Confermo – Confermo!

Confermo – Confermo!

“La stessa inflessibile virtù del magistrato non illuminata dall’ingegno e non guidata dall’obbiettività può condurre all’ingiustizia”

V. Manzini, Trattato di diritto processuale penale, 1970

a cura di: Luigi Scialla – Avvocato del Foro di Roma; Dott. Antonio Giuseppe Carta – Praticante Avvocato del Foro di Roma.

«Nell’ipotesi di mutamento della persona fisica del giudice monocratico o della composizione del Collegio che ha assunto la prova testimoniale, la testimonianza raccolta dal primo giudice non è utilizzabile per la decisione mediante la semplice lettura, senza ripetere l’esame del dichiarante, quando questo possa avere luogo e sia richiesto da una delle parti. […] Per converso ove risulti il consenso delle parti alla rinnovazione del dibattimento mediante lettura dei verbali di dichiarazioni rese nella precedente fase dibattimentale, queste ultime dichiarazioni possono essere utilizzate per la decisione».1

Con l’ardito intento di porre chiarezza sul contrasto giurisprudenziale precedentemente delineatosi, le Sezioni Unite della Suprema Corte, non molto tempo fa, con la massima sopra riportata, hanno ribadito il principio dell’immutabilità del giudice: il diritto alla rinnovazione dibattimentale a seguito del mutamento dell’organo giudicante deve costituire la regola e non più, come in passato, l’eccezione.

Peraltro l’enunciazione di un chiaro principio di diritto si rendeva improcrastinabile per porre freno a una giurisprudenza piuttosto discordante sul tema; posto che sin dalla entrata in vigore dell’attuale codice di procedura penale, il tema della rinnovazione del dibattimento a seguito del mutamento del giudice ha prodotto linee interpretative contrastanti. Più precisamente, la quaestio ruotava attorno alla necessità della nuova escussione della prova dichiarativa dinanzi al giudice subentrato, ovvero alla possibilità di utilizzare ai fini della decisione, attraverso la lettura dei relativi verbali, le dichiarazioni illo tempore rese dinanzi al giudice sostituito.

Ad oggi, come si vedrà in seguito, malgrado i reiterati interventi della Corte Costituzionale2 prima, e delle sopracitate Sezioni Unite poi, il dibattito non appare sopito, e il principio di immutabilità del

1 Cass., Sez. Un., 15 gennaio 1999, n. 2 “Iannasso”, in Cass. pen., 1999, p. 1429.
2 C. Cost., sent. 3 febbraio 1994, n. 17, in Cass. pen., 1994, p. 1172 per cui «il rispetto del principio sancito nell’art. 525, co. 2, c.p.p. impone che, in caso di mutamento del giudice, si proceda alla integrale rinnovazione del dibattimento»; C.

giudice reiteratamente violato nella prassi. Nel contesto di una ricca casistica, si afferma infatti che la previsione ex art. 525, comma 2, c.p.p. non opera nel caso in cui il teste riconvocato in dibattimento, invitato a confermare le precedenti dichiarazioni si limiti, senza opposizione delle parti, a questa sola affermazione senza riferire come dovrebbe, nel merito, gli elementi in suo possesso delle fonti di prova, perché la prova “nasca” in quel momento.

Giova ai fini della presente trattazione, prendere in considerazione alcune consuetudini sviluppatesi e sedimentatesi nel precedente codice del 1930, consuetudini che tuttavia ancora oggi, sotto la vigenza dell’attuale codice di rito, che come è noto rispetto al previgente codice è animato da un principio del tutto diverso, si fatica a sradicare.

Il previgente sistema processuale era improntato ai principi del modello inquisitorio – rectius “misto” – ove le garanzie e i diritti dell’individuo erano subordinati all’utopica ricerca dell’assoluta verità da parte del giudice.
La fase istruttoria aveva a tutti gli effetti natura processuale e giurisdizionale.

Tale caratteristica comportava delle ricadute sul piano probatorio: le prove acquisite in quella fase venivano utilizzate dal giudice del dibattimento per fondare la propria decisione. Tale pratica veniva favorita anche dai limitati sbarramenti posti dal legislatore alla possibilità di ingresso nel dibattimento del materiale probatorio raccolto nella fase istruttoria. Tanto che, per consuetudine, il giudice del dibattimento si limitava a chiedere al testimone chiamato a deporre se confermasse o meno in giudizio le dichiarazioni rese nella fase processuale precedente. Di qui la ridondante espressione spesso criticata, e in più sedi, della risposta del teste che era limitata ad un laconico: «Confermo, confermo!». Solo apparentemente quindi l’assunzione delle prove avveniva in dibattimento nel pieno rispetto dei principi dell’oralità e dell’immediatezza, ma di fatto, i verbali nei quali erano contenuti gli atti istruttori andavano a porsi tra il giudice e la prova, declassando il dibattimento a mera fase di controllo degli elementi probatori raccolti in precedenza, rendendo quasi superflui i principi di concentrazione del dibattimento nonché il senso dell’immediatezza della decisione.

Scriveva in proposito il Chiavario «l’intelaiatura complessiva del processo e gli ampi spazi lasciati alla pratica giudiziaria hanno finito per consacrare l’assoluta prevalenza dell’attività istruttoria su quella dibattimentale, della scrittura e delle letture sull’oralità e sull’immediatezza […] con evidente mortificazione di quei principi del sistema accusatorio che pur si volevano astrattamente affermare».3

Cost., ord. 10 giugno 2010, n. 205, in Cass. pen., 2010, p. 3821 dalla quale si evince che il diritto dell’imputato all’assunzione della prova davanti al giudice chiamato a decidere si raccorda alla garanzia prevista dall’art. 111, co. 3, Cost.
3 Cit. M Chiavario, Commento al nuovo codice di procedura penale, UTET, 1991, p. 4.

Dai lavori preparatori dell’attuale codice di rito emerse viceversa l’intento del legislatore a prendere le distanze da tali diffuse pratiche di “conferma” sedimentatesi sotto la vigenza del precedente codice. Difatti all’art. 2 della legge-delega 81/1987 si proclamò “l’adozione del modello orale” per il quale, il “processo pienamente orale è quello retto dalla regola per cui il giudice deve fondare la decisione soltanto sulla base delle risultanze probatorie direttamente percepite”. 4

Si rende necessario quindi un contatto diretto ed effettivo tra il giudice, le parti, e la prova, in modo che la decisione sia fondata su atti alla cui formazione il giudice insieme alle parti ha preso parte, e sui quali si sono formate le sue impressioni e percezioni, nel contraddittorio contestuale ed immediato, e con la diretta e constante partecipazione di tutte le parti che integrano l’ufficio della decisione.

Va da sé concludere quindi che «il principio di oralità va di pari passo con il principio di immediatezza, nel duplice significato, di identità tra il giudice che procede all’assunzione delle prove ed il giudice che decide sulla res iudicanda, e di continuità delle operazioni probatorie tra di loro e rispetto al momento deliberativo della decisione».5 Il principio di oralità inoltre garantisce la genuinità degli atti perché la loro formazione non va riferita ad un tempo anteriore, ma ha luogo nel momento e alla presenza dell’ufficio giudiziario.

Senza contare l’importanza del contraddittorio che, per quanto evidenziato sopra per gli altri principi, deve essere contestuale, immediato nel senso di attuale e collettivo.
Questi principi, implicando un rapporto privo di intermediazione tra l’acquisizione delle prove e la decisione dibattimentale, sono finalizzati ad ottenere una decisione che, adottata entro un brevissimo intervallo di tempo dall’assunzione degli elementi probatori, risulti basata su un nitido e preciso ricordo dei fatti appresi dal giudice nel corso dell’istruzione dibattimentale.

Perché è in dibattimento, luogo nel quale il principio del contraddittorio trova la massima espressione, la sede di formazione della prova.

Nella fase attuale dell’applicazione della legge processuale per i giudizi penali si verificano sempre con maggiore continuità fenomeni, sicuramente discutibili e probabilmente inaccettabili, che rischiano di fuorviare il senso stesso di giustizia mediante un uso non corretto delle norme processuali. E ciò probabilmente per la cattiva incidenza di prassi ormai applicate con un’allarmante frequenza dai giudici, forse animati da un desiderio di celerità nello svolgimento del processo, che però agisce poi in senso contrario rispetto alla bontà del risultato che ci si attende.

Infatti può capitare, anche per il lungo tempo (anch’esso irregolare) impiegato nella trattazione di un processo in dibattimento, che questo, in un tempo che dovrebbe essere viceversa contestuale,

4 M. Chiavario, La riforma del processo penale, UTET, 1988, p. 32.
5 M. Chiavario, La riforma del processo penale, UTET, 1988, p. p. 38.

immediato e orale, venga, per il mutamento della persona del giudice, ad essere non più realizzabile. E cioè il portato dibattimentale sarà tutt’altro che contestuale, senza nemmeno scomodare i concetti di immediatezza, anch’essa mancante, del contraddittorio e di oralità, elementi sempre indispensabili per un corretto processo. E quindi impedendo che una parte della prova, specialmente quella dichiarativa “nasca” in presenza, nella collegialità collettiva per un giudice diverso da quello che in un secondo momento è subentrato per il giudizio, cosicché le ulteriori prove “nascono” dinnanzi a questo nuovo giudice senza la necessaria immediatezza e contestualità.

Il problema consiste nella difficoltà di collegare le prime acquisizioni probatorie con quelle successivamente assunte con il giudice mutato.
Infatti come si è visto prima il principio dell’immutabilità del giudicante viene posto in crisi dalla difficoltà di recepire prove acquisite e valutate precedentemente da un giudice diverso che ha partecipato ad un contesto acquisitorio diverso.

A questa situazione processuale implicante una difficoltà, si è posto un parziale rimedio mediante un’acquisizione effettuata con l’accordo delle parti mediante una formale “rinnovazione” dell’acquisizione probatoria che sarà poi valutata nel momento della discussione e della decisione mediante lettura. Sempre formale.

Viceversa la forma più corretta usata e da usare nel corso di un mutamento del giudice è quella della ripetizione materiale dell’acquisizione delle dichiarazioni testimoniali da effettuarsi dinanzi al nuovo giudice perché lo stesso alla fine possa avere la cognizione più completa ed esauriente della prova nata sotto i suoi occhi nell’ambito della Sua sede giudiziaria. E ciò perché solo così si rispettano i principi dell’immediatezza, dell’oralità, della concentrazione, della contestualità e del contraddittorio.

È infatti questa la ragione fondamentale ed ineludibile per la realizzazione di un giusto processo per addivenire ad un risultato giudiziario accettabile, ovviamente prescindendo dal tipo di decisione. Infatti solo il rispetto delle regole è condizione necessaria e sufficiente per acquisire come detto un risultato accettabile.

Altro fenomeno ancora più allarmante, che va ad inserirsi anch’esso in una prassi da respingere con decisione, è quello manifestato da alcuni giudici i quali essendo costretti alla rinnovazione reale dell’acquisizione della prova dichiarativa per il mancato consenso delle parti o di una delle parti, che spesso è la difesa, procedano alla rinnovazione fittizia e formale dell’acquisizione delle prove assunte in precedenza.

È capitato spesso che il giudice tentasse comunque di dar valore a queste precedenti dichiarazioni rese nel dibattimento che attualmente stava dirigendo, mediante la richiesta di semplice conferma da parte del dichiarante di quanto in precedenza riferito, con la frase e la domanda preliminare al teste,

che così suonava o che così ha spesso suonato: «Lei conferma quanto ha dichiarato in precedenza?», con la conseguente ed eloquente risposta: «Confermo, confermo».
Così facendo, oltre a realizzare un illecito, veniva commesso un atto non solo illecito, ma addirittura paradossale, perché si procurava un ingresso del materiale probatorio che non si era voluto consentire mediante l’assenso alla mera lettura. Per usare un espressione significativa, anche se poco consona alla formalità del processo penale, si realizzava un’introduzione dalla finestra di quello che non si era potuto introdurre dalla porta.

Si realizza così un illecito processuale che anzitutto richiama vecchie concezioni nate a maturate in epoca di vigenza di un diverso processo (ci si riferisce al processo inquisitorio), aggravato dalla considerazione che il nostro giudice, in quel frangente, ha ritenuto di possedere virtù e capacità cognitivo – decisionali tali da poter esaurire e arrivare a un compiuto giudizio anche mediante un’acquisizione di prova tronca, e cioè realizzata mediante una conferma per una nascita che non c’è stata, per prove avvenute in un altro luogo, con evidente stravolgimento delle regole e dei principi propri del processo accusatorio.

L’esame diretto, deve avvenire in ambito contestuale, immediato e orale al quale deve seguire, a pena di inammissibilità, l’indispensabile controesame che, come è facilmente intuibile, deve avere ad oggetto l’esame subìto dal teste in quel momento, e non può essere certamente un controesame su un argomento di esame che non c’è più e che sarebbe esistito in altra sede; e quindi non contestuale!

È evidente la violazione perpetrata e la conseguente nullità della prova assunta.
Insomma c’è assoluta necessità dell’acquisizione probatoria diretta, comunemente definita nascita della prova in dibattimento, e non possono esistere conferme di sorta.

il giudizio abbreviato

Il giudizio abbreviato non è un giudizio breve! Utilità del giudizio abbreviato. Gli artt. 438-443 c.p.p. disciplinano il giudizio abbreviato: rito speciale a natura premiale, deflativo del dibattimento. A fronte dello sconto di un terzo della pena, applicabile in concreto, l’imputato può chiedere di essere giudicato nell’udienza preliminare sulla base degli atti contenuti nel fascicolo delle indagini preliminari. Non vi è dubbio che il giudizio abbreviato possa essere un vantaggio per il giudicando che ovviamente è libero di richiederlo. In alcuni casi, però, da parte dello stesso, vi è una necessità di ricorrervi, sia per la delicata posizione giuridica (ad es. giudizio direttissimo con misura cautelare o giudizio immediato) sia per la gravità delle accuse formulate, le cui conseguenze giuridiche possono essere non evitate, ma almeno lenite dall’esistenza di un rito alternativo che riduca la pena. La stessa prova “evidente”, idonea a giustificare il ricorso al rito immediato, poi, in caso di conversione al giudizio abbreviato assurgerebbe a elemento determinante ai fini della decisione. Data la natura deflativa, il rito ex art. 438 c.p.p., esaurendosi nella sola udienza preliminare comporta la rinuncia alle garanzie processuali connesse alla celebrazione del dibattimento, quali la completa, immediata e contestuale formazione della prova in contraddittorio tra le parti di fronte ad un giudice terzo e imparziale. Tale rito speciale, soprattutto nella sua ipotesi base, si caratterizza difatti come procedimento “a prova contratta”, nel quale le parti accettano che la res iudicanda sia decisa sulla base degli atti d’indagine già acquisiti, rinunciando a chiedere ulteriori mezzi di prova. In tal modo, consentendo di attribuire agli elementi raccolti nel corso delle indagini preliminari, quel valore probatorio di cui essi sono di norma sprovvisti nel giudizio che si svolge nelle forme ordinarie. Perché come è noto la prova si forma solo in dibattimento. La rinuncia al diritto di formazione della prova nel pieno contraddittorio tra le parti è totale allorché, in sede di indagini preliminari o di udienza preliminare, non sia stato neppure celebrato l’incidente probatorio. Vero che, la legge, consente all’imputato di condizionare l’adesione al giudizio abbreviato, permettendogli di porre delle condizioni per la effettiva integrazione della prova (c.d. giudizio abbreviato condizionato). Viceversa nel processo ordinario, l’imputato al pari del pubblico ministero è protagonista del contraddittorio processuale, al fine di arrivare alla migliore formazione della prova. La contesa ad armi pari, che si svolge dinanzi al giudice, non può prescindere dalle due parti necessarie: accusa e difesa. In un processo accusatorio – in cui vige la presunzione di innocenza – la figura dell’imputato non deve essere quella di un soggetto passivo che subisce inerte l’imputazione mossa dall’accusa, ma
di parte necessaria, che attraverso il rapporto dialettico sia posta in grado di tutelare a pieno i propri diritti fondamentali, primo fra tutti il diritto di difesa. A tal proposito appare fondamentale rimarcare che il ruolo del pubblico ministero non è quello di mero accusatore, ma pur sempre di organo di giustizia obbligato a ricercare tutti gli elementi di prova rilevanti per una giusta decisione, ivi compresi gli elementi a favore dell’imputato. Ma nella prassi, tuttavia, lo svolgimento delle indagini preliminari sono orientate unilateralmente alla ricerca di elementi d’accusa e quasi mai esse sono finalizzate alla ricerca di elementi a discarico a favore dell’imputato. Di conseguenza, si può ragionevolmente dedurre che nel rito abbreviato, la difficoltà difensiva non consiste già solo nella gravità dell’imputazione mossa dall’accusa, ma nelle modalità di preparazione, inoltro ed utilizzo degli atti preparati dalla stessa e che vengono acquisiti per effetto dell’abbreviato, direttamente e completamente quali validi fonti di prova. Diviene fondamentale perché vi possa essere un valido giudizio abbreviato, che i suddetti atti preparatori di indagine siano quando più possibile aderenti e completi sui rilievi del fatto o dei fatti. Siano le suddette fonti, realizzate con massimo scrupolo e la miglior efficacia, tale da produrre un risultato che sia il più giusto possibile nel rispetto delle regole del processo, perché realizzato mediante atti a loro volta ottenuti con lo scrupoloso rispetto delle regole. Va da sé che il Giudice, alla luce di un materiale probatorio redatto prevalentemente, quando non esclusivamente, dall’attività dall’accusa senza che l’imputato abbia avuto modo di completarne o contestarne a pieno il contenuto, come invece accadrebbe in dibattimento in un giudizio ordinario, abbia un compito più gravoso perché da affrontare con scrupolo maggiore, al fine di decidere con piena e genuina cognizione di causa circa i fatti oggetto di giudizio. Emerge chiaramente la maggior dimensione che raggiunge il giudice nel momento in cui amministra la giustizia su un giudizio abbreviato, cioè una maggiore ponderazione degli elementi portati alla conoscenza, un’analisi critica portata all’estremo, in modo da permettere una base parimenti sufficiente, come sarebbe del caso di un giudizio dibattimentale nella quale inserire le istanze e le argomentazioni portate dalla difesa. Lo stesso Giudice, per quanto appena detto, dovrà sentirsi investito di un dovere maggiormente scrupoloso nella valutazione ed accettazione degli elementi di fatto rilevanti. Alla luce dei motivi su esposti, si potrebbe concludere che il rito abbreviato per essere valido strumento di amministrazione della giustizia e per poter soddisfare i requisiti del giusto ed equo processo ex art. 111 Cost., richieda una notevole attività di critica giuridica degli elementi di prova – come si vede in gran parte provati dall’accusa – con l’attività critica ponderata, come detto, già scrupolosa e piena di significati. Considerando che si tratta comunque di un giudizio che ha una sua
collocazione nell’ordinamento, ed è un giudizio abbreviato e non un giudizio breve, come si potrebbe pensare cadendo in errore ritenendo che il motivo della richiesta del giudizio abbreviato sia determinato dall’esclusivo obbiettivo di ottenere la riduzione della pena e non, come sempre, dettato e animato da un desiderio di giustizia. Avv. Luigi Scialla Dott. Antonio Giuseppe Carta