La demolizione nell’abuso edilizio NON estingue SEMPRE il reato

La demolizione nell’abuso edilizio NON estingue SEMPRE il reato

Beni Ambientali.Spontanea rimessione in pristino

 DettagliCategoria principale: Beni AmbientaliCategoria: Cassazione PenalePubblicato: 19 Ottobre 2020Visite: 748

Cass. Sez. III n.26325 del 21 settembre 2020 (UP 3 lug 2020)
Pres.Andreazza Est. Semeraro Ric. Stallone
Beni Ambientali.Spontanea rimessione in pristino

La speciale causa estintiva, prevista dall’art. 181 comma 1-quinquies d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 opera a condizione che l’autore dell’abuso si attivi spontaneamente alla rimessione in pristino delle aree o degli immobili soggetti a vincolo paesaggistico, anticipando l’emissione del provvedimento amministrativo ripristinatorio. L’applicabilità di tale causa estintiva è subordinata al fatto che la rimessione in pristino da parte dell’autore dell’abuso sia spontanea e non eseguita su impulso dell’autorità amministrativa.  L’estinzione si ha, pertanto, solo quando non sia stata ancora disposta d’ufficio dalla P.A.; è necessario cioè che l’autore dell’abuso si attivi spontaneamente alla rimessione in pristino e, quindi, prima che la P.A. la disponga, perché l’effetto premiale può realizzarsi solo in presenza di una condotta che anticipi l’emissione del provvedimento amministrativo ripristinatorio.

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza del 26 giugno 2019 la Corte di appello di Palermo ha confermato la condanna inflitta a Gaetano Stallone ed Agata Indelicato dal Tribunale di Marsala alla pena di un mese di arresto ed € 57.000 di ammenda per i reati di cui agli artt. 95 d.P.R. 380/2001 (capo B), 181 comma 1-bis d.lgs. 42/2004 (capo C), 734 cod. pen. (capo D) per la costruzione di una sopraelevazione di 59 mq. e di una tettoria, alle spalle della sopraelevazione, di circa mq. 18, in zona sismica, senza il necessario preavviso e senza la necessaria autorizzazione, in zona vincolata senza autorizzazione paesistica, in zona di notevole interesse pubblico alterando le bellezze naturali. In Campobello di Mazara fino al 18 gennaio 2016.

2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore degli imputati.
2.1. Con il primo motivo si deduce il vizio della motivazione; la Corte di appello avrebbe erroneamente ritenuto che i ricorrenti abbiano demolito le opere per le quali hanno ottenuto la concessione in sanatoria del 17 marzo 2017; con tale concessione sarebbero stati sanati gli abusi commessi dal precedente proprietario dell’immobile e parte degli illeciti commessi dai ricorrenti, tra cui una scala in cemento armato. La corte territoriale avrebbe ritenuto erroneamente che i motivi di appello siano contraddittori. Vi sarebbe una evidente illogicità o contraddittorietà della motivazione della sentenza.
2.2. Con il secondo motivo si deduce il vizio della motivazione con riferimento al capo c), ex art. 181 comma 1-bis d.lgs. 42/2004. Sarebbe stata omessa la risposta al primo motivo di appello su tale capo.
2.3. Con il terzo motivo si deducono i vizi di violazione di legge e della motivazione in relazione al reato ex art. 734 cod. pen. 
La Corte di appello avrebbe erroneamente ritenuto che la concessione in sanatoria non abbia estinto il reato ex art. 734 cod. pen., in contrasto con quanto previsto dall’art. 39 comma 7 della legge 724/1994.
Mancherebbe poi la motivazione con riferimento al quarto motivo di appello relativo alla mancanza di motivazione della sentenza di primo grado sulla sussistenza di una permanente menomazione della bellezza del luogo e sulla concreta idoneità della condotta di deturpamento.
2.4. Con il quarto motivo si deduce la violazione dell’art. 181 comma 1- quinquies d.lgs. 42/2004. La Corte di appello avrebbe erroneamente ritenuto che, per aversi l’estinzione del reato, la demolizione avrebbe dovuto precedere la sentenza di condanna e l’emissione del provvedimento di demolizione da parte dell’autorità amministrativa. Invece, l’art. 181 comma 1-quinquies consentirebbe l’effetto estintivo, in caso di demolizione prima della sentenza di condanna, anche nel caso di demolizione successiva all’ingiunzione amministrativa.
La demolizione sarebbe avvenuta prima della citazione a giudizio e ciò emergerebbe dalla richiesta di dissequestro dell’immobile, presentata alla Procura della Repubblica di Marsala, per procedere alla demolizione delle opere.
2.5. Con il quinto motivo si deducono i vizi di violazione di legge e della motivazione sul rigetto della richiesta di applicazione dell’art. 131-bis cod. pen.; il rigetto sarebbe fondato sull’abitualità delle condotte.
I ricorrenti avrebbero invece dimostrato che le opere abusive realizzate al primo piano furono realizzate dal precedente proprietario (Antonino Bono) che il 30 giugno 1986 presentò l’istanza per la sanatoria.
Nessun procedimento per illeciti edilizi sarebbe sorto a carico degli imputati.
Inoltre, l’applicabilità dell’art. 131-bis cod. pen. deriverebbe dalla scarsa consistenza delle opere abusive con minima lesione dell’interesse protetto, anche a seguito della demolizione delle opere.
2.6. Con il sesto motivo si deduce il vizio della motivazione in relazione all’art. 95 d.P.R. 380/2001; la Corte di appello ha ritenuto che il reato ex art. 95 non possa essere dichiarato estinto poiché le opere abusive non sarebbero state sanate ma demolite. Invece, parte delle opere abusive sarebbero state sanate dal permesso di costruire n. 27 del 17 marzo 2017.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il primo motivo è manifestamente infondato.
Nella sentenza non vi è alcuna contraddittorietà: la corte territoriale ha chiaramente distinto le opere oggetto della concessione in sanatoria del marzo del 2017 – che non riguardano quelle oggetto del capo di imputazione (come invece ritenuto erroneamente dal Tribunale di Marsala, in relazione al capo a, ma confermato dai ricorrenti) – e quelle demolite, oggetto dell’imputazione (cfr. pagina 5 punto 5). Né l’eventuale erronea qualificazione dei motivi di appello come contraddittori inciderebbe sulla ratio decidendi.

2. Manifestamente infondati sono il secondo ed il quarto motivo: la Corte di appello ha esplicitamente motivato sulla sussistenza del reato di cui al capo c), ex art. 181 comma 1-bis d.lgs. 42/2004, valutando non solo la realizzazione delle opere in zona vincolata, senza il preventivo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, ma anche l’irrilevanza della demolizione eseguita non spontaneamente dagli imputati.
2.1. La demolizione è stata effettuata a seguito dell’emissione dell’ingiunzione alla demolizione, il 22 febbraio 2016, da parte del comune di Campobello di Mazara.
Orbene, va rilevato che è contestato agli imputati il reato di cui all’art. 181 comma 1-bis d.lgs. 42/2004, poiché l’opera è stata realizzata in area sottoposta a vincolo di notevole interesse pubblico con apposito provvedimento emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori, per cui non opera la causa estintiva di cui al comma 1-quinquies.
2.2. Va ribadito il principio per cui la rimessione in pristino delle aree o degli immobili assoggettati a vincolo paesaggistico, spontaneamente eseguita dal trasgressore, per la sua natura eccezionale, estingue solo il reato previsto dal comma primo e non dal comma 1-bis, dell’art. 181 del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (Sez. 3, n. 33542 del 19/06/2012, Cavaletto, Rv. 253139-01).
2.3. In ogni caso, anche ove si volesse ritenere che la condanna sia avvenuta per il comma 1 dell’art. 181 d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, la decisione della Corte di appello è corretta.
Infatti, la speciale causa estintiva, prevista dall’art. 181 comma 1-quinquies d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 – «La rimessione in pristino delle aree o degli immobili soggetti a vincoli paesaggistici da parte del trasgressore, prima che venga disposta d’ufficio dall’autorità amministrativa, e comunque prima che intervenga la condanna, estingue il reato di cui al comma 1» – opera a condizione che l’autore dell’abuso si attivi spontaneamente alla rimessione in pristino delle aree o degli immobili soggetti a vincolo paesaggistico, anticipando l’emissione del provvedimento amministrativo ripristinatorio: cfr. in tal senso Sez. 3, n. 37822 del 12/06/2013, Battistelli, Rv. 25651801.
Come osservato dalla sentenza Battistelli, l’applicabilità della speciale causa estintiva di cui all’art. 181 comma 1-quinquies è subordinata al fatto che la rimessione in pristino da parte dell’autore dell’abuso sia spontanea e non eseguita su impulso dell’autorità amministrativa. 
L’estinzione si ha, pertanto, solo quando non sia stata ancora disposta d’ufficio dalla P.A.; è necessario cioè che l’autore dell’abuso si attivi spontaneamente alla rimessione in pristino e, quindi, prima che la P.A. la disponga, perché l’effetto premiale può realizzarsi solo in presenza di una condotta che anticipi l’emissione del provvedimento amministrativo ripristinatorio. 
Se si fosse voluto far riferimento solo alla sentenza di condanna non avrebbe avuto alcun senso richiamare il provvedimento disposto d’ufficio dalla P.A.; il legislatore ha voluto porre l’accento sul carattere (necessariamente) spontaneo della rimessione in pristino per farne derivare l’effetto estintivo del reato.

3. Manifestamente infondato è il terzo motivo relativo al reato ex art. 734 cod. pen.: come chiaramente rilevato dalla Corte di appello, la concessione in sanatoria non si riferisce alle opere oggetto dell’imputazione sicché gli effetti non sono minimamente invocabili nel processo.
Contrariamente a quanto si afferma nel ricorso, vi è poi una esplicita motivazione da parte della Corte di appello sulla sussistenza del reato ex art. 734 cod. pen. per le dimensioni dell’opera, realizzata in sopraelevazione di altra abusiva, e non ancora condonata al momento della costruzione, in zona sottoposta a vincolo ambientale, a 500 metri dal mare.

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Delitto di calunnia ex art. 368 c.p., quale è l’elemento soggettivo richiesto per la punibilità?

Cassazione penale sez. VI, 27/04/2022, n.21632

L’accertamento del dolo nel reato di calunnia si attua mediante un processo logico deduttivo che, partendo dalle modalità esecutive dell’azione, risale alla sfera intellettiva e volitiva del soggetto

In tema di calunnia, l’elemento soggettivo, che deve estendersi alla consapevolezza di esporre al rischio di un procedimento penale l’accusato che si sa innocente, è evidenziato dalle concrete circostanze e dalle modalità esecutive che definiscono l’azione criminosa, dalle quali, con processo logico deduttivo, è possibile risalire alla sfera intellettiva e volitiva del soggetto ai fini dell’accertamento del dolo.

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza impugnata la Corte di appello di Lecce, in parziale riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Lecce, ha assolto T.G. dal reato di calunnia, limitatamente all’episodio del (OMISSIS) perché il fatto non sussiste, confermandone la condanna alla pena di anni due di reclusione, con il beneficio della sospensione condizionale, per gli altri episodi ascritti.

2. Propone ricorso per cassazione il difensore di fiducia di T.G., avv. Giovanni Ladisi, articolando quattro motivi di ricorso.

2.1 Con il primo motivo deduce i vizi di violazione di legge, di mancanza della motivazione in merito alla applicabilità dell’art. 49 c.p., ed alla configurabilità del reato in relazione all’episodio del (OMISSIS), nonché di contraddittorietà della motivazione nella parte in cui, da un lato, ha escluso la sussistenza del reato con riferimento allo scritto del (OMISSIS) e, dall’altro, ne ha ravvisato la sussistenza con riferimento agli altri scritti, pur essendo questi tra loro sovrapponibili in quanto relativi al medesimo fatto storico e rappresentanti identiche doglianze. La Corte territoriale ha omesso, inoltre, di valutare il fine perseguito dall’imputato (la valutazione della condotta del D.C.) ed il movente della sua condotta (l’avere subito un’ingiustizia) ed avrebbe dovuto, sulla base della connotazione di tale condotta, escluderne l’inidoneità, ravvisando un reato impossibile.

2.2 Con il secondo motivo deduce vizi cumulativi di violazione dell’art. 43 c.p. e di motivazione con riferimento all’elemento psicologico del reato avendo il T. agito nell’intima convinzione di avere subito un torto a nulla rilevando la sua qualifica professionale di dottore commercialista.

2.3 Con il terzo motivo deduce il vizio di violazione dell’art. 81 c.p., in relazione all’omessa rideterminazione del trattamento sanzionatorio a seguito dell’assoluzione dal reato commesso il (OMISSIS) non essendo rilevante, in difetto di impugnazione del Pubblico ministero, che il Giudice di primo grado abbia omesso di applicare l’aumento a titolo di continuazione.

2.4 Con il quarto motivo deduce i vizi cumulativi di violazione di legge e di motivazione in merito alla omessa concessione delle circostanze attenuanti generiche, non avendo i Giudici di merito considerato le dichiarazioni di rinuncia alle azioni giudiziali sottoscritte dalla persona offesa. 

DirittoCONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è inammissibile in quanto fondato su motivi, in parte, non consentiti e, in parte, generici e manifestamente infondati.

2. Ciò premesso, i primi due motivi, da esaminare congiuntamente in quanto tra loro logicamente connessi, sono inammissibili perché generici, meramente reiterativi dei medesimi motivi di appello e volti a sollecitare una diversa lettura delle risultanze processuali, estranea al perimetro del giudizio di legittimità.

Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, la calunnia è un reato di pericolo che si realizza con una condotta tale da creare il concreto rischio di inizio di un’indagine, sia che venga realizzata con una falsa denunzia che con la simulazione di tracce del reato. Non e’, quindi, necessario che vi sia l’effettivo avvio di un’indagine ma, laddove ciò non avvenga, occorre valutare se, nel caso concreto, la condotta fosse del tutto inidonea a creare il rischio di inizio di un procedimento penale come, ad esempio, allorché la falsa accusa abbia ad oggetto fatti manifestamente e a prima vista inverosimili o incredibili per le circostanze in cui è effettuata, per i modi in cui è espressa e per l’assoluta inattendibilità del suo contenuto, sì che l’accertamento della sua infondatezza non abbisogni di alcuna indagine. In tali casi l’azione si rivela sostanzialmente priva dell’attitudine a ledere gli interessi protetti, a norma dell’art. 49 c.p. (Sez. 6, n. 26177 del 17/03/2009, Vassura, Rv. 244357).

Ai fini della configurabilità del reato di calunnia non e’, dunque, necessario l’inizio di un procedimento penale a carico del calunniato, occorrendo soltanto che la falsa incolpazione contenga in sé gli elementi necessari e sufficienti per l’esercizio dell’azione penale nei confronti di una persona univocamente e agevolmente individuabile; cosicché soltanto nel caso di addebito che non rivesta i caratteri della serietà, ma si compendi in circostanze assurde, inverosimili o grottesche, tali da non poter ragionevolmente adombrare – perché in contrasto con i più elementari principi della logica e del buon senso – la concreta ipotizzabilità del reato denunciato, è da ritenere insussistente l’elemento materiale del delitto di calunnia (Sez. 2, n. 14761 del 19/12/2017, dep. 2018, Lusi, Rv. 272754; Sez. 6, n. 10282 del 22/01/2014, Romeo, Rv. 259268).

2.1 La sentenza impugnata ha fatto buon governo di tali coordinate ermeneutiche e, con motivazione immune da vizi logici o giuridici, ha chiarito la portata calunniosa degli esposti e della querela presentati dall’imputato in cui lo stesso ipotizzava diverse condotte criminose di cui si sarebbe reso responsabile il D.C., anche in concorso con il Giudice P., quali ad esempio, le false dichiarazioni a verbale rese con il “beneplacito del magistrato Pasculli”, l’abuso d’ufficio di quest’ultimo, ovvero le condotte di estorsione, atti persecutori e truffa di cui si sarebbe reso responsabile il D.C..

Esclusa, inoltre, l’inverosimiglianza o il carattere grottesco o assurdo del contenuto delle accuse, in quanto formulate in termini dettagliati e con richiami alla giurisprudenza di legittimità, la sentenza impugnata, con motivazione parimenti adeguata ed immune da vizi ha posto l’accento sulle competenze tecniche del ricorrente e sul contenuto delle accuse per ritenere sussistente la consapevolezza del T. della loro falsità e dell’innocenza della persona offesa.

Così facendo, ha fatto buon governo del principio di diritto già affermato da questa Corte, dal Collegio pienamente condiviso e ribadito, secondo cui in tema di calunnia, l’elemento soggettivo, che deve estendersi alla consapevolezza di esporre al rischio di un procedimento penale l’accusato che si sa innocente, è evidenziato dalle concrete circostanze e dalle modalità esecutive che definiscono l’azione criminosa, dalle quali, con processo logico deduttivo, è possibile risalire alla sfera intellettiva e volitiva del soggetto ai fini dell’accertamento del dolo (Sez. 6, n. 21204 del 03/04/2013, Cristofami, Rv. 255670).

E’ stato, infatti, chiarito che la consapevolezza del denunciante in merito all’innocenza dell’accusato è esclusa nel caso non ricorrente nella fattispecie in esame di cui la supposta illiceità del fatto denunziato sia ragionevolmente fondata su elementi oggettivi e seri tali da ingenerare dubbi condivisibili da parte di una persona, di normale cultura e capacità di discernimento, che si trovi nella medesima situazione di conoscenza (Sez. 6, n. 12209 del 18/02/2020, Abbondanza, Rv. 278753).

2.2 In considerazione della pluralità di denunce presentate in tempi diversi e presso diverse Autorità, nonché del loro contenuto, è stata, inoltre, legittimamente ravvisata una pluralità di reati. Va, al riguardo, ribadito, che la proposizione di plurime denunce contenenti false accuse depositate presso più autorità ed in luoghi distinti dà luogo ad una pluralità di reati, dovendosi escludere l’identità del fatto nel caso in cui la reiterazione della condotta avvenga con modalità spazio-temporali diverse (Sez. 6, n. 13416 del 08/03/2016, Pasquinelli, Rv. 267269).

2.3 Va, inoltre, aggiunto che, quanto allo scritto del 19 settembre, non sussiste un interesse concreto del ricorrente a dolersi della sua omessa valutazione posto che, pur essendo stata riconosciuta la continuazione tra i diversi episodi di calunnia, in concreto è stata applicata solo la pena base nel minimo edittale previsto dall’art. 368 c.p., cosicché, in caso di accoglimento della doglianza, potrebbero conseguire effetti in malam partem per il ricorrente con l’eventuale applicazione dell’aumento ai sensi dell’art. 81 c.p. per tale episodio criminoso.

3. Il terzo motivo è inammissibile in quanto manifestamente infondato. La Corte territoriale ha, infatti, correttamente giustificato la mancata riduzione del trattamento sanzionatorio in considerazione del fatto che il Giudice di primo grado aveva calcolato la sola pena base per il reato di calunnia, nel minimo edittale, senza operare alcun aumento a titolo di continuazione.

4. Anche il quarto motivo non supera il vaglio di ammissibilità in quanto aspecifico e privo di adeguato confronto con le argomentazioni della sentenza impugnata che ha escluso la sussistenza di elementi di segno positivo, ponendo, di contro, l’accento sull’assenza di alcuna forma di resipiscenza da parte del ricorrente.

Va, al riguardo, ribadito che il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche può essere legittimamente motivato dal giudice con l’assenza di elementi o circostanze di segno positivo, a maggior ragione dopo la riforma dell’art. 62-bis c.p., disposta con il D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito con modifiche nella L. 24 luglio 2008, n. 125, per effetto della quale, ai fini della concessione della diminuente, non è più sufficiente il solo stato di incensuratezza dell’imputato (Sez. 1, n. 39566 del 16/02/2017, Starace, Rv. 270986).

Le circostanze attenuanti generiche hanno, infatti, lo scopo di estendere le possibilità di adeguamento della pena in senso favorevole all’imputato, in considerazione di situazioni e circostanze che effettivamente incidano sull’apprezzamento dell’entità del reato e della capacità a delinquere del reo, sicché il riconoscimento di esse richiede la dimostrazione di elementi di segno positivo (cfr. Sez. 2, n. 9299 del 07/11/2018, dep. 2019, Villani, Rv. 275640).

5. L’inammissibilità dei motivi di ricorso, non consentendo il formarsi di un valido rapporto di impugnazione, preclude la possibilità di rilevare e dichiarare la prescrizione del reato maturata successivamente alla sentenza impugnata (Sez. U., n. 32 del 22/11/2000, Rv. 217266).

All’inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. Inoltre, il ricorrente va condannato al pagamento della somma di Euro tremila da versare in favore della Cassa delle Ammende, non potendosi ritenere che lo stesso abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. n. 186 del 2000). 

PQMP.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, il 27 aprile 2022.

Depositato in Cancelleria il 3 giugno 2022

Confisca diretta del denaro sul conto corrente e prova della sua derivazione da un titolo lecito: depositata la sentenza delle Sezioni Unite (42415/2021)

Confisca diretta del denaro sul conto corrente e prova della sua derivazione da un titolo lecito: depositata la sentenza delle Sezioni Unite (42415/2021)

Confisca conto corrente Sezioni Unite di Cassazione

Cassazione Penale, Sezioni Unite, 18 novembre 2021 (ud. 27 maggio 2021), n. 42415
Presidente Cassano, Relatore Mogini

Con ordinanza n. 7021/2021 era stata rimessa alle Sezioni unite la seguente questione di diritto: «se il sequestro delle somme di denaro giacenti su conto corrente bancario debba sempre qualificarsi finalizzato alla confisca diretta del prezzo del profitto derivante dal reato anche nel caso in cui la parte interessata fornisca la prova della derivazione del denaro da un titolo lecito».

Con sentenza numero 42415, depositata il 18 novembre 2011, le Sezioni Unite hanno affermato il seguente principio di diritto: «qualora il prezzo o il profitto derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca viene eseguita, in ragione della natura del bene, mediante l‘ablazione del denarocomunque rinvenuto nel patrimonio del soggetto, che rappresenti l’effettivo accrescimento patrimoniale monetario da quest’ultimo conseguito per effetto del reato; tale confisca deve essere qualificata come confisca diretta, e non per equivalente, e non è ostativa alla sua adozione l’allegazione o la prova dell’origine lecita del numerario oggetto di ablazione».

La questione rimessa all’esame delle Sezioni Unite è la seguente: “se il sequestro delle somme di denaro giacenti su conto corrente bancario debba sempre qualificarsi come finalizzato alla confisca diretta del prezzo o profitto derivante dal reato anche nel caso in cui la parte interessata fornisca la “prova” della derivazione del denaro da titolo lecito”.

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Le Sezioni Unite PENALI sul termine per l’adempimento degli obblighi nella sospensione condizionale della pena

Cassazione Penale sospensione condizionale della pena

1. La vicenda giudiziaria e la questione di diritto. – Con la pronuncia in commento, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno risolto la controversa questione (qui l’ordinanza di rimessione) relativa all’individuazione del termine entro cui il condannato debba adempiere all’obbligo risarcitorio cui sia stata subordinata la concessione in suo favore del beneficio della sospensione condizionale della pena, allorquando detto termine non sia stato fissato giudizialmente, in contrasto con il dettato dell’art. 165 c.p.

Nel caso di specie, il Tribunale di Lecce, in funzione di giudice dell’esecuzione, revocava il beneficio della sospensione condizionale della pena precedentemente concesso al condannato, essendo egli risultato inadempiente agli obblighi risarcitori disposti in favore della parte civile, cui risultava condizionato il beneficio della sospensione condizionale della pena, pur in assenza della fissazione giudiziale di un termine per il relativo adempimento.

Il giudice dell’esecuzione muoveva dal presupposto secondo cui, difettando un’espressa indicazione giudiziale, il termine di adempimento degli obblighi risarcitori dovesse essere individuato nel momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna a pena sospesa.

Pertanto, essendo la sentenza divenuta irrevocabile e non risultando elementi utili a provare la sussistenza di una causa scriminante l’inadempimento degli obblighi risarcitori, risultava integrata una delle ipotesi di revoca di diritto della sospensione condizionale della pena di cui all’art. 168, n. 1, c.p.

Ricorreva per cassazione la difesa del condannato che, richiamando alcuni principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità, sosteneva l’erroneità del provvedimento di revoca del beneficio della sospensione condizionale della pena.

Anzitutto, la difesa asseriva che, in caso di omessa fissazione giudiziale, il termine per l’adempimento andrebbe a coincidere con quello di cinque o due anni previsto dall’art. 163 c.p., non potendo diversamente operare le ordinarie regole civilistiche sull’immediata esigibilità delle prestazioni per cui non sia stato fissato un termine, regole che risulterebbero derogate proprio dal dettato dell’art. 165 c.p.

Conseguentemente, non essendo ancora decorso il suddetto termine, il giudice avrebbe dovuto, in luogo della revoca, adottare un provvedimento con cui assegnava al condannato un termine per adempiere.

La difesa lamentava, inoltre, l’omessa verifica delle concrete possibilità di adempiere del condannato, che risultava invero essere percettore di entrate di entità così modica da fondare un’assoluta impossibilità di adempiere, rilevante come fattore ostativo alla revoca del beneficio.

La Prima Sezione Penale, rilevando l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale in relazione al primo motivo di ricorso, rimetteva alle Sezioni Unite la seguente questione«se, in caso di sospensione condizionale della pena subordinata all’adempimento di un obbligo, il termine entro il quale l’imputato deve provvedere all’adempimento, qualora non sia stato già fissato in sentenza, coincida con quello del passaggio in giudicato della stessa o con quello previsto dall’art. 163 c.p.».

2. Le conseguenze della mancata fissazione giudiziale del termine di adempimento degli obblighi condizionanti: due gli indirizzi interpretativi. – Secondo il primo indirizzo giurisprudenziale richiamato, l’obbligazione risarcitoria cui sia stata subordinata la concessione del beneficio andrebbe qualificata come obbligazione pecuniaria immediatamente esigibile, di talché il termine per il suo adempimento dovrebbe individuarsi in relazione alla natura e al contenuto specifico dell’obbligazione stessa.  Ai sensi dell’art. 1183, co. 1, c.c., detto termine andrebbe a coincidere con il momento del passaggio in giudicato della sentenza[1]. Oltre a ciò, la disciplina dell’inadempimento andrebbe mutuata dalla disciplina codicistica di cui all’art. 1218 c.c., sicché la revoca del beneficio andrebbe esclusa in caso di impossibilità assoluta della prestazione derivante da causa non imputabile al condannato, causa di cui lo stesso potrebbe fornire prova in occasione del momento procedimentale previsto dall’art. 674 c.p.p. (udienza camerale di revoca del beneficio).

Per il secondo orientamento, invece, nel caso di omessa fissazione giudiziale del termine, dovrebbe applicarsi agli obblighi risarcitori lo stesso termine legislativamente previsto per la valutazione di meritevolezza del condannato al godimento del beneficio (termine pari, ai sensi dell’art. 163 c.p., a cinque anni per i delitti, due anni per le contravvenzioni)[2].

3. Il beneficio della sospensione condizionale della pena. – Preliminarmente, le Sezioni Unite ricostruiscono l’evoluzione legislativa della sospensione condizionale della pena[3].

Nata come istituto di carattere processuale (c.d. “condanna condizionale”) rispondente alla ratio di sottrarre all’ambiente rovinoso del carcere e ai suoi effetti criminogeni e disfunzionali chi non avesse ancora conosciuto l’esperienza detentiva[4], la sospensione condizionale della pena fu attratta nel novero degli strumenti di diritto sostanziale con l’entrata in vigore del codice Rocco del 1930.

La sospensione condizionale della pena si qualificò, dunque, come una delle prime misure in senso latoalternative alla detenzione, per tale intendendosi quelle risposte sanzionatorie variamente alternative per contenuto e struttura alla privazione della libertà realizzata nelle forme della restrizione carceraria[5].

Orientata al fine di ridurre il fenomeno della carcerazione di breve (o brevissima) durata, il beneficio assume, secondo la ricostruzione dottrinale prevalente, una duplice funzione: da un lato, è negativamente volto ad evitare l’esecuzione della pena, dall’altro, pur risultando uno strumento alternativo al carcere, conserva una positiva portata sanzionatoria[6].

La sospensione condizionale della pena è applicata contestualmente alla pronuncia della sentenza di condanna (fase c.d. decisoria) e sospende l’esecuzione delle pene principali e accessorie, per un periodo di durata pari a due anni, nel caso di contravvenzione, o a cinque anni, nel caso di delitto.

L’effetto estintivo che può conseguire alla concessione del beneficio in commento consegue, tuttavia, non all’applicazione della misura, ma al positivo superamento della prova cui il condannato è ammesso.

Il condannato dovrà, infatti, astenersi dal commettere ulteriori reati della stessa indole di quello per cui sia già intervenuta un’affermazione di responsabilità, risultando altresì obbligato ad adempiere all’eventuali prescrizioni cui sia stata subordinata la concessione del beneficio.

Tradizionalmente, al condannato potevano essere imposte prescrizioni attinenti alle restituzioni e al pagamento del risarcimento del danno, essendo altresì possibile per il giudice disporre la pubblicazione della sentenza di condanna a pena sospesa a titolo di riparazione del danno. Tanto valeva – ricorda la Corte – anche in relazione alla già citata figura della condanna condizionale, eccezion fatta per la previsione della pubblicazione della sentenza di condanna, non contemplata, mentre ammissibile era la condanna al pagamento delle spese del procedimento.

Se il nucleo essenziale della disciplina della sospensione condizionale della pena è rimasto nel tempo immutato, svariati sono stati gli interventi legislativi che hanno inciso sul beneficio, novellando, in particolare, la disposizione di cui all’art. 165 c.p. tramite la previsione di ulteriori obblighi all’adempimento dei quali subordinare la concessione della misura de qua. Si pensi alle previsioni legislative più recenti che hanno ammesso la subordinazione della concessione del beneficio all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato (l. n. 689/1981) ovvero alla prestazione di attività non retribuita in favore della collettività, sempre che il condannato non vi si opponga (l. n. 145/2004)[7].

In tal modo, la disciplina della sospensione condizionale si è arricchita di contenuti specialpreventivi, venendo a consistere, quantomeno per taluni condannati, in un programma di prescrizioni cui il soggetto è obbligato se vuole ottenere l’effetto estintivo[8]. In dottrina si è parlato in proposito di sospensione condizionale con obblighi o “con prova[9]”, come modello contrapposto a quello della sospensione condizionale “secca”, concessa senza che il condannato sia vincolato all’adempimento di particolari obblighi.

Il modello di sospensione condizionale con obblighi è l’unico applicabile ai condannati che abbiano già usufruito una prima volta della sospensione condizionale. Sempre che il cumulo delle pene loro inflitte si mantenga al di sotto delle soglie dettate per la concessione della misura dall’art. 163 c.p., tali soggetti saranno necessariamente tenuti ad adempiere ad uno degli obblighi di cui al co. 1 dell’art. 165 c.p.

Analoga regola trova applicazione anche in altri casi di subordinazione obbligatoria, che la Corte pure ripercorre. Si tratta di casi di conio più recente, relativi a condanne intervenute per alcuni reati contro la pubblica amministrazione (di cui agli artt. 314, 317, 318, 319, 319 ter, 319 quater, 320, 321 e 322 bis c.p.),  per il reato di furto in abitazione e furto con strappo (art. 624 bis c.p.), nonché relativamente ad una serie reati espressivi di violenza domestica o di genere.

Fuori dai casi di subordinazione obbligatoria, la tendenza registratasi nella prassi applicativa è quella della rinuncia all’esercizio dei poteri discrezionali attribuiti al giudice quanto alla definizione del contenuto prescrizionale della misura. Si è così di fatto delineato come modello prevalente quello della sospensione condizionale “secca” che, pur svuotato di contenuti risocializzanti[10], ha avuto un ottimo riscontro applicativo al punto che la sospensione condizionale è stata definita in dottrina come causa di desuetudine di altre misure in senso lato alternative alla detenzione, pur previste dal nostro ordinamento (i.e. le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi[11]).

4. La soluzione offerta dalle Sezioni Unite. – Tornando alla decisione in commento, nel risolvere il contrasto portato alla loro attenzione, le Sezioni Unite muovono dalla definizione della funzione del termine per l’adempimento degli obblighi cui sia stata subordinata la concessione della sospensione condizionale della pena.

L’evoluzione storica dell’istituto e l’interpretazione letterale dell’art. 165 c.p., inducono la Corte a ritenere che il termine giochi un ruolo essenziale all’interno della fattispecie. Gli obblighi imposti al condannato a pena sospesa, infatti, sono obblighi condizionanti, potendo essi incidere sulla revoca del beneficio, sia nel caso in cui costituiscano elemento accessorio della fattispecie, sia quando la completino.

Ne consegue la necessità che essi siano concretamente esigibili non prima che sia decorso un certo termine dal momento in cui sono imposti al condannato, in ossequio al principio di proporzionalità che orienta l’intero sistema penale.

Pertanto, il termine per l’adempimento non potrebbe coincidere con quello del passaggio in giudicato della sentenza, dal momento che ciò comporterebbe la sovrapposizione tra il dies a quo e il dies ad quem, così svalutando la lettera legis che impone invece la fissazione di un termine di adempimento diverso da quello iniziale, a meno di voler ammettere che tale termine possa iniziare a decorrere ante iudicatum, in chiaro contrasto con la presunzione assoluta di non colpevolezza.

La centralità del termine per l’adempimento degli obblighi condizionanti si ricava anche dalla circostanza che detti obblighi connotano in funzione special-preventiva la sospensione condizionale della pena, garantendo l’adesione del condannato ad un percorso di ravvedimento in cui si individua lo «scopo precipuo dell’istituto stesso» (cfr. Corte cost., sentenza n. 49//1975).

Il rapporto cui tali obblighi si collegano deve, pertanto, qualificarsi non già come rapporto di diritto privato, bensì come rapporto di diritto pubblico, intercorrente tra condannato e giustizia penale.

La concezione penalistica del termine di cui all’art. 165 c.p. giustifica, quindi, il rigetto dell’orientamento che ne sosteneva l’individuabilità in relazione alla natura e alla specie degli obblighi imposti, con conseguente affermazione dell’applicabilità delle regole civilistiche nel caso di coincidenza tra obblighi condizionanti e obbligazione civile derivante da reato.

Si osserva quindi che, se da un lato una lettura più attenta dell’art. 1183, co. 1, c.c. – interpretato alla luce del principio di buona fede e correttezza –, avrebbe comunque dovuto condurre a sostenere la concedibilità in favore del condannato di un termine di adempimento, ancorché esiguo, dall’altro, la natura penalistica di tale termine depone in sfavore dell’applicabilità della regola civilistica del quod sine die debetur, statim debetur, quale che sia la sua interpretazione più corretta.

D’altro canto, la Corte critica anche il secondo orientamento sopra richiamato secondo cui, in caso di mancata fissazione giudiziale, il termine di adempimento andrebbe a coincidere con quello di cui all’art. 163 c.p.

Difatti, detti termini rispondono a due distinte finalità. Quello di cui all’art. 163 c.p. è un termine legale ed indica il tempo concesso al condannato per confermare l’esito positivo del giudizio prognostico compiuto dal giudice al momento della concessione della misura. Diversamente, il termine di cui all’art. 165 c.p. è un termine giudiziale, utile a definire il trattamento special-preventivo riservato al condannato a pena sospesa così che possa tenere comportamenti sintomatici di una maggiore socialità.

L’affermazione della coincidenza dei due termini svaluta il ruolo che il termine di cui all’art. 165 c.p. assume nel sistema, data la sua rilevanza nel concorrere a definire la finalità special-preventiva che connota il beneficio.

Oltre a ciò, le Sezioni Unite osservano come il secondo indirizzo interpretativo si fondi su un erroneo presupposto: si postula la subordinazione dell’estinzione del reato all’adempimento degli obblighi condizionanti, nella specie dell’obbligo risarcitorio, mentre è la sospensione condizionale ad essere subordinata a detti obblighi, come se fosse ad essa apposta una clausola risolutiva.

Il termine di adempimento deve quindi essere espressamente individuato dal giudice in conformità al trattamento che si intende predisporre per il condannato al fine del miglior perseguimento della finalità del reinserimento sociale.

5. Le conseguenze dall’omessa fissazione giudiziale del termine di adempimento. – L’omessa fissazione del termine si traduce nell’omissione di una statuizione giudiziale obbligatoria a contenuto non predeterminato, che invero concorre a definire il trattamento rieducativo e quindi richiede l’apprezzamento di una serie di elementi non predefiniti, tra cui si annoverano senz’altro le reali condizioni economiche del condannato, quantomeno nel caso in cui l’obbligo abbia natura risarcitoria. La necessità di una valutazione di tal genere si impone al fine di verificare che il condannato possa effettivamente assolvere agli obblighi condizionanti, specie se di natura risarcitoria, ed evitare che il beneficio nasca già morto.

Deve quindi escludersi l’applicabilità della procedura di correzione dell’errore materiale, riservata alle omissioni di una statuizione giudiziale obbligatoria, di natura accessoria ma con contenuto predeterminato.

Piuttosto, le parti dovranno ricorrere agli ordinari mezzi di impugnazione per chiedere la riforma della sentenza che abbia omesso di statuire sul termine di adempimento.

In tal modo, il giudice d’appello potrà fissare detto termine e potrà farlo anche d’ufficio, in caso di mancata impugnazione della sentenza sul punto, senza che ciò si traduca nella violazione del divieto della reformatio in peius, essendo il termine elemento necessario ed ineliminabile del beneficio, concepito anche a vantaggio del condannato.

Laddove la sentenza sia divenuta irrevocabile senza che l’omissione sia stata riparata, spetterà al giudice dell’esecuzione provvedere alla fissazione del termine, su richiesta delle parti e anche a prescindere dalla presentazione di una domanda di revoca della sospensione condizionale della pena.

Qualora nemmeno il giudice dell’esecuzione sia investito della questione, il termine coincide con quello di cui all’art. 163 c.p., in ragione della lettura combinata delle norme di cui agli artt. 167 e 168 c.p. Se alla scadenza dei termini di cui all’art. 163 c.p. il condannato non ha adempiuto agli obblighi condizionanti, la sospensione della pena dovrà comunque essere revocata.

6. Riflessioni conclusive. Con la sentenza in commento le Sezioni Unite della Corte di Cassazione si esprimono su un contrasto interpretativo risalente nel tempo e relativo alle conseguenze della mancata fissazione giudiziale del termine di cui all’art. 165 c.p., così confermando, anzitutto, che nessuna nullità è prevista in tali casi e che l’obbligo di fissazione giudiziale si traduce in un obbligo privo di sanzione[12].

La soluzione adottata dalla Corte muove dal rilievo dell’autosufficienza della disciplina penalistica e risponde al principio del favor rei, posto che esclude che il termine per adempiere possa coincidere con quello del passaggio in giudicato della sentenza di condanna, che rappresenta invece soltanto il dies a quo. Rigettato, quindi, il primo orientamento interpretativo, le Sezioni Unite aderiscono al secondo soltanto in via residuale, ammettendo che il termine per l’adempimento possa coincidere con quello di cui all’art. 163 c.p. unicamente nei casi in cui né il giudice della cognizione né il giudice dell’esecuzione abbiano provveduto alla sua fissazione, considerato che, scaduto il termine di cui all’art. 163 c.p. senza che siano stati adempiuti gli obblighi condizionanti, dovrebbe comunque farsi luogo alla revoca del beneficio.

Un aspetto interessante della pronuncia in commento è offerto dalle affermazioni di principio che la Corte compie rispetto alla funzione del termine giudiziale di cui all’art. 165 c.p., definito come un termine che partecipa della finalità special-preventiva che la norma chiede essere perseguita nel caso concreto e che, invece, risulta sempre più attenuata nella prassi, ove si è maggiormente diffuso il modello di sospensione condizionale “secca”.

Se deve tendenzialmente escludersi la rispondenza della sospensione condizionale “secca” alle diverse funzioni della pena (prevenzione generale e speciale), alcuni rilievi critici possono invero essere mossi anche nei riguardi della sospensione condizionale c.d. “con prova”, specie relativamente ai casi di subordinazione obbligatoria che conseguono automaticamente all’affermazione di responsabilità per un determinato titolo di reato.

La valorizzazione del termine come elemento modulabile al fine del miglior perseguimento delle esigenze special-preventive in funzione della risocializzazione del condannato risponde pienamente al principio dell’individualizzazione della risposta sanzionatoria ed impone al contempo una riflessione sulla reale portata probatoria del beneficio della sospensione condizionale della pena.

Con la sentenza in commento si ribadisce quanto già espresso dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 49 del 1975, ovverosia che scopo precipuo dell’istituto della sospensione condizionale della pena è quello di garantire che il comportamento del reo si adegui ad un percorso di ravvedimento.  

Quest’affermazione di principio, unitamente alla rinnovata sensibilità espressa dalla Riforma Cartabia in materia di alternative alla detenzione, conduce a chiedersi se non sia giunto il tempo di provvedere alla valorizzazione dell’istituto della sospensione condizionale, tramite il ridimensionamento dell’area di operatività della sospensione “secca” e la contestuale ridefinizione dei connotati della sospensione “con prova”[13].

La sospensione condizionale “secca” andrebbe a ben vedere riservata ai casi in cui non siano ravvisabili bisogni risocializzativi, mentre la rivisitazione della sospensione condizionale “con prova” dovrebbe passare dal rafforzamento dei suoi contenuti e dall’assegnazione al giudice di una maggiore discrezionalità nella definizione del programma prescrizionale ma anche nella fase della revoca[14].

Si tratta di un processo che, nel quadro della Riforma Cartabia, ha già trovato spazio in relazione alle pene sostitutive di cui al nuovo art. 20 bis c.p. e che ben potrebbe essere riservato anche alla sospensione condizionale della pena, posto che la stessa continuerà ad essere applicabile e che le nuove pene sostitutive potranno trovare applicazione a condizione che il giudice non abbia ordinato la sospensione condizionale della pena[15]. Da un lato, ciò consentirebbe di recuperare la mancata inclusione dell’affidamento in prova tra le nuove pene sostitutive e di valorizzare la portata di misura di comunità della sospensione condizionale “con prova”, dall’altro, riservando la sospensione condizionale “secca” ai casi in cui non siano ravvisabili bisogni risocializzativi, tale scelta si tradurrebbe nella cristallizzazione di un’area in cui non si assiste ad un’impropria rinuncia alla risposta punitiva, bensì si realizza un consapevole arretramento dell’interesse pubblico alla punizione.

[1] In tal senso si esprimono ex multis Cass. pen., Sez. I, n. 47862/2017, Cass. pen., Sez. V, n. 36154/2018, nonché Cass. pen., Sez. I, nn. 10867/2020 e 6368/2020, muovendo dalla considerazione secondo cui l’adempimento degli obblighi risarcitori condizionanti consista nell’adempimento di un’obbligazione pecuniaria immediatamente esigibile. Diversi gli orientamenti espressi da Cass. pen., Sez. III, nn. 10581/2013 e 22658/2016, ove i giudici di legittimità avevano sostenuto che il termine di adempimento dovesse considerarsi scaduto decorsi novanta giorni dal passaggio in giudicato della sentenza, cfr. sul punto M. Sbezzi, Sospensione condizionale subordinata a obblighi risarcitori: la Cassazione fa chiarezza sul termine per adempiere, nota a Cass. pen., Sez. I, sentenza 16 gennaio 2020 (dep. 30 marzo 2020), n. 10867, in Il Penalista, 21 maggio 2020. A commento della sentenza n. 6368/2020 si veda, invece, A. Corbo, Questioni controverse nella giurisprudenza di legittimità, in Cassazione penale, 2020, 4, pp. 1424-1426.

[2] Si vedano ex multis Cass. pen., Sez. I, nn. 42109/2013 e 24642/2015, nonché Cass. pen., Sez. V, n. 9855/2018, ove diversamente si afferma che l’adempimento è esatto purché intervenga nel tempo di sospensione della pena.

[3] Sul punto si richiama anche M. Sbezzi, Sospensione condizionale subordinata a obblighi risarcitori: la Cassazione fa chiarezza sul termine per adempiere, op. cit., ove si ripercorre brevemente il percorso evolutivo dell’istituto de qua. Gli interventi normativi succedutisi possono così riassumersi: l. n. 689/1981 (introduzione della previsione relativa all’eliminazione delle conseguenze dannose e pericolose del reato; vincolo per il giudice a subordinare la concessione della sospensione ad almeno un adempimento, purché non inesigibile); l. n. 145/2004 (non più inesigibilità, ma in caso di condizioni economiche precarie, possibilità di prestare attività non retribuita in favore della collettività); l. n. 69/2015 (obbligo di condizioni in caso di sospensione pronunciata a favore di pubblici ufficiali, condannati per reati contro la p.a.; in particolare, necessario il pagamento di “una somma equivalente al profitto del reato ovvero all’ammontare di quanto indebitamente percepito”); l. n. 3/2019, c.d. “spazzacorrotti” (per i pubblici ufficiali, l’adempimento imposto deve corrispondere al “prezzo o profitto del reato”). Si aggiungono le modifiche intervenute ad opera della legge n. 36/2019, modificativa del regime della legittima difesa, e della legge n. 69/2019, recante disposizioni a tutela delle vittime di violenza domestica o di genere.

[4] G. Fiandaca, Art. 27 3° comma, in G. Branca (fondato da), A. Pizzorusso, Commentario della Costituzione. Rapporti civili. Art. 27 – 28, Bologna, Zanichelli Editore, 1991, p. 298. 

[5] C. Perini, Prospettive attuali dell’alternativa al carcere tra emergenza e rieducazione, in Diritto penale contemporaneo – Riv. Trim., 4/2017, p. 78.   

[6] F. Palazzo, R. Bartoli, Certezza o flessibilità della pena? Verso la riforma della sospensione condizionale, Torino, Giappichelli, 2007, p. 5. 

[7] Si riporta di seguito la formulazione attualmente vigente dell’art. 165, co. 1, c.p. recante la disciplina degli obblighi cui può essere sottoposto il condannato: «La sospensione condizionale della pena può essere subordinata all’adempimento dell’obbligo delle restituzioni, al pagamento della somma liquidata a titolo di risarcimento del danno o provvisoriamente assegnata sull’ammontare di esso e alla pubblicazione della sentenza a titolo di riparazione del danno; può altresì essere subordinata, salvo che la legge disponga altrimenti, all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato, ovvero, se il condannato non si oppone, alla prestazione di attività non retribuita a favore della collettività per un tempo determinato comunque non superiore alla durata della pena sospesa, secondo le modalità indicate dal giudice nella sentenza di condanna».

[8] Si vedano G. Fiandaca, Art. 27 3° comma, in G. Branca (fondato da), A. Pizzorusso, Commentario della Costituzione. Rapporti civili. Art. 27 – 28, op. cit., p. 299, D. Pulitanò, La sospensione condizionale della pena: problemi e prospettive, in A.A.V.V., Sistema sanzionatorio: effettività e certezza della penaAtti del Convegno di studio svoltosi a Casarano-Gallipoli, 27-29 ottobre 2000, Milano, Giuffrè, 2002, pp. 129 ss., M. Sbezzi, Sospensione condizionale subordinata a obblighi risarcitori: la Cassazione fa chiarezza sul termine per adempiere, op. cit., ove l’A. sottolinea come la sospensione condizionale «da abituale abito delle sentenze di condanna a pene contenute nei limiti di legge», stia sempre più rivestendosi di una funzione special-preventiva e rieducativa. Si veda pure A. Esposito, La sospensione condizionale della pena tra passato e presente, in M. Del Tufo (a cura di), La legge anticorruzione 9 gennaio 2019, n. 3, Giappichelli, Torino, 2019, pp. 43 ss.

[9] A. Della Bella, E. Dolcini, Per un riordino delle misure sospensivo-probatorie nell’ordinamento italiano, in A. Della Bella, E. Dolcini, Le misure sospensivo-probatorie. Itinerari verso una riforma,  Milano, Giuffrè, 2020, pp. 335 ss., in particolare pp. 338 ss.

[10] Si vedano in tal senso F. Giunta, L’effettività della pena nell’epoca del dissolvimento del sistema sanzionatorio, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1998, 2, p. 416; T. Padovani, Sospensione e sostituzione nella prospettiva d’un nuovo sistema sanzionatorio, ivi, 1985, 4, pp. 983 ss.; Id., Sanzioni sostitutive e sospensione condizionale della pena, ivi, 1982, 2, pp. 494 ss. 

[11] L’esigenza di razionalizzare i rapporti tra sospensione condizionale e sanzioni sostitutive è da tempo affermata, cfr. ex multis F. Palazzo, Le pene sostitutive: nuove sanzioni autonome o benefici con contenuto sanzionatorio?, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1983, 3, pp. 834 ss., E. Dolcini, Ancora una riforma della sospensione condizionale della pena?, ivi, 1985, 4, pp. 1012 ss.; E. Dolcini, C.E. Paliero, Il carcere ha alternative? Le sanzioni sostitutive della detenzione breve nell’esperienza europea, Milano, Giuffrè, 1989, p. 275 ss.; E. Dolcini, Principi costituzionali e diritto penale alle soglie del nuovo millennio, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1999, 1, p. 23; T. Padovani, Fuga dal carcere e ritorno alla sanzione. La questione delle pene sostitutive tra efficacia della sanzione ed efficienza dei meccanismi processuali, in A.A.V.V., Sistema sanzionatorio: effettività e certezza della pena, op. cit., pp. 73 ss. ove l’A. lamenta pure che l’esito italiano del ricorso alle misure sospensive e sostitutive ha finito con il determinare un’impropria rinuncia alla risposta punitiva, essendosi risolta in una abdicazione della pretesa punitiva in ragione della scarsa effettività ed efficacia di tali strumenti alternativi. 

[12] M. Sbezzi, Sospensione condizionale subordinata a obblighi risarcitori: la Cassazione fa chiarezza sul termine per adempiere, op. cit.

[13] Analoghe istanze sono state espresse in tempi recenti dal Gruppo di ricerca sulle misure sospensivo-probatorie coordinato dal Prof. E. Dolcini, i cui risultati sono raccolti nel volume A. Della Bella, E. Dolcini, Le misure sospensivo-probatorie. Itinerari verso una riforma,  op. cit., cfr. sul punto M. Donini, Le misure sospensivo-probatorie in fase decisoria, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2022, 1, pp. 235 ss.

[14] M. Donini, Le misure sospensivo-probatorie in fase decisoria, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, op. cit., p. 240.

[15] Art. 58, l. n. 689/1981.

SENTENZA CEDU CASO J.L. CONTRO ITALIA

(Ricorso CEDU- Corte Europea Diritti Uomo n. 5671/16) 

INTRODUZIONE 

Il parere requirente viene formulato dalla Corte in materia di art. 8 CEDU; di «obblighi positivi»; di secondaria persecuzione per la vittima, di un reato di abuso sessuale; di rispetto dell’integrità personale tutelata nel corso del processo inquirente; e di art. 44§2 della CEDU. 

SOMMARIO: 1.Il caso di specie; 2.La giurisprudenza di merito; 3.La pronuncia di diritto; 4.L’opinione dissidente del giudice WOJTYCZEK. 

1.Il caso di specie. 

Il ricorso in oggetto alla presente sede requirente della Suprema Corte di Strasburgo, coinvolge la Repubblica italiana, e la Signora J.L cittadina di tale Repubblica.
La Signora J.L. lamenta una violazione degli artt. 81 e 142 della CEDU, a fronte di un procedimento penale, adito, in occasione di un rilevato delitto di violenza sessuale ai danni di quest’ultima; un procedimento svoltosi in carenza di disposizioni cautelari a favore della vittima, quanto della sua vita privata e integrità personale. Nello specifico, così come reso evidente il 14 gennaio 2013 dal Tribunale di Firenze, venivano condannati in tale sede giudicante, sei dei sette accusati, per avere causato lesioni personali e psicologiche, a seguito di violenza carnale a danno della requirente, ciò ai sensi dell’art. 609bis §1 e 609octies. 

1 «Diritto al rispetto della vita privata e familiare». 2 «Divieto di discriminazione». 

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Tale Tribunale perveniva, di fatto, alla constatazione di profonde discrepanze, di carattere sostanziale, nella rilevazione di una reale partecipazione consensuale o meno da parte della vittima. Nell’accertamento della veridicità dei fatti contestati in sede giudicante, veniva rilevato dagli inquirenti, l’incoerenza quanto l’evidente carenza di requisiti logici nella ricostruzione del racconto, riportato dalla vittima, in specie della riproduzione iniziale dei fatti. Nella costruzione priva di sintagmi logici di interna coerenza sostanziale, il Tribunale di Firenze, si allinea a un costrutto giurisprudenziale maturato dalla Suprema Corte di Cassazione, nel poter fare propria una favorevole attestazione della predetta testimonianza fornita dalla Signora J.L. 

La Cassazione, difatti, utilizza quali parametri di percettibile credibilità, un procedimento di c.d. «valutazione frammentata» delle pervenute dichiarazioni della vittima in oggetto di procedimento di preliminari indagini per violenza carnale, e in assenza di rilevanza di contraddizioni nella ricostruzione dei fatti, o di nessi logici nella proposizione degli stessi. 

Un ulteriore elemento di evidente contraddizione viene, altresì, messo in luce, dalla certificazione medicale fornita dal centro antiviolenza, che rileva solo nelle successive 12 ore agli eventi riportati verbalmente dalla ricorrente, un riscontro di lesioni non compatibili con la violenza carnale paventata dalla vittima. 

Lo stesso Tribunale, rende nota, inoltre, l’effettiva insufficienza di prove, che possano, effettivamente, fare pensare a una serata trasgressiva trascorsa abusando di un’oggettiva inconsapevolezza della Signora J.L., in qualità di vittima dell’insana azione delittuosa. La ricostruzione avvenuta attraverso le prove testimoniali, conferisce elementi di reale constatazione dello stato di ebrezza della vittima, nello spazio temporale internamente al quale è collocabile l’efferato reato. 

Allo stato dei fatti, si è ritenuto di ipotizzare una volontà consenziente anche se non pienamente lucida.
Successivamente, il caso viene discusso in appello il 4 marzo 2015, per il quale appello ci si rifaceva, esclusivamente, alla valutazione 

della assuefatta precarietà di reazione da parte della vittima, poiché in evidente stato di stordimento da alcol, ai sensi del quale intorpidimento fosse da ipotizzarsi un’avvenuta grave lesione ai danni di quest’ultima, così come legislativamente sancito ai sensi dell’art. 609bis §2. 

La Corte d’Appello, stabilisce nel merito del suo discernimento, che la procedura di natura ispettiva posta in essere dal Tribunale di prima istanza, non concretizzasse in maniera soddisfacentemente corretta la tesi maturata dalla giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione, in materia di dichiarazioni rese da una vittima di violenza carnale. 

Il Tribunale di Firenze, aveva proceduto ad una valutazione frammentata delle diverse dichiarazioni della ricorrente, attestandone la relativa credibilità dando peso, esclusivamente, a una parte dei fatti da rilevarsi giudizialmente. 

La giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione, invece, segnala che un tale tipo di approccio è sostenibile solo se la testimonianza della vittima, faccia riferimento nella ricostruzione del suo racconto, a dei frammentati frangenti distinti e fra loro meramente indipendenti gli uni dagli altri, non riconducibili a un unico episodio di lesione. 

Sulla base di tale ricondotta analisi, la credibilità della vittima non è attestabile, e nemmeno testabile, statuisce la Corte.
Quest’ultima asserisce peraltro, che non è sostenibile la tesi di precarietà psicologica della Signora J.L., potendo la ricorrente lucidamente apportare il proprio personale consenso; e sottolineando altresì, a seguito di rilevate problematicità affettive esistenti internamente alla famiglia di provenienza, uno stato di personalità disinibita, specchio della fragilità familiare nella quale la vittima del reato è cresciuta. 

Una non inibizione comportamentale, tra l’altro, verbalmente riportata da più testimoni nel caso di specie.
Inoltre, tale giudizio di appello, viene suffragato in maniera concludente, dall’evidente assenza di graffi, o di segni, che sostengano l’avvenuta colluttazione. 

Il giudizio di tale Corte si esprime così a sfavore di una condanna stimabile penalmente; e che su tali basi, alle sei persone in stato di detenzione, debba accordarsi il dovuto rilascio in fatto e in diritto, poiché la testimoniata violenza carnale, non sussiste. 

Il 13 giugno 2015 la ricorrente decide di percorrere le vie giudiziali della Cassazione, e per tali addotti motivi, si rivolge al pubblico ministero.
Tale azione non si rende concretizzabile, e la pronuncia in appello assume le fattezze di un giudicato definitivo il 20 luglio 2015. 

2.La giurisprudenza di merito. 

Le profilazioni giuridiche e giurisprudenziali poste a fondamento del giudicato in oggetto di ricorso n. 5671/16, nel caso J.L. contro Italia, 

sono le seguenti:
il codice penale, per il diritto interno italiano, nella rappresentazione codicistica degli artt. 609bis, 609ter, 609octies;
il codice di procedura penale negli artt. 392, 472 comma 3bis, 572, 576; 

il decreto legislativo n. 212 del 15 dicembre 2015 che riprende le disposizioni della Direttiva 2012/29/UE;
la legge n. 119 del 15 ottobre 2013;
la legge n. 69 del 19 luglio 2019 o «codice rosso»; 

il Codice etico dei magistrati nell’art. 12 comma 3;
il diritto internazionale, e nello specifico la «Dichiarazione dei principi fondamentali di giustizia relativa alle vittime della criminalità e dell’abuso di potere»;
le osservazioni finali del Comitato delle Nazioni Unite nel suo settimo rapporto sull’Italia, segnatamente all’eliminazione della discriminazione nei confronti delle donne, pubblicato il 4 luglio 2017;
la Convenzione di Instabul, ratificata dall’Italia il 10 settembre 2013 e entrata in vigore il 1° agosto 2014 a cura del Consiglio d’Europa, negli artt. 3, 15, 36, 54, 56; 

  •  l’avviso n. 11 del 2008 del Consiglio consultivo dei giudici europei (CCJE);
  •  la direttiva 2012/29/UE adottata il 25 ottobre 2012 del Parlamento europeo e del Consiglio, nel Considerando n. 17, e negli artt. 18, 19, 21, 22, 23;
  •  l’art. 8 CEDU;
  •  l’art. 14 CEDU.


3.La pronuncia di diritto.


La Suprema Corte di Strasburgo, statuisce in oggetto di pronuncia che la richiesta della ricorrente non è da considerarsi inconsistente ai sensi dell’art. 35§3 CEDU, né sono da addursi motivi ulteriori di irricevibilità. Il ricorso è, altresì, ritenuto pienamente ricevibile ai sensi degli artt. 8 e 14 della medesima Convenzione.
4.L’opinione dissidente del giudice Wojtyczek.
Tale giudice ritiene in fatto e in diritto che l’accertata violazione del predetto art. 8 della Convenzione, non possa essere ritenuta ricevibile per le eccezioni agli obblighi di adempimento aventi natura positiva, contraddistinguenti il testo giuridico del medesimo, e al medesimo tempo a quelli di sensibile obbligo di astensione di natura negativa.
La ricevibilità non può per quest’ultimo fondarsi su un discorso di mera violazione del rispetto dell’integrità della vittima e della sua vita personale e familiare, o di una violazione ben più evidente, quanto al medesimo tempo importante, quale quella della mancata protezione da una vittimizzazione secondaria della ricorrente, nel corso dell’intera procedura giudiziale, in maniera allegata quanto linearmente compartecipata.
Le due parafrasi giudiziali sono ritenute dal magistrato tra loro logicamente contrapposte e contrastanti. Inoltre, le valutazioni del Tribunale di Firenze appaiono, sempre per quest’ultimo, piuttosto arbitrarie, quanto poco approfondite, nella loro estensione di analiticità argomentativa nei confronti della realtà più complessa, e maggiormente inglobante, i fatti testimoniati dalla teste in sede processuale. 

Non vengono poi, in punta di diritto, spiegati i motivi pregiudizievoli avversi al ruolo della donna internamente alla società civile italiana. Viene resa evidente, invece, una stigmatizzazione procedurale e morale della vittima, finalizzante a sfavore della medesima, e degli stessi organi giudicanti, la perdita di fiducia nell’autorità, e nell’espressione del bilanciamento dei diritti, da esercitarsi nell’amministrazione della giustizia. 

In maniera concludente il giudizio di incidentalità, viene a precisare in sede processuale, che le sanzioni penali rivestano un ruolo cruciale nel rispondere le istituzioni alla repressione della violenza di genere, e alla lotta alla ineguaglianza dei sessi. 

A tal proposito, il giudice Wojtyczek, esprime la sua posizione favorevole nei confronti della democrazia liberale, senza sovrastimare il ruolo esercitato dal diritto penale nella lotta alla violenza e alle diseguaglianze. 

Ed inoltre, riprendendo, ulteriormente, le sue affermazioni presenti a pedice di sentenza, vocarsi alla tutela e salvaguardia dei diritti e delle libertà dell’uomo, non deve, per lo stesso giudice Wojtyczek, nondimeno, alimentare un c.d. «vento illiberale», che ad oggi, soffia autonomamente, nelle aule della Suprema Corte. 

Dott.ssa Lucia D’Angelo

Studio Penale Scialla