumentata fino a due anni, se infine l’offesa è recata con il mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni.

Il bene giuridico tutelato dal reato de quo è la “reputazione”, l’integrità morale della persona, più precisamente, il bene giuridico è la “stima diffusa nell’ambiente sociale” cioè l’opinione che gli altri hanno del suo onore e decoro (l’opinione della persona è rilevante solo allorché sia conforme a quella sociale). Un’interessante definizione di reputazione fornitaci dalla giurisprudenza è “la stima che una persona si è conquistata presso gli altri, quanto come rispetto sociale minimo cui ogni persona ha diritto indipendentemente dalla buona o cattiva fama che derivi dalla sua condotta”.

Soggetto attivo del reato de quo è, in primo luogo, l’autore dello scritto dal contenuto diffamatorio. Inoltre, ai sensi dell’art. 57 c.p., nonché della normativa sulla stampa (l. 8 febbraio 1948, n. 47, Disposizioni sulla stampa, in Gazz. Uff. 20 febbraio 1948, n. 43, meglio nota come legge sulla stampa, l.s.) come accennato, è responsabile anche il direttore del periodico: a titolo di concorso (quando pur consapevole della potenzialità offensiva delle espressioni utilizzate nell’articolo, ne abbia, ugualmente autorizzato la pubblicazione) ovvero per fatto proprio. Ai sensi dell’art. 57-bis c.p., le disposizioni di cui all’art. 57 c.p., si applicano, nel caso di stampa non periodica, all’editore, se l’autore della pubblicazione è ignoto o non imputabile, ovvero allo stampatore, se l’editore non è indicato o non è imputabile. Inoltre, per i reati commessi col mezzo della stampa sono civilmente responsabili, in solido con gli autori del reato, il proprietario della pubblicazione e l’editore (art. 11 l.s.).

Il legislatore, pur mostrando di aver preso in considerazione l’esistenza di nuovi strumenti di comunicazione, telematici ed informatici non ha ritenuto di mutare o integrare la normativa con riferimento ai reati contro l’onore, pur essendo intuitivo che questi ultimi possano essere commessi anche per via telematica o informatica.

Pensando, ad esempio, alla trasmissione di comunicazioni via e-mail, ci si rende facilmente conto che è certamente possibile che un agente, inviando a messaggi atti ad offendere un soggetto, realizzi la condotta tipica del delitto di ingiuria (se il destinatario è lo stesso soggetto offeso) o di diffamazione (se i destinatari sono persone diverse). Ovviamente, l’azione è altrettanto idonea a ledere il bene giuridico dell’onore anche se l’agente immette il messaggio in rete con modalità diverse.

Partendo da tale premessa, si giunge agevolmente a ritenere che l’utilizzo di Internet integri l’ipotesi aggravata di cui all’art. 595, co. 3, c.p. (offesa recata con qualsiasi altro mezzo di pubblicità), poiché la particolare diffusività del mezzo usato per propagare il messaggio denigratorio – solo lontanamente paragonabile a quella della stampa ovvero delle trasmissioni televisive o radiofoniche – rende l’agente meritevole di un più severo trattamento penale.

Internet è, infatti, un mezzo di comunicazione più “democratico”: chiunque, con costi relativamente contenuti e con un apparato tecnologico modesto, può creare un proprio sito, un blog, ovvero utilizzarne uno altrui.

Anche mediante l’utilizzo dei social network è possibile integrare il delitto di diffamazione, sempre nella sua forma aggravata dal mezzo di pubblicità di cui al co. 3. dell’art. 595 c.p.

Recentemente peraltro la Suprema Corte ha affermato che la piattaforma sociale Facebook è una sorta di piazza immateriale che consente un numero indeterminato di accessi e di visioni: essa dunque, al pari di ogni social network accessibile da parte di chiunque utilizzi la rete, costituisce un vero e proprio luogo aperto al pubblico” Cass. pen sez. I 11.07–12.09  2014 n. 37596) in cui può essere commesso il reato di molestie di cui all’art. 660 c.p., di diffamazione e di ingiuria

Poiché le informazioni e le immagini immesse nel web, relative a qualsiasi persona, sono potenzialmente fruibili in qualsiasi parte del mondo, il reato, di conseguenza, si consuma al momento della percezione del messaggio da parte di soggetti estranei sia all’agente che alla persona offesa (Cass. pen., n. 4741/2000).

Proprio alla luce di questa caratterizzazione può apparire problematica l’individuazione del luogo in cui deve ritenersi consumato il reato commesso a mezzo Internet.

È evidente che nessuna difficoltà si presenta in ipotesi di reato commesso agendo dall’Italia in collegamento con un server situato sul territorio dello Stato, poiché il fatto viene interamente realizzato entro i confini italiani e, conseguentemente, è punibile alla stregua del principio generale di territorialità.

Analogamente, se l’agente opera dall’Italia su un server situato all’estero, sussiste la giurisdizione italiana ex art. 6, co. 2, c.p.

Al contrario, la situazione si presenta problematica in relazione ai casi in cui l’agente operi all’estero, ove pure sia collocato il server al quale egli acceda, ed il messaggio diffamatorio sia ricevuto, oltre che nel resto del mondo, anche in Italia.

La diffamazione è infatti un reato di evento, inteso quest’ultimo come avvenimento esterno all’agente e causalmente collegato al comportamento di costui. Si tratta di evento non fisico ma, per così dire, psicologico, consistente nella percezione da parte del terzo (rectius dei terzi) dell’espressione offensiva. Pertanto, la percezione non è un elemento costitutivo della condotta: è un atto non certamente ascrivibile all’agente, ma ad un soggetto diverso, anche se è conseguenza dell’operato dell’agente. Il reato, dunque, si consuma non al momento della diffusione del messaggio offensivo, ma al momento della percezione dello stesso da parte di soggetti che siano “terzi” rispetto all’agente ed alla persona offesa.

 

La valenza probatoria delle schermate di Internet.

 Una volta stabilito che in astratto è configurabile la diffamazione a mezzo Internet,  sia tramite la pubblicazione su siti web, che mediante piattaforme quali Facebook o Twitter occorre chiedersi come sia possibile dare la prova processuale dell’esistenza di uno scritto o filmato o immagine diffamatoria.

Non bisogna dimenticare che la pagina web incriminata potrebbe essere cancellata dopo poche ore dalla pubblicazione, quando il reato è già stato commesso ed il danno prodotto. Le informazioni tratte da una rete telematica sono per loro stessa natura volatili e suscettibili di continua trasformazione e, pertanto, deve escludersi che abbia qualità di documento, con conseguente efficacia probatoria, una copia su supporto cartaceo (una mera stampa dalla pagina web) che non risulti raccolta con garanzie di rispondenza all’originale e di riferibilità ad un determinato periodo temporale (Cass. civ., sez. lav., 16 febbraio 2004, n. 2912).

Si impone, quindi, la necessità di fornire certezza al contenuto del testo diffamatorio e dimostrarne la data certa. Sicuramente di difficilissima dimostrazione mediante la prova testimoniale.

Tale impellenza può essere soddisfatta con una produzione della copia conforme della pagina web, proprio al fine di cristallizzarne il contenuto in un preciso istante temporale.

Posto che la pagina web costituisce “documento informatico” ai sensi dell’art.1 d.lgs 7 marzo 2005, n. 82 (Codice dell’amministrazione digitale, in Gazz. Uff. 16 maggio 2005, n. 112, suppl. ord. n. 93) e che, ai sensi all’art. 23, la copia del documento informatico – su supporto cartaceo o digitale – è valida se raccolta in conformità alle regole tecniche vigenti, la copia conforme della pagina web potrà essere eseguita da un notaio, oltre che da un cancelliere, segretario comunale, etc., ex art. 18, d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, Disposizioni legislative in materia di documentazione amministrativa, in Gazz. Uff. 20 febbraio 2001, n. 42, suppl. ord. n. 30, il quale adatti alle peculiarità del documento informatico la tipica attività notarile di rilascio di copie autentiche.

Tale certificazione di conformità costituisce il presupposto minimo richiesto dalla giurisprudenza.

Per quanto riguarda più precisamente la copia su supporto informatico, il notaio dovrà: 1) eseguire la copia di tutte le informazioni visualizzate; 2) apporre l’attestazione di conformità, indicando il browser utilizzato, l’ora, gli eventuali certificati di sicurezza e l’indirizzo della pagina, comprensivo di url; 3) apporre la firma digitale su tutti i file ovvero associare tra loro i singoli file, esempio tramite il formato zip, quindi, apporre la firma digitale su quest’ultimo.

Quanto alla copia cartacea, per ovvie ragioni, potrà essere trasposto solo un contenuto statico (a meno che non si voglia ottenere una copia parziale, non potrà essere utilizzata, ad esempio, per le pagine web con contenuti dinamici, ad es. filmati). In tal caso, dovranno essere indicati: il sito internet; il tipo di browser utilizzato, la data e l’ora in cui la copia viene effettuata nonchè i dati relativi ad eventuali certificati di sicurezza per la verifica dell’identità del sito.

Nel caso in cui l’attestazione non rispetti tali formalità richieste dalla giurisprudenza, la copia avrà invece l’efficacia probatoria minima ai sensi dell’art. 2717 c.c.

(ex plurimis: Cass. civ., sez. I, 25 marzo 1994, n. 2912).

Massimiliano Luigi Scialla

Diffamazione tramite mail, esclusione aggravante ex art. 595, comma terzo c.p.

La decima sezione del Tribunale Penale di Milano, in composizione monocratica, ha cercato di chiarire la portata dell’art. 595, comma terzo, c.p. alla luce degli odierni strumenti di comunicazione sempre più evoluti.

Nello specifico si è pronunciata sulla possibilità di integrare il delitto di diffamazione aggravata attraverso l’utilizzo della e-mail.

Il terzo comma dell’art. 595 dispone testualmente che: “Se l’offesa è recata con il mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore ad €516”.

Sul punto la dottrina e la giurisprudenza sono concordi nell’affermare che la stampa e la pubblicità devono essere intese come mezzi che per loro natura sono destinati a raggiungere un cospicuo e indeterminato numero di destinatari; sono, a tal fine, mezzi idonei ad integrare l’aggravante in parola le trasmissioni radiotelevisive, i manifesti affissi in luoghi pubblici o i discorsi nella pubblica piazza.

Diverso è il discorso relativo alla e – mail che deve essere equiparata alle comunicazioni scritte, come le lettere, il telegramma o il fax.

Non si deve commettere l’errore di equiparare la mail alla radio, per esempio, per il solo fatto che con tale strumento è possibile raggiungere facilmente e con un semplice click un numero vasto ma comunque determinato di destinatari.

Integra, invece, il delitto di diffamazione aggravata la diffusione di un messaggio utilizzando la bacheca di un account Facebook, perché diversamente dalla mail può essere visualizzato da un numero indeterminato di persone, rinviando al caso specifico l’ipotesi che l’autore del messaggio diffamatorio abbia indicato una ristretta cerchia di persone quali possibili visualizzatori del post.

La nomina a difensore di fiducia vale anche come procura speciale

Qui di seguito una recente pronuncia della Cassazione Penale la quale ha riconosciuto che ai fini dell’ammissibilità del ricorso per cassazione la nomina a difensore sia equiparabile alla procura speciale e non comporti l’inammissibilità del ricorso stesso.

Avv. Massimiliano Luigi Scialla

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 20 marzo – 10 aprile 2014, n. 15961

Presidente Teresi – Relatore Graziosi

Ritenuto in fatto

1. Con ordinanza del 14 marzo 2013 il Tribunale di Torino ha dichiarato inammissibile per mancanza di procura speciale del difensore la richiesta di riesame presentata da Banca Intermobiliare Di Investimenti E Gestioni S.p.A. avverso decreto di sequestro preventivo disposto dal gip dello stesso Tribunale il 15 febbraio 2013 in relazione a indagini per i reati di cui agli articoli 110, 81 cpv. c.p. e 3 d.lgs. 74/2000 (per cui sono indagati V.G. e G.A. ) e 81 cpv. c.p., e 5 11 d.lgs. 74/2000 (per cui è indagato V.G. ), richiesta diretta a far valere l’esistenza di un diritto reale di pegno in favore della suddetta banca su strumenti finanziari e liquidità assoggettati al vincolo.

2. Ha presentato ricorso il difensore, proponendo due motivi. Il primo motivo denuncia violazione degli articoli 96, 100 e 122 c.p.p. nonché 83 c.p.c.: sussiste la procura speciale in capo al difensore, e dotata di tutti i requisiti di legge. Il secondo motivo adduce che, qualora la procura non fosse stata valida, avrebbe dovuto comunque essere sanata ex articolo 182, secondo comma, c.p.c..

Considerato in diritto

3. Il ricorso è fondato.

Il primo motivo adduce che la richiesta di riesame è stata presentata da difensore dotato di valida procura speciale, non sussistendo, quindi, la fattispecie di inammissibilità affermata nell’impugnata ordinanza.

Il Tribunale rileva che il riesame è stato “proposto e sottoscritto da difensore non munito di procura speciale (agli atti risulta una semplice nomina fiduciaria ex art. 96, comma 2, c.p.p., effettuata dal procuratore generale alle liti)” e che l’”atto di nomina” del difensore “non possa essere ritenuto equipollente alla procura speciale e comunque non contenga i requisiti richiesti, a pena di inammissibilità, dall’art. 122 c.p.p.”.

L’articolo 122 c.p.p., al primo comma, stabilisce che, quando la legge consente che un atto sia compiuto mediante un procuratore speciale, la procura, a pena di inammissibilità, “deve contenere, oltre alle indicazioni richieste specificamente dalla legge, la determinazione dell’oggetto per cui è conferita e dei fatti ai quali si riferisce”; e se è conferita per scrittura privata al difensore, la sottoscrizione può essere autenticata da quest’ultimo. L’articolo 96, secondo comma, c.p.p., che secondo il Tribunale è stato invece applicato nel caso in esame, contempla la nomina del difensore di fiducia dell’imputato “fatta con dichiarazione resa all’autorità procedente ovvero consegnata alla stessa dal difensore o trasmessa con raccomandata”. È subito evidente la non pertinenza del richiamo all’articolo 96, che attiene alla nomina, appunto, del difensore di fiducia dell’imputato – con modalità ovviamente diverse -, laddove, nel caso di specie, si tratta di un terzo interessato ad avviare un procedimento di riesame avente ad oggetto una cautela reale. Come evidenzia il ricorrente, invece, la norma cui doveva rapportarsi il giudice di merito è l’articolo 100 c.p.p., che disciplina la difesa delle parti private diverse dall’imputato, le quali “stanno in giudizio col ministero di un difensore, munito di procura speciale conferita con atto pubblico o scrittura privata autenticata dal difensore o da altra persona abilitata”. Richiamando implicitamente i principi dello jus postulandi vigenti nel rito processuale civile, l’articolo 100 al primo e al secondo comma consente di apporre la procura speciale non solo in un atto ad hoc (cfr. articolo 83, primo comma, c.p.c), ma anche in calce o a margine di determinati atti (cfr. pure articolo 83, secondo comma, c.p.c.), e al terzo comma ne circoscrive (discostandosi da un canone di immanenza e aderendo all’articolo 83, ultimo comma c.p.c.) l’efficacia processuale in termini temporali. Pertinente è invece il riferimento che il Tribunale opera all’articolo 122 c.p.p. -integrativo dell’articolo 100 c.p.p. -, la cui applicazione, peraltro, in concreto non è stata effettuata in modo corretto. Per verificare, infatti, la natura di un atto processuale, non è sufficiente attestarsi sul titolo dell’atto, occorrendo esaminarne il contenuto effettivo, in base al generale principio della prevalenza della sostanza sulla forma nell’identificazione dell’atto. Nel caso di specie, l’atto è intitolato “atto di nomina di difensore di fiducia”, ma il suo contenuto corrisponde non alla fattispecie dell’articolo 96 c.p.p. – e non potrebbe comunque mai corrispondervi, poiché si effettua con esso la nomina di un difensore per una parte privata che non è l’imputato – bensì al conferimento di una procura speciale, che contiene i requisiti degli articoli 100 e 122 c.p.p.. Prendendo le mosse infatti dalla sua dichiarata volontà di proporre richiesta di riesame avverso il decreto di sequestro preventivo specificamente indicato, il conferente – cioè il procuratore generale alle liti, come da atto notarile ivi menzionato, della Banca Intermobiliare, B.S. – “dichiara di nominare l’avv. Marco _____ del foro di Milano, quale proprio difensore, ad ogni effetto di legge, affinché proponga richiesta di riesame, ai sensi degli artt. 322, 324 e 582, secondo comma, c.p.p.” avverso il suddetto decreto “e per ogni stato e grado del relativo procedimento, conferendo al predetto procuratore ogni potere, diritto e facoltà consentiti dalla legge, compreso quello di conferire delega per la presentazione degli atti in cancelleria e di rinunciare all’impugnazione”; segue l’elezione di domicilio presso lo studio dell’avvocato nominato. L’atto risulta sottoscritto dal procuratore generale con autenticazione della sottoscrizione da parte del difensore. È dunque evidente che si tratta di una procura speciale ai fini processuali come disciplinata dall’articolo 100 c.p.p., che, in rispetto dell’articolo 122 c.p.p., indica specificamente anche quel per cui è conferita, integrando in modo idoneo e completo l’esternazione della volontà di attribuire jus postulandi all’avvocato che assume, in tal modo, le funzioni di procuratore speciale ai fini della procedura di riesame avverso il sequestro preventivo di cui si tratta. Non è pertanto sussistente il vizio di inammissibilità che il Tribunale, presumibilmente dal titolo dell’atto, ha ravvisato, il che assorbe il secondo motivo. In conclusione, l’ordinanza impugnata deve essere annullata con rinvio al Tribunale di Torino.

P.Q.M.

Annulla l’ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Torino.

Coltivazione stupefacenti e principio di offensività

Con la sentenza n. 2618 del 21 Gennaio 2016 la VI sezione penale della Cassazione affronta la questione della coltivazione delle sostanze stupefacenti (Art. 73, comma quinto, del D.P.R. n. 309 del 1990) ed il principio di offensività.

La Corte d’Appello di Cagliari aveva affermato la penale responsabilità dell’imputato sulla base di alcuni semplici elementi: i) la conformità della pianta al tipo botanico previsto dalla legge; ii) la sua attitudine a giungere a maturazione; iii) la capacità di di produrre sostanza stupefacente.

Come è facile constatare si tratta di un orientamento piuttosto rigido e restrittivo, che anticipa molto la soglia di punibilità del reato.

E’ pur vero che il delitto di coltivazione di sostanze stupefacenti è un reato di pericolo presunto a consumazione anticipata, ma precisa la Suprema Corte che deve essere comunque bilanciato con il principio di offensività.

In tema di sostanze stuperfacenti, quindi, è necessario verificare in concreto l’offensività della condotta di coltivazione attraverso l’accertamento dell’idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile, idoneo a ledere il bene giuridico tutelato, la salute.

Con riferimetno alla coltivazione, pertanto, è necessario accertare la potenziale lesività delle piante, valutata al momento dell’accertamento del fatto e non alla futura ed aventuale capacità della pianta di mettere in pericolo il bene tutelato.

Nel caso specifico, le piante sequestrate non avevano portata offensiva poiché prive di effetto drogante, infatti si trattava di piccoli ed insignificanti germogli contenuti in bicchierini di caffè non giunti a maturazione.

Legge pinto: il termine di 6 anni previsto dall’art. 2, comma 2 ter, della L 89 del 2001 si riferisce al procedimento nei suoi tre gradi di giudizio e non vale se il procedimento si conclude in una sola fase.

La legge nr. 89 del 2001, denominata Legge Pinto ha introdotto nel nostro sistema il principio del diritto al risarcimento del danno per eccessiva durata del processo.Tale diritto al risarcimento spetta a chi è stato parte del processo e senza colpa abbia subito l’ingiuste lungaggini della giustizia civile, penale o amministrativa.

A tal fine il nostro ordinamento, recependo i principi costantemente affermati dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ha predisposto tempi, modalità e condizioni che il ricorrente deve rispettare per ottenere la pronuncia favorevole relativamente al risarcimento del danno causata dall’eccessiva durata del processo.

Di particolare importanza è la disposizione contenuta all’art. 2, comma 2 ter della Legge 89 del 2001 il quale espressamente prevede che” si considera comunque rispettato il termine ragionevole se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni”.

Tale norma sembrerebbe affermare che a prescindere dalla durata delle singole fasi, preliminari, primo grado, secondo grado e di legittimità, il termine finale, contenuto nei 6 anni sia da ritenersi ugualmente ragionevole e come tale non dar luogo ad alcun risarcimento.

La Sezione Sesta della Suprema Corte di Cassazione Civile, intervenuta sul punto proprio per chiarire tale disposto ed evitare l’uso distorto in sede giudiziale ha affermato con la sentenza nr 23745 del 6.11.2014 l’esatto contrario.

Sostiene infatti la Suprema Corte “che in questo senso la norma recepisce i parametri di durata fissati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo ed applicati dalla giurisprudenza di questa Corte (tra le tante, Sez. 1, 5 dicembre 2011, n. 25955; Sez. 6-1, 7 settembre 2012, n. 15041); che alla previsione contenuta nel comma 2-bis fa seguito il comma 2- ter, ai sensi del quale “si considera comunque rispettato il termine ragionevole se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni”;

che quest’ultima disposizione va interpretata in continuità con il comma che la precede: essa – nel mantenere fermi i limiti di durata ragionevole fissati nel comma 2-bis – lungi dall’allungare a sei anni il periodo di definizione di un processo che si sia esaurito in un unico grado di giudizio, detta una norma di chiusura, introducendo (anche qui, in linea con i risultati dell’elaborazione giurisprudenziale: Sez. 1, 13 aprile 2006, n. 8717; Sez. 1, 4 luglio 2011, n. 14534) una valutazione sintetica e complessiva del processo che si sia articolato in tre gradi di giudizio, consentendo così di escludere la configurabilità del superamento del termine di durata ragionevole tutte le volte in cui la durata dell’intero giudizio, nei suoi tre gradi, sia contenuta nel parametro complessivo di sei anni, e di trascurare, al contempo, il superamento registrato in un grado quando questo sia stato compensato da un iter più celere rispetto allo standard nel grado precedente o successivo;”

Afferma inoltre la Corte “che la diversa interpretazione offerta dai giudici del merito finisce con porsi in contrasto, oltre che con la lettera della disposizione nel suo complesso, con i principi costantemente affermati dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.”

Ne consegue pertanto che qualora il procedimento abbia avuto una durata superiore al termine ragionevole, la parte avrà diritto ad ottenere il risarcimento del danno per durata eccessiva del procedimento anche se questo si è concluso entro i 6 anni.