SENTENZA CEDU CASO J.L. CONTRO ITALIA

(Ricorso CEDU- Corte Europea Diritti Uomo n. 5671/16) 

INTRODUZIONE 

Il parere requirente viene formulato dalla Corte in materia di art. 8 CEDU; di «obblighi positivi»; di secondaria persecuzione per la vittima, di un reato di abuso sessuale; di rispetto dell’integrità personale tutelata nel corso del processo inquirente; e di art. 44§2 della CEDU. 

SOMMARIO: 1.Il caso di specie; 2.La giurisprudenza di merito; 3.La pronuncia di diritto; 4.L’opinione dissidente del giudice WOJTYCZEK. 

1.Il caso di specie. 

Il ricorso in oggetto alla presente sede requirente della Suprema Corte di Strasburgo, coinvolge la Repubblica italiana, e la Signora J.L cittadina di tale Repubblica.
La Signora J.L. lamenta una violazione degli artt. 81 e 142 della CEDU, a fronte di un procedimento penale, adito, in occasione di un rilevato delitto di violenza sessuale ai danni di quest’ultima; un procedimento svoltosi in carenza di disposizioni cautelari a favore della vittima, quanto della sua vita privata e integrità personale. Nello specifico, così come reso evidente il 14 gennaio 2013 dal Tribunale di Firenze, venivano condannati in tale sede giudicante, sei dei sette accusati, per avere causato lesioni personali e psicologiche, a seguito di violenza carnale a danno della requirente, ciò ai sensi dell’art. 609bis §1 e 609octies. 

1 «Diritto al rispetto della vita privata e familiare». 2 «Divieto di discriminazione». 

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Tale Tribunale perveniva, di fatto, alla constatazione di profonde discrepanze, di carattere sostanziale, nella rilevazione di una reale partecipazione consensuale o meno da parte della vittima. Nell’accertamento della veridicità dei fatti contestati in sede giudicante, veniva rilevato dagli inquirenti, l’incoerenza quanto l’evidente carenza di requisiti logici nella ricostruzione del racconto, riportato dalla vittima, in specie della riproduzione iniziale dei fatti. Nella costruzione priva di sintagmi logici di interna coerenza sostanziale, il Tribunale di Firenze, si allinea a un costrutto giurisprudenziale maturato dalla Suprema Corte di Cassazione, nel poter fare propria una favorevole attestazione della predetta testimonianza fornita dalla Signora J.L. 

La Cassazione, difatti, utilizza quali parametri di percettibile credibilità, un procedimento di c.d. «valutazione frammentata» delle pervenute dichiarazioni della vittima in oggetto di procedimento di preliminari indagini per violenza carnale, e in assenza di rilevanza di contraddizioni nella ricostruzione dei fatti, o di nessi logici nella proposizione degli stessi. 

Un ulteriore elemento di evidente contraddizione viene, altresì, messo in luce, dalla certificazione medicale fornita dal centro antiviolenza, che rileva solo nelle successive 12 ore agli eventi riportati verbalmente dalla ricorrente, un riscontro di lesioni non compatibili con la violenza carnale paventata dalla vittima. 

Lo stesso Tribunale, rende nota, inoltre, l’effettiva insufficienza di prove, che possano, effettivamente, fare pensare a una serata trasgressiva trascorsa abusando di un’oggettiva inconsapevolezza della Signora J.L., in qualità di vittima dell’insana azione delittuosa. La ricostruzione avvenuta attraverso le prove testimoniali, conferisce elementi di reale constatazione dello stato di ebrezza della vittima, nello spazio temporale internamente al quale è collocabile l’efferato reato. 

Allo stato dei fatti, si è ritenuto di ipotizzare una volontà consenziente anche se non pienamente lucida.
Successivamente, il caso viene discusso in appello il 4 marzo 2015, per il quale appello ci si rifaceva, esclusivamente, alla valutazione 

della assuefatta precarietà di reazione da parte della vittima, poiché in evidente stato di stordimento da alcol, ai sensi del quale intorpidimento fosse da ipotizzarsi un’avvenuta grave lesione ai danni di quest’ultima, così come legislativamente sancito ai sensi dell’art. 609bis §2. 

La Corte d’Appello, stabilisce nel merito del suo discernimento, che la procedura di natura ispettiva posta in essere dal Tribunale di prima istanza, non concretizzasse in maniera soddisfacentemente corretta la tesi maturata dalla giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione, in materia di dichiarazioni rese da una vittima di violenza carnale. 

Il Tribunale di Firenze, aveva proceduto ad una valutazione frammentata delle diverse dichiarazioni della ricorrente, attestandone la relativa credibilità dando peso, esclusivamente, a una parte dei fatti da rilevarsi giudizialmente. 

La giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione, invece, segnala che un tale tipo di approccio è sostenibile solo se la testimonianza della vittima, faccia riferimento nella ricostruzione del suo racconto, a dei frammentati frangenti distinti e fra loro meramente indipendenti gli uni dagli altri, non riconducibili a un unico episodio di lesione. 

Sulla base di tale ricondotta analisi, la credibilità della vittima non è attestabile, e nemmeno testabile, statuisce la Corte.
Quest’ultima asserisce peraltro, che non è sostenibile la tesi di precarietà psicologica della Signora J.L., potendo la ricorrente lucidamente apportare il proprio personale consenso; e sottolineando altresì, a seguito di rilevate problematicità affettive esistenti internamente alla famiglia di provenienza, uno stato di personalità disinibita, specchio della fragilità familiare nella quale la vittima del reato è cresciuta. 

Una non inibizione comportamentale, tra l’altro, verbalmente riportata da più testimoni nel caso di specie.
Inoltre, tale giudizio di appello, viene suffragato in maniera concludente, dall’evidente assenza di graffi, o di segni, che sostengano l’avvenuta colluttazione. 

Il giudizio di tale Corte si esprime così a sfavore di una condanna stimabile penalmente; e che su tali basi, alle sei persone in stato di detenzione, debba accordarsi il dovuto rilascio in fatto e in diritto, poiché la testimoniata violenza carnale, non sussiste. 

Il 13 giugno 2015 la ricorrente decide di percorrere le vie giudiziali della Cassazione, e per tali addotti motivi, si rivolge al pubblico ministero.
Tale azione non si rende concretizzabile, e la pronuncia in appello assume le fattezze di un giudicato definitivo il 20 luglio 2015. 

2.La giurisprudenza di merito. 

Le profilazioni giuridiche e giurisprudenziali poste a fondamento del giudicato in oggetto di ricorso n. 5671/16, nel caso J.L. contro Italia, 

sono le seguenti:
il codice penale, per il diritto interno italiano, nella rappresentazione codicistica degli artt. 609bis, 609ter, 609octies;
il codice di procedura penale negli artt. 392, 472 comma 3bis, 572, 576; 

il decreto legislativo n. 212 del 15 dicembre 2015 che riprende le disposizioni della Direttiva 2012/29/UE;
la legge n. 119 del 15 ottobre 2013;
la legge n. 69 del 19 luglio 2019 o «codice rosso»; 

il Codice etico dei magistrati nell’art. 12 comma 3;
il diritto internazionale, e nello specifico la «Dichiarazione dei principi fondamentali di giustizia relativa alle vittime della criminalità e dell’abuso di potere»;
le osservazioni finali del Comitato delle Nazioni Unite nel suo settimo rapporto sull’Italia, segnatamente all’eliminazione della discriminazione nei confronti delle donne, pubblicato il 4 luglio 2017;
la Convenzione di Instabul, ratificata dall’Italia il 10 settembre 2013 e entrata in vigore il 1° agosto 2014 a cura del Consiglio d’Europa, negli artt. 3, 15, 36, 54, 56; 

  •  l’avviso n. 11 del 2008 del Consiglio consultivo dei giudici europei (CCJE);
  •  la direttiva 2012/29/UE adottata il 25 ottobre 2012 del Parlamento europeo e del Consiglio, nel Considerando n. 17, e negli artt. 18, 19, 21, 22, 23;
  •  l’art. 8 CEDU;
  •  l’art. 14 CEDU.


3.La pronuncia di diritto.


La Suprema Corte di Strasburgo, statuisce in oggetto di pronuncia che la richiesta della ricorrente non è da considerarsi inconsistente ai sensi dell’art. 35§3 CEDU, né sono da addursi motivi ulteriori di irricevibilità. Il ricorso è, altresì, ritenuto pienamente ricevibile ai sensi degli artt. 8 e 14 della medesima Convenzione.
4.L’opinione dissidente del giudice Wojtyczek.
Tale giudice ritiene in fatto e in diritto che l’accertata violazione del predetto art. 8 della Convenzione, non possa essere ritenuta ricevibile per le eccezioni agli obblighi di adempimento aventi natura positiva, contraddistinguenti il testo giuridico del medesimo, e al medesimo tempo a quelli di sensibile obbligo di astensione di natura negativa.
La ricevibilità non può per quest’ultimo fondarsi su un discorso di mera violazione del rispetto dell’integrità della vittima e della sua vita personale e familiare, o di una violazione ben più evidente, quanto al medesimo tempo importante, quale quella della mancata protezione da una vittimizzazione secondaria della ricorrente, nel corso dell’intera procedura giudiziale, in maniera allegata quanto linearmente compartecipata.
Le due parafrasi giudiziali sono ritenute dal magistrato tra loro logicamente contrapposte e contrastanti. Inoltre, le valutazioni del Tribunale di Firenze appaiono, sempre per quest’ultimo, piuttosto arbitrarie, quanto poco approfondite, nella loro estensione di analiticità argomentativa nei confronti della realtà più complessa, e maggiormente inglobante, i fatti testimoniati dalla teste in sede processuale. 

Non vengono poi, in punta di diritto, spiegati i motivi pregiudizievoli avversi al ruolo della donna internamente alla società civile italiana. Viene resa evidente, invece, una stigmatizzazione procedurale e morale della vittima, finalizzante a sfavore della medesima, e degli stessi organi giudicanti, la perdita di fiducia nell’autorità, e nell’espressione del bilanciamento dei diritti, da esercitarsi nell’amministrazione della giustizia. 

In maniera concludente il giudizio di incidentalità, viene a precisare in sede processuale, che le sanzioni penali rivestano un ruolo cruciale nel rispondere le istituzioni alla repressione della violenza di genere, e alla lotta alla ineguaglianza dei sessi. 

A tal proposito, il giudice Wojtyczek, esprime la sua posizione favorevole nei confronti della democrazia liberale, senza sovrastimare il ruolo esercitato dal diritto penale nella lotta alla violenza e alle diseguaglianze. 

Ed inoltre, riprendendo, ulteriormente, le sue affermazioni presenti a pedice di sentenza, vocarsi alla tutela e salvaguardia dei diritti e delle libertà dell’uomo, non deve, per lo stesso giudice Wojtyczek, nondimeno, alimentare un c.d. «vento illiberale», che ad oggi, soffia autonomamente, nelle aule della Suprema Corte. 

Dott.ssa Lucia D’Angelo

Studio Penale Scialla

L’«IRRETRATTABILITÀ» DELL’AZIONE PENALE E L’INTERRUZIONE DEL «NESSO DI CAUSALITÀ»

Sommario: 1.La sussistenza del rapporto di causalità nella fisiologia «debitoria» dell’interruzione del «nesso causale»; 2.L’«irretrattabilità» dell’azione penale; 3.Conclusioni.

1.La sussistenza del rapporto di causalità nella fisiologia «debitoria» dell’interruzione del «nesso causale».

La condotta illecita, implica, endemicamente all’esperibilità dell’azione penale da imputarsi all’evento dannoso o actio delicti da rilevarsi, l’individuazione della «genetica» orogenesi, chiarificatrice quest’ultima, delle connesse o sconnesse, proposizioni «causali» di relativa inerenza.

La genetica causale, si radicalizza, significativamente, nella estemporanea obiettiva o subiettiva «misura», pertinente, al materiale «effetto-conseguenza» dell’«azione» o «omissione» generata dal reo.

Tale c.d. «effetto-conseguenza», è definibile ai sensi dell’art. 40 c.p., quale «nesso causale».

Il «nesso causale», può essere, verosimilmente, soggetto, nei termini del predetto articolo, a una condizione di c.d. «interruzione», o, più propriamente, di sospensione o scollamento tra condotta ed evento, assimilante, come noto, e, perciò stesso, una sostanziale «interruzione causale».

Ciononostante, si potrebbe ipotizzare, dal punto di vista meramente teorico-applicativo, che una genesi causale, continui a persistere, e, a mantenere in sé, intrinsecamente «integra», l’identificazione di specie del suddetto «nesso causale» originario di prima facie.

Ovvero, la partenogenesi giuridica della «significanza causale» attribuibile alla fattispecie ivi rappresentabile, presente, incondizionatamente, endemicamente alla cognitività di valore, e di valutazione, di persistente presenza del proprio iniziale «nesso» caratteristico interiore o esteriore al fatto (o actio delittuosa) da oggettivare, formalmente, positivamente, e sostanzialmente, dichiarandone effetti propri, proprie conseguenze, prevalentemente sussistenti l’azione di sospensione o scollamento tra condotta ed evento in factum e in actio.

Ciò, potrebbe dare luogo, a più concreti risultati di «esperibilità» giudiziale, nei termini di una condizionalità «attiva» di ordine generale, riferibile alla

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cognitività causale, non genericamente intesa, svelante una più consistente positiva congruità e consistenza probatoria del nesso di esternalità, di interiore concezione, del pretermesso «nesso di causalità» al di là di una sua eventuale, attribuibile, attiva o passiva, interruzione o sospensione.

2.L’«irretrattabilità» dell’azione penale.

Una recente sentenza della seconda sezione penale della Cassazione, in ordine alla pronuncia n. 18653/2021, ha ribadito l’acquisizione giurisprudenziale, e la relativa applicazione di «diritto», da parte dei giudici di merito, e della stessa Suprema Corte, della tassatività del principio d’«irretrattabilità» dell’azione penale.

L’inerente applicazione, presenta caratteri di «universalità» nel perimetro di definizione dato dai pertinenti criteri procedurali e di «valore».

Eppure, secondo quanto affermato dalla stessa Corte (nel rapportarsi alla fattispecie argomentata internamente alla predetta sentenza), sussistono, nondimeno, delle plausibili «obiezioni» di natura procedimentale, in ragione delle quali, il giudice di competenza, può avanzare, un’attività di sospensione o di relativo annullamento, da porsi, eventualmente, in essere, unicamente in sede giudicante, segnatamente ai fatti, in maniera pregressa, rilevati ed evidenziati, dal PM:

«[…]con riferimento alla “ratio” della disciplina dettata dall’art. 39 D. Lg.vo 231 del 2001, inducono il collegio a condividere la tesi secondo cui deve ritenersi abnorme l’ordinanza con cui il giudice, previa declaratoria di nullità di atti concernenti la posizione di taluni imputati, disponga la restituzione degli atti al PM anche in relazione alle posizione soggettive non attinte dalle predette nullità, determinando così un’indebita regressione del procedimento, in contrasto con il principio di irretrattabilità dell’azione penale e con il principio logico che non consente di ripetere atti già validamente e utilmente compiuti. (cfr., in tale senso, Cass. Pen., 2, 10.9.2015 n. 46.640, PM in proc. Ferrari ed altro; Cass. Pen., 1, 2.2.2016 n. 20.111, conf., comp. in proc. Zilio).».

Sensibilmente, integrabile, in materia, e, parimenti stimabile in ragione di ciò, la seguente disposizione n. 25911, fornitaci dalla Suprema Corte di Cassazione Penale, terza sezione, risalente al 1° agosto 1990 (rintracciabile a

1 Si consulti, a tal proposito, il codice di procedura penale, 48esima edizione commentata, curato da P. CORSO, Piacenza, 2021, pag. 1280, in materia di «b) Irretrattabilità dell’azione penale.».page2image26468224

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chiusura della lettera «b)Irretrattabilità dell’azione penale», pag. 1280, Libro V – «Indagini e Udienza», Titolo VIII – «Chiusura delle indagini preliminari», art. 405 – «Inizio dell’azione penale. Forme e termini» con inerenza al c.p.p. e del Processo penale minorile, di P. Corso, ed. 2021) per la quale: «una volta che abbia chiesto il rinvio a giudizio, il P.M. nell’udienza preliminare, non può più chiedere l’archiviazione, ed il giudice di detta udienza, se non ritenga di disporre il giudizio, non può che emettere sentenza di non luogo a procedere.».

3.Conclusioni.

In nota alla presente breve riflessione, è nondimeno possibile, mettere teoricamente in rilievo, da un punto di vista finemente «relazionale» e «razionale» di genus a species, una possibile sostanzialità di «giuridica caducità», o «incongruità funzionale», sussistente tra evento e condotta, intrinsecamente alla sospensione o interruzione di un inerente «nesso di causalità».

Ciò si rivela potenziale forza creatrice di ordine normativo, intrinsecamente riconducibile, come noto, a una probabile previsione di una c.d. «inescusabilità dell’interruzione» del relativo nesso causale, interna a quell’«istintiva proporzionalità» presente tra movente ed effetto, che giuristi canonisti correlano, invero, alla causalità giuridica, giudiziaria e giudiziale.

Dott.ssa Lucia D’Angelo Roma 5.10.2021

Avv. Massimiliano Luigi Scialla