l reato di epidemia ai tempi del Coronavirus

l reato di epidemia ai tempi del Coronavirus

Il Coronavirus ha suscitato un rinnovato interesse per i reati di epidemia dolosa (art. 438 c.p.) ed epidemia colposa (art. 452 c.p.).

Alcune Procure della Repubblica, infatti, stanno conducendo accertamenti sulle procedure adottate per prevenire il contagio da Coronavirus in alcuni ospedali.

L’ipotesi di reato – a carico di ignoti – è quella di epidemia colposa prevista dall’art. 452 c.p.

Commette il reato di epidemia colposa, ad es., colui che, consapevole di aver contratto il Coronavirus, continui a circolare liberamente diffondendo la malattia per negligenza o imprudenza, senza cioè osservare le disposizioni precauzionali imposte dal DPCM 8-3-2020.

Di seguito uno schema sulle principali caratteristiche dei due reati e l’estratto di una sentenza della Cassazione.

1. Epidemia dolosa (art. 438 c.p.)

Il delitto di epidemia, sconosciuto al codice Zanardelli, è stato introdotto dal legislatore del ‘30 in base alla considerazione che l’evoluzione scientifica ha incrementato la possibilità di procurarsi colture di germi patogeni e di diffonderli.
Il delitto di epidemia apre la serie delle norme poste a tutela dell’incolumità pubblica nel particolare settore della salute pubblica: il legislatore vuole evitare che una malattia infettiva, che abbia già interessato un certo numero di individui, ne colpisca altri, in modo da incrinare la sicurezza delle condizioni di salute della collettività.

La salute pubblica è un bene di rilevanza costituzionale (art. 32 Cost.) suscettibile di diverse interpretazioni.
Taluni autori attribuiscono al termine “salute” un significato ampio, che si identifica con l’equilibrio psico-fisico-ambientale, cioè con l’armonico equilibrio delle funzioni fisiche e mentali.
Un altro orientamento ritiene, invece, che il codice penale prenda in considerazione esclusivamente le cause che presentino una concreta attitudine a provocare una infermità o una malattia suscettibili di turbare in modo rilevante l’equilibrio anatomico-funzionale o psichico della persona.

In dottrina è discussa la natura di danno o di pericolo del delitto di epidemia.

Secondo un orientamento, la lesione della salute pubblica deve concretizzarsi in un danno effettivo consistente nella diffusione di determinate malattie. Si tratta, pertanto, di un reato di danno per la salute pubblica. È il danno che caratterizza la fattispecie, mentre il pericolo per la salute pubblica costituisce un effetto eventuale del delitto in relazione all’ulteriore capacità espansiva e diffusiva dell’epidemia.

Parte della dottrina ritiene, invece, che si tratti di un reato di pericolo concreto, che richiede una minaccia concreta per una collettività indeterminata di persone. Il numero elevato di persone colpite non viene in rilievo di per sé, bensì in quanto segno di diffusione incontenibile della malattia. È il pericolo per la pubblica incolumità, connesso alla diffusività del male, che caratterizza il delitto di epidemia. Se l’epidemia richiede la diffusività della malattia, senza tale pericolo non vi è epidemia.

Secondo la tesi preferibile, affinché la fattispecie punita dall’art. 438 c.p. possa ritenersi integrata occorre che la condotta del reato di epidemia, consistente nella diffusione dì germi patogeni, cagioni un evento definito come la manifestazione collettiva di una malattia infettiva umana che si diffonde rapidamente in uno stesso contesto di tempo in un dato territorio, colpendo un rilevante numero di persone. L’evento che ne deriva è quindi, al contempo, un evento di danno e di pericolo, costituendo la malattia (danno) come il fatto iniziale di ulteriori possibili danni (pericolo), cioè il concreto pericolo che il bene giuridico protetto dalla norma, rappresentato dall’incolumità e dalla salute pubblica, possa essere ulteriormente leso.

Il delitto di epidemia è un reato di evento a forma vincolata, in quanto il soggetto deve cagionare l’evento dell’epidemia mediante quel particolare comportamento consistente nella diffusione di germi patogeni.
La diffusione può avvenire tramite spargimento in terra, acqua, aria, ambienti e luoghi di ogni tipo, di germi patogeni idonei; liberazione di animali infetti; messa in circolazione di portatori di germi o di cose provenienti da malati; inoculazione di germi a determinati individui; scarico di rifiuti in acqua ecc.

Secondo una tesi restrittiva la norma punisce chi cagioni l’epidemia mediante diffusione di germi patogeni di cui abbia il possesso (per esempio, animali da laboratorio), mentre deve escludersi che una persona affetta da malattia contagiosa abbia il possesso dei germi che la affliggono.
Deve ritenersi, al contrario, che ai fini della diffusione non sia necessario che il soggetto agente e i germi siano entità separate, ben potendo aversi epidemia quanto l’agente sia esso stesso il vettore dei germi patogeni. Ciò significa che commettere il reato anche colui il quale, consapevole di aver contratto un virus, continui a circolare liberamente, diffondendo la malattia.

Con il termine epidemia si intende una malattia infettiva suscettibile di colpire contemporaneamente un gran numero di persone e di diffondersi ulteriormente per contagio, per poi attenuarsi dopo aver compiuto il suo corso. Epidemia, quindi, non è qualunque malattia infettiva e contagiosa, ma soltanto quella suscettibile di diffondersi nella popolazione per la facile propagazione dei suoi germi, in modo da colpire in un unico contesto temporale un elevato numero di persone.
Al riguardo la giurisprudenza ha indicato come elementi dell’epidemia:
– il carattere contagioso del morbo;
– la rapidità della diffusione e la durata del fenomeno limitata nel tempo;
– il numero elevato di persone colpite, tale da destare un notevole allarme sociale e un correlativo pericolo per un numero indeterminato e notevole di persone;
– l’estensione territoriale ampia (normalmente, regionale). È escluso, quindi, che possa integrare il delitto in esame un focolaio epidemico che si manifesti in ambiente ristretto e rimanga localizzato, come per esempio in una comunità familiare o una struttura ospedaliera.

L’epidemia riguarda esclusivamente le malattie umane e non le malattie infettive degli animali o delle piante, le quali possono eventualmente configurare il delitto di cui all’art. 500 c.p. (Diffusione di una malattia delle piante o degli animali) o il reato di danneggiamento Se, tuttavia, la diffusione delle malattie alle piante o agli animali, per la propagazione dei germi patogeni, colpisce anche le persone, determinandosi così un pericolo per la salute di un indeterminato numero di individui, sussiste il reato di epidemia.

Il dolo è generico e consiste nella coscienza e volontà di diffondere germi patogeni, unite alla rappresentazione e volontà del contagio di un certo numero di persone.

Secondo un’opinione il dolo sarebbe caratterizzato dall’intenzione di cagionare l’epidemia, per cui l’unica forma di dolo ammissibile sarebbe quella del dolo intenzionale. Questa tesi è stata, però, respinta in quanto il dolo eventuale è perfettamente compatibile con la struttura del reato: si pensi all’ipotesi di uno sperimentatore che manipoli germi patogeni accettando il rischio di una loro diffusione epidemica.

Il reato si consuma al momento del verificarsi dell’epidemia e il tentativo è configurabile qualora si sia avuta diffusione di germi patogeni senza che sia derivata l’epidemia, o se il contagio si sia arrestato a pochi casi.
L’idoneità degli atti compiuti deve essere valutata sia in relazione alla qualità dei germi diffusi sia alle modalità della diffusione.

2. Epidemia colposa (artt. 438 e 452 c.p.)

Anche per l’epidemia colposa gli elementi costitutivi, in senso materiale, del reato sono la diffusione, la diffusibilità, l’incontrollabilità del diffondersi del male in un dato territorio e su un numero indeterminato o indeterminabile di persone. Il reato deve, perciò, escludersi se l’insorgere e lo sviluppo della malattia si esauriscano in un ambito circoscritto (ad esempio, nell’ambito di un ente ospedaliero).

Per l’epidemia colposa si deve stabilire se vi sia stata una diffusione imprudente, negligente, imperita ecc. di germi patogeni idonei a cagionare quell’epidemia realmente verificatasi.

La regola prudenziale violata può essere sociale o giuridica: per quest’ultima si può ipotizzare, ad esempio, l’inosservanza delle disposizioni per la prevenzione del Coronavirus.

Perché ci sia colpa, secondo i principi generali, oltre alla violazione della regola precauzionale occorrono:
– la prevedibilità dell’evento (l’agente, quindi, deve conoscere la qualità patogenetica dei germi);
– il superamento del rischio consentito.

Seguendo una tesi restrittiva, non incorre nel reato di epidemia colposa chiunque, in qualsiasi modo, provochi un’epidemia. come ad es. chi, sapendosi affetto da male contagioso, si mescoli alla folla pur prevedendo che infetterà altre persone. Infatti, la norma non punisce chiunque cagioni un’epidemia, ma chi la cagioni mediante la diffusione di germi patogeni di cui abbia il possesso, anche “in vivo” (animali di laboratorio), mentre deve escludersi che una persona, affetta da malattia contagiosa abbia il possesso dei germi che l’affliggono.

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Cass. pen., IV, 12-12-2017, n. 9133

Massima

In tema di epidemia colposa, non è configurabile la responsabilità a titolo di omissione, in quanto l’art. 438 c.p., con la locuzione “mediante la diffusione di germi patogeni”, richiede una condotta commissiva a forma vincolata incompatibile con il disposto dell’art. 40, co. 2, c.p., riferibile esclusivamente alle fattispecie a forma libera.

(estratto della motivazione)

Secondo l’accezione accreditata dalla scienza medica, per epidemia si intende ogni malattia infettiva o contagiosa suscettibile, per la propagazione dei suoi germi patogeni, di una rapida e imponente manifestazione in un medesimo contesto e in un dato territorio, colpendo un numero di persone tale da destare un notevole allarme sociale e un correlativo pericolo per un numero indeterminato di individui.

La nozione giuridica di epidemia è più ristretta e circoscritta rispetto all’omologo concetto elaborato in campo scientifico, in quanto il legislatore, con la locuzione “mediante la diffusione di germi patogeni” prevista nell’art. 438 c.p., ha inteso circoscrivere la punibilità alle condotte caratterizzate da determinati percorsi causali.

La dottrina maggioritaria nonché la giurisprudenza di merito e anche di legittimità (Sez. 4, n. 2597 del 26/1/2011, Ceriello) hanno infatti sottolineato che il fatto tipico previsto nell’art. 438 c.p. è modellato secondo lo schema dell’illecito causalmente orientato, in quanto il legislatore ha previsto anche il percorso causale, con la conseguenza che il medesimo evento realizzato a seguito di un diverso percorso, difetta di tipicità.

Pertanto l’epidemia costituisce l’evento cagionato dall’azione incriminata la quale deve estrinsecarsi secondo una precisa modalità di realizzazione, ossia mediante la propagazione volontaria o colpevole di germi patogeni di cui l’agente sia in possesso.

La materialità del delitto è costituita sia da un evento di danno, rappresentato dalla concreta manifestazione, in un certo numero di persone, di una malattia eziologicamente ricollegabile a quei germi patogeni, sia da un evento di pericolo, rappresentato dall’ulteriore propagazione della stessa malattia a causa della capacità di quei germi patogeni di trasmettersi ad altri individui anche senza l’intervento dell’autore della originaria diffusione.

La norma evoca, all’evidenza, una condotta commissiva a forma vincolata di per sé incompatibile con il disposto dell’art. 40, co. 2, c.p., riferibile esclusivamente alle fattispecie a forma libera o a quelle la cui realizzazione prescinde dalla necessità che la condotta presenti determinati requisiti modali.

Un indirizzo dottrinario del tutto minoritario inquadra la fattispecie di cui all’art. 438 c.p. e del correlato art. 452, co. 2, c.p., nella categoria dei c.d. “reati a mezzo vincolato”.

Secondo tale opzione ermeneutica il legislatore, con la locuzione “mediante la diffusione di germi patogeni”, avrebbe inteso solo demarcare il tipo di evento rilevante, ovvero le malattie infettive, e non già indicare una puntuale tipologia di condotta.

Detta ricostruzione interpretativa risulta riduttiva in quanto finisce per disapplicare la predetta locuzione, che rappresenta uno degli elementi essenziali della fattispecie; né può fondatamente ritenersi che l’espressione contenuta nell’art. 438 c.p. sia meramente pleonastica o addirittura tautologica

Coronavirus: cosa rischia chi esce di casa senza validi motivi

coronavirus
Le regole imposte dal Governo richiamano al rispetto di uno dei più supremi valori, sia umani che costituzionali: la salute.

Il rispetto delle misure imposte appare, anzitutto, una faccenda etica, coinvolgendo la salvaguardia sia della propria persona che degli altri consociati, in considerazione del bene che potrebbe risultarne compromesso. Ma se la coscienza non basta entra in campo la legge con pene severissime: infatti all’imputazione genericamente richiamata dal DPCM (art. 650 c.p.) se ne possono sommare ulteriori.

In soli sei giorni oltre 26mila denunce.
Sono migliaia, in pochi giorni, in tutta la penisola, le persone denunciate per aver violato le prescrizioni dei Decreti governativi finalizzate al contenimento e alla gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid-19, molte delle quali sono state sorprese a transitare in strada senza valida giustificazione: tra l’11 ed il 15 marzo su 665.480 controllati, 26.954 sono i denunciati ex art. 650 c.p., 662 ex art. 495 e 496 c.p. (rispettivamente, Falsa attestazione o dichiarazione a P.U. e False dichiarazioni sulla identità o su qualità personali proprie o di altri). A questi numeri si aggiungono 317.951 esercizi commerciali controllati, di cui 1.102 titolari denunciati ex art. 650 c.p.

Chi contravviene alle misure del DPCM
Il DPCM 8 marzo 2020, il Decreto Legge n. 9/2020 e il Decreto Legge n. 11/2020 prevedono, per le violazioni delle misure in essi contenute, l’imputazione per il reato contravvenzionale ex art. 650 c.p. (Inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità), che sanziona con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a 206 euro chi trasgredisce alle norme contenute nei decreti che proibiscono di spostarsi senza motivo.

Ad esempio:

più passeggeri (non conviventi) nella stessa auto non rispettano la distanza minima di un metro,
un guidatore e un passeggero non conviventi viaggiano sulla stessa moto, non essendo materialmente possibile la distanza interpersonale di un metro,
chi svolge attività sportiva o motoria all’aperto (anche in bicicletta) senza osservare la distanza di sicurezza interpersonale di almeno un metro,
chi non “comprova” (quindi, non è in grado di dimostrare) che sta andando o tornando dal lavoro, oppure che sta si spostando per ragioni di salute o altre necessità.
Chi rende autocertificazione fasulla o mendace
Chi attesta in modo non veritiero una delle tre cause che permettono di spostarsi (motivi di salute, esigenze lavorative, altri stati di necessità) sarà denunciato per falsa attestazione a un pubblico ufficiale, così rischiando da uno a sei anni di reclusione. È anche previsto l’arresto facoltativo in flagranza.

I pubblici ufficiali che non denunciano i reati
Per i reati procedibili d’ufficio, come quello riguardante la falsa attestazione di una delle tre cause che consentono di muoversi, chiunque ha facoltà di segnalare le ipotesi di cui sia venuto e, per l’effetto far innescare il procedimento penale.

Tutti i pubblici ufficiali (appartenenti alle forze di polizia e armate, ai vigili del fuoco ed urbani, i magistrati nell’esercizio delle loro funzioni, i notai, i medici ospedalieri) sono obbligati a denunciare i reati procedibili d’ufficio di cui giungano a conoscenza, altrimenti rischiano loro stessi penalmente fino a un anno di reclusione (art. 361 c.p., recante “Omessa denuncia di reato da parte del pubblico ufficiale”).

Chi ha sintomi e non si mette in quarantena
Ogni giorno i mass media elencano i sintomi caratteristici del Covid-19 (tosse, febbre, affanno, ecc.). Chi presenta tali sintomi deve avvertire le Autorità sanitarie (telefonando ai numeri dedicati all’emergenza epidemiologica) e mettersi in quarantena.

I DPCM stabiliscono il divieto di uscire di casa per chi ha sintomi da infezione respiratoria e febbre maggiore di 37,5°, in caso contrario rischia, oltre all’imputazione per violazione dei provvedimenti dell’autorità, l’imputazione per lesioni personali volontarie, nella forma consumata o tentata, come pure l’omicidio doloso.

Più in dettaglio, se la condotta, sorretta dal dolo eventuale, e quindi tramite l’accettazione del rischio di contagiare altri, cagioni lesioni o addirittura la morte, l’imputazione si eleva a lesioni personali e fino all’omicidio doloso. Identica pena si applica a chi ha avuto contatti con persone positive al virus e prosegue ad avere rapporti sociali, oppure a lavorare con altri individui senza adottare precauzioni o informarle.

>> Leggi anche: Coronavirus, quarantena (contumacia): cos’è e cosa si rischia

Chi nasconde di essere positivo
La fattispecie è stata già ampliamente elaborata dalla giurisprudenza per i malati di HIV che, nella consapevolezza della contagiosità della patologia di cui sono portatori, e quindi con intenzione (dolo diretto) non adottano le necessarie cautele per evitare il contagio.

Similmente, chi è consapevole di avere il coronavirus ma non lo dichiara, contravvenendo alle regole di isolamento domiciliare e quarantena, oltre all’imputazione ex art. 650 c.p. (Inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità), rischia l’imputazione di lesioni personali e di omicidio volontario, anche solo nella forma tentata.

Più precisamente, qualora dolosamente si ponga in contatto con altri soggetti, e a causa di tale condotta ne provochi la morte, rischia le severissime pene (fino a 21 anni di reclusione) per l’omicidio volontario

Denuncia per violazione dell’art. 650 c.p.: è ammessa l’oblazione?

L’istituto dell’oblazione figura tra le cause estintive del reato ed è contemplata negli art. 162 e 162 bis del codice penale[1].

Nel linguaggio corrente sta a significare offerta, contribuzione volontaria e spontanea, pienamente in sintonia con l’accezione latina oblatio, corrispondente appunto di offerta. Giuridicamente l’oblazione, istituto di natura strettamente sostanziale, si configura come il pagamento di una determinata somma di denaro da parte del contravventore per mezzo del quale quest’ultimo estingue il reato in questione.
La necessità di prevedere giuridicamente tale istituto e di estenderne il più possibile l’ambito di applicazione fu avvertita già dal legislatore del ’30 con la finalità tanto pratica quanto giuridica di rendere rapidi e minimi i già numerosi procedimenti penali per reati contravvenzionali.

Occorre sottolineare a questo proposito l’interessante rapporto che intercorre tra l’oblazione stessa e l’istituto della depenalizzazione poiché infatti maggiormente numerosi saranno i reati penali depenalizzati minore sarà il campo operativo fornito dal beneficio di oblare.
Il nuovo codice di procedura penale infatti rivela una spiccata preferenza per il ricorso agli strumenti processuali finalizzati ad evitare lo svolgimento del dibattimento, scelta codicistica giustificata ampiamente dall’esperienza dei paesi anglosassoni dove si è ritenuto “del tutto incongruo e antieconomico prevedere il passaggio alla fase dibattimentale in caso di ammissione da parte dell’imputato delle proprie responsabilità, cioè in situazioni in cui l’unico aspetto controverso può essere la determinazione in concreto della pena”.

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La funzione deflattiva riconosciuta all’oblazione viene ribadita dall’art. 141 disp. att. la cui ratio ispiratrice si identifica in una sollecitazione della definizione dei procedimenti mediante l’avvalimento dell’oblazione, qualora naturalmente ne sussistano i presupposti.

Inoltre reciprocamente al disposto dell’art. 464, secondo comma, c.p.p. 1988[2], si impone l’obbligo di informare l’imputato nel decreto penale della facoltà di poter chiedere di essere ammesso al beneficio del pagamento e della conseguente estinzione del reato.
Tuttavia l’avviso non si rende necessario quando provenga dal pubblico ministero all’interessato in qualsiasi momento anteriore alla richiesta di emissione del decreto penale attribuendo così al pubblico ministero stesso, in accordo con la sua posizione nel nostro processo, in chiaro impulso processuale per la sollecita definizione dl procedimento in alternativa al dibattimento.
Qualora l’avviso in oggetto non venga formulato logica vorrebbe escludere la produzione di effetti giuridici invalidanti l’atto e il processo poiché la facoltà di beneficiare dell’oblazione non viene pregiudicata da tale omissione.
Tutto quanto detto aiuta sicuramente a ritenere il procedimento oblativo appartenente al genus dei procedimenti semplificati; con il ricorso all’oblazione infatti si ottiene l’effetto di evitare alcune fasi tipiche dello schema ordinario del processo penale attuando la funzione deflattiva propria dell’oblazione finalizzata a scoraggiare la celebrazione del dibattimento.
In questo senso l’oblazione pur essendo contemplata in singole disposizioni normative piuttosto che essere situata nel libro IV del nuovo codice di procedura penale (art. 438 e ss.) va ritenuta una tipologia procedimentale alternativa, sia sul piano logico vista la natura dell’istituto, e sia su quello strettamente letterale con il dato formale dell’intestazione della rubrica dell’art. 141 disp. att., coord. trans. 1989 sul “procedimento di oblazione”.
Comparativamente con gli altri procedimenti speciali quello dell’oblazione, a dispetto degli altri istituti caratterizzati dalla discrezionalità del rappresentante dell’accusa nella prestazione dell’eventuale consenso e dall’assenza di un penetrante controllo giudiziale, rimette la decisione del giudice al rispetto di parametri valutativi determinati dalla legge.

Si legga anche:”Denunce penali ex art. 650 c.p. e misure di contenimento al fine di evitare la diffusione del coronavirus”

Infatti mentre l’oblazione, anche quella cosiddetta discrezionale, può essere ammessa in presenza di precisi presupposti il “patteggiamento” sul rito o sul merito invece non dipende da vincoli giuridici ben determinati.
Tuttavia in questo modo la figura del pubblico ministero nell’esercizio delle sue funzioni assume un ampio margine discrezionale che appare non del tutto giustificabile in un ordinamento giuridico caratterizzato dall’obbligatorietà dell’azione penale (art.112 Cost.) e dall’indipendenza del pubblico ministero (art.108, II comma, Cost.)[3]; nei sistemi infatti dove l’organo dell’accusa dipende dal potere esecutivo la discrezionalità nell’esercizio dell’azione penale trova un corrispettivo nella responsabilità politica del governo mentre diversamente il beneficio della discrezionalità per la pubblica accusa non regolata e limitata per legge deve considerarsi una forma di discrezionalità ingiustificata e inaccettabile[4].
La Corte Costituzionale a sostegno di tale opinione con alcune sue pronunce successive all’entrata in vigore del nuovo codice del 1988 ha ribadito la necessità di un rapido recupero dei poteri del giudice sulle determinazioni del pubblico ministero.

L’oblazione inoltre si caratterizza al pari di altri istituti deflattivi per la ricerca di strumenti alternativi sia al processo, quale strumento di verità, sia al sistema carcerario, quale trattamento indifferenziato del comportamento criminale, anticipando la conclusione del procedimento in una fase anteriore al dibattimento e preferendo la pena pecuniaria a quella detentiva breve.

Già al tempo del codice abrogato numerosi autori furono divisi nel definire la natura giuridica dell’oblazione poiché mentre alcuni, in accordo con l’opinione più diffusa, riconoscevano all’oblazione carattere di transazione, di amichevole componimento, di conciliazione[5], altri invece in accordo col pensiero di Pessina negavano la presenza di ogni idea di componimento, costituendo l’oblazione un atto di riconoscimento della propria reità da parte dell’imputato e di volontario assoggettamento alla pena[6].

Una terza tesi proposta dal Manzini[7] e accolta nei lavori preparatori del codice attuale definisce l’oblazione un diritto soggettivo individuale che produce l’effetto caratteristico di trasformare l’illecito penale in un illecito amministrativo.

Infatti l’imputato godendo del beneficio in questione rende da un lato possibile alla pubblica amministrazione di realizzare direttamente il suo fine repressivo e dall’altro di trasformare in sanzione amministrativa quella che secondo la norma rappresenta “la pena” comminata per il fatto commesso il quale, proprio grazie all’oblazione, non può più essere considerato come illecito penalmente punibile.
Quindi appare lecito affermare che l’atto di oblazione, in quanto manifestazione di una volontà diretta ad impedire il promovimento o la prosecuzione dell’azione penale, assume carattere di negozio giuridico unilaterale[8].
Per effettuare l’oblazione non si rendono necessarie la domanda scritta o raccolta a processo verbale essendo invece sufficiente il versamento in tempo utile presso l’ufficio del registro dell’importo determinato e qualora vi siano le condizioni di un certificato rilasciato dal cancelliere competente che attesti le spese occorse.
Successivamente cura dell’oblatore sarà di depositare presso la cancelleria dell’Autorità giudiziaria di primo grado, investita del procedimento e che può essere anche l’Alta Corte di Giustizia, la ricevuta che attesti l’avvenuto pagamento con la indicazione del procedimento cui si riferisce.
Nel caso in cui l’ammissione al beneficio venga proposta mediante domanda scritta o processo verbale, questa risulta essere completamente esente da tassa di bollo essendo atto in materia penale; non occorre che per la regolarità della domanda sia allegato il documento che prova il pagamento potendo tale pagamento effettuarsi anche in tempo successivo, sempre prima dell’apertura del dibattimento.

Dagli stessi articoli che regolano l’oblazione è possibile notare una sostanziale differenza giuridica con la conseguenza che la domanda di oblazione disciplinata dall’art. 162 dà luogo ad una situazione giuridica tutelata nelle forme del diritto soggettivo mentre l’art. 162 bis ad una fattispecie protetta dal diritto affievolito poiché in questo caso il godimento del beneficio è subordinato alla volontà discrezionale del giudice.
Se esistono divergenze tuttavia tra i due articoli non mancano punti di contatto come l’obbligo da parte del contravventore di una domanda espressa per poter godere del beneficio da presentare entro termini prestabiliti a pena di decadenza, la determinazione della somma di denaro da versare a titolo di oblazione che deve essere considerata sulla base di quanto disposto nell’art. 162 bis e che per effetto dell’ avvenuta oblazione non possono essere applicate misure di sicurezza e pene accessorie.
L’effetto proprio dell’oblazione è quello di estinguere il reato con la conseguente pronuncia del giudice di non potersi procedere oltre a causa dell’avvenuto pagamento effettuato dal contravventore, pronuncia che può essere decisa in qualsiasi momento del processo salvo la possibilità concessa al pubblico ministero di impugnarla con i mezzi consentiti in base al momento processuale in questione.

Fatto da sottolineare sia sotto il profilo giuridico che materiale consiste nel non dover ritenere in alcun modo la pronuncia del giudice una sentenza di condanna poiché non c’è nessuna decisione riguardo il merito penale antecedentemente paralizzato dal pagamento.
Inoltre spetterà al giudice civile stabilire una eventuale responsabilità del contravventore non importando mai l’oblazione forme di colpevolezza nei confronti di chi ha usufruito del beneficio.
Per quanto riguarda i termini relativi a tale istituto l’art. 162 c.p. consente il pagamento “prima dell’apertura del dibattimento, ovvero prima del decreto di ” condanna”.
Tuttavia in dottrina si è molto discusso sia della perentorietà sia del fondamento giuridico di tali termini ed è stato osservato che essendo l’oblazione uno strumento posto dalla legge a difesa dei propri diritti l’apposizione di una “scadenza” rappresenterebbe unicamente un limite temporale alla rappresentazione delle proprie ragioni “determinato dalla necessità di un ordinato svolgimento della difesa in relazione alle fasi e ai momenti processuali”.
In particolar modo ci si è chiesti se nel caso di rinvio del dibattimento di primo grado a nuovo ruolo ex art. 432 c.p.p. (trasmissione custodia del fascicolo per il dibattimento) il diritto al beneficio possa essere ancora consentito prima del dibattimento.

La dottrina a proposito ha dato parere favorevole affermando che l’art. 162 c.p. non intende l’espressione “per la prima volta” con riferimento all’apertura del dibattimento contemplata dall’art. 430 c.p.p. e aggiungendo che l’art. 432 c.p.p. stabilisce nel caso di rinvio che le parti possano attuare tutti i diritti a loro riconosciuti nel corso degli atti preliminari al giudizio salvo quelli per i quali si sia verificata decadenza, la quale non si determina in nessuna norma per il diritto all’oblazione.
In ogni modo quando si affronta il tema delle cause estintive del reato il discorso inevitabilmente non può che spostarsi sulla problematica della punibilità, cerchio all’interno del quale l’oblazione trova collocazione, limiti e regole di disciplina.

Innanzitutto bisogna premettere che in riferimento proprio alle cause estintive del reato l’orientamento della dottrina si traduce in una molteplicità di opinioni ciascuna delle quali analizza il problema dell’unitarietà di trattamento di ciascuna causa estintiva proponendone la relativa soluzione riguardo “una loro sistemazione dogmatica come autonoma categoria giuridica”[9].
Infatti pieno accordo è stato trovato unicamente nel ritenere inesatta la formula “cause di estinzione del reato” poiché il reato stesso in quanto atto pratico e volontario del soggetto non si può estinguere, factum infectum fieri nequit, e nel dover continuare ad usare tale terminologia, nonostante tutto, perché radicata nell’uso comune.
Il concetto stesso di estinzione è stato bersaglio di numerose critiche quando si considera il reato la causa e la pena l’effetto; non si può naturalmente pensare di poter eliminare la causa quando questa ha già prodotto i suoi effetti giuridici.
Tali contrasti dottrinari hanno legittimamente dato vita ad una serie diversa di tesi, larga parte della dottrina ritiene infatti che commesso un illecito penale lo Stato abbia il compito e il dovere giuridico di punire la persona in virtù di un rapporto punitivo che si viene dunque a creare in conseguenza dell’avvenuto reato.
Tuttavia un’altra parte della dottrina, altrettanto cospicua, ritiene invece che dalla commissione del reato nasca la cosiddetta punibilità, ossia la possibilità concreta di applicazione della pena prevista dall’ordinamento giuridico per il reato di specie da parte dello Stato[10].
Gli effetti propri della punibilità sono quelli di prevedere dunque in capo allo Stato la facoltà di punire mentre per il reo la assoggettabilità alla pena, quindi conseguenza del reato e non elemento costitutivo di esso; necessari, anche se talvolta non sufficienti, perché di punibilità possa parlarsi sono dunque la violazione di una qualsiasi norma del codice penale e soprattutto l’assenza di cause personali di esenzione della pena.
La teoria della estinzione della punibilità presta tuttavia il fianco ad opportune critiche nel momento in cui distingue una punibilità in astratto eliminata dalle cause di estinzione del reato da una punibilità in concreto nei confronti della quale operano le cause di estinzione della pena.

Nascendo la punibilità come conseguenza del reato è stato obiettato che la distinzione assume unicamente un carattere nominalistico lasciando immotivato l’interrogativo circa la domanda del perché alcune cause mantengano in vita alcuni effetti del reato lasciando ad altre il “compito” di estinguerli e non chiarendo inoltre il motivo di una trattazione non uniforme della punibilità stessa che si trasforma in una moltitudine di situazioni giuridiche alcune estinguibili contrariamente ad altre[11].
La legge prevede inoltre le cosiddette cause estintive della punibilità, cause speciali legislativamente disciplinate e distinte in due classi che possono, considerate nelle loro caratteristiche peculiari, estinguere il reato o la pena.
Gli effetti che tali cause estintive producono sono diversi poiché alcune di esse eliminano unicamente la pena principale, talvolta quelle accessorie; spesso tutti o alcuni degli effetti penali della condanna potendo anche generare una sospensione che solo in seguito si trasforma in estinzione al verificarsi di precise condizioni.
Legittimato a godere del beneficio dell’oblazione è naturalmente l’imputato.
Il problema sorge nel momento in cui quest’ultimo sia in particolari condizioni psico-fisiche o minore degli anni quattordici o diciotto.
Infatti qualora l’imputato non raggiunga i quattordici anni o sia infermo totale di mente la domanda per l’oblazione dovrà essere necessariamente avanzata dal rappresentante legale mentre il minore degli anni diciotto o l’infermo parziale di mente sono legittimati essi stessi a presentare domanda e nel caso in cui rifiutino legittimato sarà chi ne ha l’assistenza, anche contro la loro stessa volontà.

Facoltà di oblare è riconosciuta anche al concorrente nel reato e al contumace.
Per quanto riguarda il concorrente appare evidente quanto giusto riconoscergli il diritto all’oblazione quando risulti tale nel corso del dibattimento e potrà beneficiare di tale occasione quando comparirà per la prima volta in udienza, mentre il contumace dovrà non solo dimostrare di non conoscere l’esistenza del procedimento a suo carico ma anche la contestazione dell’avvenuta contravvenzione.
Per quanto riguarda le prospettive a quest’istituto da tempo è stata mossa la critica secondo cui l’oblazione soffrirebbe di “una manchevolezza organica ad estinguere l’azione penale ed a distruggere il reato, proprio un fatto mercè il quale l’autore riconosce e la sussistenza del reato stesso e l’obbligazione penale, che a suo carico deriva!”.
E’ stato osservato che tale opinione appare suscettibile di critiche poiché in primo luogo il reato è sottoposto ad una causa estintiva sempre in ragione del sentimento di giustizia imposto dalla legge e poi perché l’oblazione riconosce l’esigenza in pieno l’esigenza del legislatore penale in fatto di economia di giudizi.
Tuttavia spesso il legislatore “ dimentica” questa corrente di pensiero e commina sanzioni penali pecuniarie per punire reati la cui gravità è molto vicina a quella per le quali è disposta la depenalizzazione espandendo l’ambito di applicazione dell’oblazione almeno sul piano teorico.
Inoltre l’oblazione corre il rischio di essere contestata perché da molti ritenuta in contrasto con l’art. 27 comma 3 della costituzione (le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato).
Tuttavia l’ordinamento ha risposto a tale osservazione non solo nell’applicazione delle sanzioni interdittive e di controllo ma anche meramente pecuniarie ribadendo che “la pena nel nostro diritto è (…) frutto del compromesso tra le diverse necessità a cui lo Stato, come in ogni altro Stato moderno, sente di dover provvedere nella lotta contro il delitto, di cui la pena stessa continua e continuerà ad essere per tutto il complesso di ragioni e nonostante l’immancabile evoluzione storica, il mezzo principale”.
L’istituto dell’oblazione può dunque ancora rispettare il compito per il quale il legislatore ritenne opportuno legiferare mostrando addirittura un possibile allargamento della sfera di applicazione, come nel caso di delitti puniti unicamente con la multa, contribuendo così in maggior misura ad assottigliare il numero dei procedimenti penali pendenti.

Confermando ciò nonostante la necessità di rivalutare in maniera decisa le sanzioni visto che la pena pecuniaria rappresenta oggi l’equivalente tra il fatto commesso e l’atteggiamento di risposta dell’ordinamento penale al fatto compiuto e ritenuto criminale, deve dirsi che l’oblazione ha una sua precisa e ben definita collocazione giuridica anche in un momento dove si ricerca disperatamente l’esigenza di pene “alternative”, segno da molti ritenuto evidente della crisi del nostro sistema generale.
I limiti penali e temporali dell’oblazione
Il tribunale di Ravenna nel 2 agosto 1961 condannò il sig. Italo Monti, reo di aver posseduto copia del romanzo opera di Glenn Sire “I liberatori” per scopi commerciali recante in copertina immagini contrarie alla pubblica decenza[12], al pagamento di un’ammenda pari a lire 10.000: ricorrendo per Cassazione, l’imputato contestò la violazione dell’art. 475 n. 3 c. p. p.[13], in relazione all’art. 524 n. 3 stesso codice per mancanza e contraddittorietà di motivazione; violazione e inosservanza degli art. 162 c. p., 185 n. 3 c. p. p. in relazione ai nn. 1 e 3 dell’art. 524 e n. 5 dell’art. 539 stesso codice processuale; illegittimità costituzionale dell’art. 162 c. p. in relazione all’art. 24, II comma della Costituzione.
L’istituto dell’oblazione è stato oggetto di tale sentenza per due principali aspetti; uno di carattere costituzionale, quando ci si riferisce ad un contrasto tra l’art. 24 Cost. comma II (relativo all’inviolabilità della difesa in ogni stato e grado del procedimento) e l’art. 162 c. p. il quale prevede la possibilità di oblare unicamente prima dell’apertura del dibattimento o del decreto di condanna, e un altro di carattere strettamente processuale relativo alla possibilità di esercitare il diritto all’oblazione anche quando la fattispecie in oggetto non lo prevede espressamente ma venga considerato tale successivamente al decorso del termine di cui all’art. 162 c. p.
In entrambe le ipotesi l’oblazione è ammessa.
Tuttavia nel primo caso di fondamentale importanza è la legittimità del termine previsto dal codice penale mentre nel secondo il problema è rappresentato dal nomen juris precedente che non ne consentiva l’ammissibilità.
L’oblazione da sempre rappresenta un mezzo difensivo[14] con il quale l’imputato esercita una causa di estinzione del reato comportando la pronuncia di improcedibilità sul piano processuale; dunque il decorso del termine previsto dall’art. 162 c. p. non pregiudica il diritto alla difesa proprio della parte ma limita notevolmente l’applicazione dell’istituto.
L’art. 162 c. p. contiene un duplice termine sia in ordine all’emissione del decreto penale di condanna e sia in riferimento all’apertura del dibattimento che, come osserva autorevole dottrina[15], si riferisce non solo ai procedimenti ordinari ma anche quando adottata la procedura monitoria sia stata presentata opposizione.
In riferimento al decreto di condanna operano due termini, uno in vigore con la pronuncia del provvedimento stesso l’altro in conseguenza dell’opposizione che elimina il procedimento[16] prospettando uno scenario non molto diverso da quello del procedimento ordinario escluse le ipotesi di mancata comparizione dell’opponente.
Con ciò abbiamo fornito una risposta a quanti ritengono che per l’oblazione di reati giudicati per procedura monitoria si debba tener conto solamente del termine indicato dall’emissione del decreto e non quello dell’apertura del dibattimento: questa rappresenta una restrizione tanto illogica quanto inammissibile che conduce ad una interpretazione restrittiva dell’art. 162 c. p. che non opera distinzione tra dibattimento successivo a procedimento ordinario e dibattimento a seguito di opposizione al decreto.
Inoltre tale restrizione risulta negata dalla considerazione che l’apertura del dibattimento rappresenta un momento processuale della fase del giudizio e che proprio il dibattimento, non considerando la contumacia dell’opponente[17], si realizza con l’opposizione[18].

L’emissione del decreto di condanna ha dunque la funzione di termine preclusivo quando non intervenga un atto come l’opposizione che sostituisce il giudizio ordinario a quello speciale.
Si può allora affermare che alla parte può essere negata l’applicabilità dell’oblazione per effetto della preclusione di cui all’art. 162 c. p. se il termine di decadenza per l’esperibilità di tale istituto è riferito al momento processuale nel quale l’organo si appresta a giudicare in fatto e in merito: non sembra giusto quindi che chiunque non abbia esercitato tale diritto prima non possa poi farlo successivamente.
La Corte ha poi risposto in modo negativo al quesito circa l’ammissibilità dell’oblazione nei confronti di fatti inizialmente in suscettivi di oblazione e successivamente qualificati oblazionabili[19].
Sembrerebbe non potersi obiettare nulla a tale decisione; tuttavia la Corte di cassazione non ha sottolineato la completa assenza di un reato per il quale sia prevista l’oblazione.
L’art. 162 c. p. stabilisce infatti che l’applicabilità di tale istituto è riservata a casistiche ben precise sia dal punto di vista soggettivo (il contravventore) che oggettivo (le contravvenzioni per le quali la legge stabilisce…) escludendo ogni forma di utilizzo generica.
Quindi mancando il presupposto necessario per la sua attuazione la Corte non può escluderne il godimento a causa del mancato esercizio di colui al quale spettava.
Invece seguendo l’orientamento del Supremo Collegio l’imputato dovrebbe effettuare una duplice previsione; dovrebbe infatti calcolare il possibile mutamento del nomen juris e la formazione del nuovo reato (previsione da fare nel più totale buio giuridico) con la conseguente considerazione della sanzione prevista per questo.
Per di più se tutto questo non facesse perderebbe la possibilità di poter fare istanza di oblazione.
In sostanza si prospettano due principali ipotesi, l’una dell’improcedibilità del giudice tenuto a consentire l’oblazione per essersi trovato di fronte una situazione giuridica diversa, e l’altra per cui il mutamento del nomen juris non rimarrebbe tale ma configurerebbe una fattispecie verso la quale la parte avrebbe a sua volta potuto difendersi in modo diverso.

Entrambe le tesi, nessuna prevale infatti sull’altra, sono a sostegno del diritto di partecipazione della parte alla difesa e prevedono l’esperibilità dell’oblazione che ancora una volta si conferma non solo come mezzo deflattivo dell’apparato processuale penale, ma anche vero e proprio istituto difensivo.
L’oblazione e le pene accessorie

In riferimento ad una sentenza del 10 luglio 1935 del pretore di Savigliano con la quale fu condannato per commercio di olio di semi di arachide non addizionato col prescritto 5% di olio di sesamo a reazione cromatica[20] il contravventore presentò istanza di oblazione prima dell’apertura del dibattimento; il Pretore in risposta negò tale possibilità poiché “l’art. 162 c. p. ammette l’oblazione nelle contravvenzioni per le quali la legge stabilisce la sola pena dell’ammenda non superiore a diecimila lire. Quando la legge stabilisce anche una pena accessoria, l’ammenda non è più unica pena, per cui l’oblazione non è possibile. Per l’art. 19 terzo comma c. p. pena accessoria è la pubblicazione della sentenza penale di condanna. Il reato imputato, di cui ora si tratta, richiede non solo la pena pecuniaria stabilita dagli articoli 48 e 49 del R. D. 15 ottobre 1925 n. 2033 ma anche la pubblicazione della sentenza di condanna stabilita dall’art. 61 dello stesso R. D.
E’ manifesto che questa pubblicazione di sentenza di condanna è una pena accessoria, che pertanto impedisce l’oblazione”.
Questa la fattispecie e la motivazione addotta in sentenza dal Pretore con la quale respingeva le istanze del contravventore.
Tuttavia la difesa contestando le decisioni assunte dal pretore obbiettava che sotto l’impero del codice Zanardelli, al contrario di quanto accadeva nel 1925, la pubblicazione della sentenza di condanna non era prevista come pena; poteva essere ben considerata sanzione accessoria, ma non una pena.
Di conseguenza la pubblicazione accompagna unicamente una sentenza di condanna che in questo caso poteva essere evitata con l’accoglimento da parte del pretore della domanda del contravventore a godere del beneficio dell’oblazione.
Al rifiuto del pretore, il quale stabiliva che se anche il codice Zanardelli ancora non prevedeva la pubblicazione della sentenza come una vera e propria pena a questa, disposta d’ufficio, non poteva togliersi il carattere stesso di pena a tutti gli effetti seppur ignota al codice del 1889, il contravventore presentò ricorso in Cassazione contestando la violazione dell’art. 162 c. p. e la mancanza di considerazione della sua domanda di oblazione in violazione degli artt. 162 e 17 a 20 c. p.[21], 474 e 475 c. p. p.[22].
La Suprema Corte[23], cassando quanto deciso dal pretore, dichiarò che l’art. 162 c. p. non vieta la possibilità di oblare contravvenzioni cui alla pena pecuniaria è stato possibile aggiungere una pena accessoria, pur riconoscendo al contrario la limitazione per le contravvenzioni punite con la sola pena dell’ammenda in opposizione a quelle sanzionate con la pena detentiva.
Inoltre la stessa Corte con una analoga pronuncia[24] aveva cassato le decisioni del pretore di Gorizia dichiarando che per quanto riguarda l’istituto dell’oblazione la legge intende riferirsi unicamente a quelle principali e non accessorie le quali rappresentano una conseguenza della sentenza di condanna, evitabile proprio con l’oblazione.
Indubbiamente le persone che quotidianamente subiscono denuncie riguardo questo tipo di contravvenzioni ricevono un vantaggio sia di natura morale, evitando spiacevoli situazioni vergognose nei confronti della pubblica stampa, sia di natura economica poiché il contravventore in questo modo riesce ad evitare spese giudiziali, risparmia rispetto a quanto dovuto in caso di condanna con l’aggiunta di non veder il suo nome accompagnato ad una sentenza di condanna pubblicato in chissà quale mezzo di stampa.
Ambito e presupposti di applicazione dell’oblazione discrezionale
La norma che disciplina l’oblazione discrezionale dichiara l’applicabilità dell’istituto dell’oblazione ai reati contravvenzionali puniti con la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda non menzionati dall’art. 162, che riguarda unicamente le contravvenzioni sanzionate con l’ammenda[25].
Mentre infatti l’oblazione processuale prevista dall’art. 162 estende il proprio ambito di applicazione alle contravvenzioni non depenalizzate ai sensi degli art. 32 ss. della legge 24 novembre 1981, n. 689, e rappresenta un diritto soggettivo pubblico di carattere individuale proprio dell’imputato, l’oblazione contemplata nell’art. 162 bis resta invece vincolata alla valutazione discrezionale del giudice in relazione alla gravità del fatto richiamato dalla fattispecie penale[26].

La giurisprudenza è d’accordo nel ritenere che la domanda di ammissione al beneficio possa essere accolta nonostante il parere contrario del pubblico ministero, stabilendo l’art. 141 d.lg. 271 del 1989 che il p.m. esprima il suo parere ma non presti il suo consenso. Il giudice è tenuto ad indicare le ragioni a fondamento di un suo eventuale rifiuto della domanda di oblazione; presupponendo tale parere negativo il giudizio contrario anche del pubblico ministero, se quest’ultimo si limita nell’esposizione dei motivi a sostegno alla sola opposizione all’oblazione, il giudice è impedito di produrre una motivazione contraria[27].
I criteri di gravità del reato sono disciplinati dal comma 3 dell’art. 162 bis e indicati nella sussistenza della recidiva reiterata aggravata o dell’abitualità e professionalità nelle contravvenzioni in relazione agli art. 99, 104 e 105 c.p., nella permanenza delle conseguenze dannose o pericolose del reato eliminabili da parte del responsabile della contravvenzione.
Inoltre la giurisprudenza concorda nel ritenere che il metro di giudizio riguardo la gravità del reato debbano essere intese nel senso più ampio possibile dalle indicazioni dell’art. 133 comma 1[28].
Qualora la domanda di oblazione venga rigettata per la gravità del fatto, essendo tale causa prevista dall’art. 162 bis come una possibile di giustificazione del rigetto, la dottrina ritiene necessaria una specifica motivazione sulle ragioni di detta gravità.

Contrariamente quando il giudice accoglie la domanda, non essendoci il parere negativo del pubblico ministero circa la gravità del fatto, deve solamente dimostrare di aver esaminato accuratamente la fattispecie e di averne dedotto che “il fatto non risulta di gravità tale da costituire impedimento all’applicazione dell’oblazione”[29].
La giurisprudenza non sempre è stata concorde, per quanto riguarda l’individuazione dei reati oblabili, con l’operato dell’art. 127 della l. 689 del 1981 che ha ampliato l’ambito di applicazione dell’oblazione prevista dall’art. 162 bis ai reati indicati nella lettera g) (reati contravvenzionali sulla disciplina per gli alimenti per la prima infanzia e dei prodotti dietetici di cui alla l. 29 marzo 1951, n. 27), nella lettera h) (reati contravvenzionali concernenti l’inquinamento atmosferico), nella lettera ) (i reati contravvenzionali relativi all’impiego pacifico dell’energia nucleare di cui alla l. febbraio 964, n. 185 e l. 31 dicembre 1962, n. 186), nella lettera n) (reati contravvenzionali relativi alla prevenzione degli infortuni sul lavoro ed all’igiene sul lavoro)dell’art. 34 comma 1 l. 689 del 1981.
Inizialmente la Corte di Cassazione riteneva che l’art. 127 della l. 689 del 1981, in relazione all’art. 34 l.c., prevede in modo assolutamente non equivoco i reati ai quali è applicabile l’oblazione i cui all’art. 126 (che ha introdotto l’art. 162 bis); tra tali reati non compaiono tuttavia quelli contemplati dalla l. 319 del 1976 sulla tutela delle acque dall’inquinamento, con la conseguenza di doverli ritenere esclusi dal beneficio dell’oblazione[30].
Successivamente l’orientamento della Suprema corte muta, adeguandosi alla prevalente giurisprudenza di merito, in modo tale da ritenere che le disposizioni di cui all’art. 127 l. 689 del 1981 sona da considerare nel senso che le contravvenzioni ivi disciplinate sono da ritenere oblabili solo in seguito al positivo esercizio del potere discrezionale del giudice, anche se sanzionabili con la sola ammenda; mentre al tempo stesso nessuna norma esclude che i reati previsti nelle altre lettere nel medesimo articolo possano essere estinti mediante oblazione di cui agli art. 162 e 162 bis a seconda delle pene astrattamente previste [31].
Nella stessa direzione è stato stabilito che l’art. 127 l. 24 novembre 1981, n. 689, in base alla quale le disposizioni di cui all’art. 162-bis si applicano anche ai reati indicati nelle lettere f), h), ), n) del comma 1 dell’art. 34, deve essere interpretato nel senso della applicabilità della sola oblazione “discrezionale” a questi reati, anche se punibili con la sola ammenda, anziché dell’oblazione ordinaria di cui all’art. 162.
Tuttavia una parte della dottrina ha ritenuto che una tale scelta delle contravvenzioni destinate ratione materiae all’oblazione più onerosa prevista dall’art. 162 bis sia del tutto arbitraria, almeno nel diritto del lavoro, poiché introdurrebbe disparità di trattamento rispetto a casi di analoga importanza.[32]
Per quanto riguarda invece le violazioni tributarie, a seguito dell’entrata in vigore della l. 7 agosto 1982, n. 516, la quale prevedeva numerose ipotesi contravvenzionali astrattamente assimilabili al dato normativo di cui all’art. 162-bis, la giurisprudenza non ha preso una stabile posizione oscillando il suo giudizio continuamente; un intervento delle Sezioni unite della Cassazione ha successivamente risolto il problema.

In primo luogo infatti la giurisprudenza ha ritenuto possibile l’oblazione discrezionale nell’ambito delle contravvenzioni tributarie sanzionate con pene alternative[33] sulla base del tenore generale dell’art. 162-bis, e conseguentemente dell’applicabilità dello stesso alle contravvenzioni sanzionate con pene alternative; sia quando le fattispecie criminose sono previste dal codice penale che da leggi speciali.
Un altro indirizzo giurisprudenziale ha invece sottolineato l’inapplicabilità dell’oblazione “discrezionale” alle violazioni tributarie, sulla scorta dell’applicazione del principio di specialità tra le norme di cui agli art. 13 e 14 l. 4 del 1929 e 162-bis [34].
In merito sono intervenute le Sezioni unite[35] le quali hanno ritenuto l’applicabilità dell’art. 162-bis anche nel caso di violazione finanziaria.
Più precisamente le Sezioni unite hanno riconosciuto un’identità di ratio tra la norma generale prevista dal codice e quella di cui alla legge speciale, sottolineando che entrambe sono finalizzate alla “deprocessualizzazione” della fattispecie mediante un rapido congedo dell’imputato dal sistema penale e l’assenza di operatività del principio di specialità in tale materia.

E’ una conclusione che deriva dall’accertamento, in primo luogo, dell’abrogazione sopraggiunta del principio di “fissità” determinato per le leggi finanziarie dall’art. della l. 7 gennaio 1929, n.4, e, in secondo luogo, che l’oblazione prevista dall’art. 14 della l.c. riguarda solamente le contravvenzioni finanziarie sanzionate con la sola pena pecuniaria, mentre invece quella disciplinata dall’art. 162-bis ha ad oggetto tutte le contravvenzioni punite con pena alternativa; di conseguenza, escludendo ogni possibile ipotesi di conflitto tra le due norme, l’applicazione del principio di specialità determinato dall’art. 15 del c.p. risulta sostanzialmente improponibile[36].
La giurisprudenza non è concorde per la concreta applicabilità dell’art. 162-bis in relazione al concetto dell’avvenuta eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato da parte del contravventore.
Per quanto riguarda le contravvenzioni tributarie, infatti, si ritiene necessario il preventivo pagamento del tributo evaso dal contravventore, mentre in altri casi l’evasione non costituisce l’evento dannoso previsto dalla norma.
Sia in dottrina che in giurisprudenza si è discusso in merito al regime applicabile alle ipotesi di reato punite con la pena alternativa unicamente nelle forme aggravate, poiché dalla tipologia della contestazione deriva il parere sull’ammissione al beneficio di oblare.

Un primo orientamento ha ritenuto che per le contravvenzioni punite necessariamente con l’arresto sia necessario operare una distinzione con riferimento al caso in cui la circostanza aggravante sia determinata tassativamente dal legislatore, ad esempio il caso previsto dall’art. 669 comma 3 c.p., in cui ci si dovrebbe attenere alla regola della contestazione, rispetto al caso l’applicabilità di una pena diversa sia diretta conseguenza della presenza di un’aggravante indefinita”, fatto ostativo dell’ammissibilità all’oblazione ab origine.
In questa seconda ipotesi l’applicazione della pena detentiva al posto di quella pecuniaria deriverebbe unicamente da un giudizio riferito alla gravità accertata dal giudice in concreto e non con riferimento alla contestazione originaria[37].
Un’altra parte della dottrina contrariamente ritiene che questa diversificazione rispetto al termine entro cui deve essere presentata la domanda di ammissione al beneficio sanerebbe un difetto del diritto di difesa, non escludendo che in qualsiasi caso originariamente in base alla contestazione possa essere non prevedibile la presenza di una circostanza aggravante[38].

La giurisprudenza ha successivamente escluso la possibilità di godere del beneficio dell’oblazione “discrezionale” per quei reati che diverrebbero oblazionabili quoad poenam, in presenza di una circostanza attenuante indefinita, più precisamente nel caso in cui sia possibile ipotizzare la presenza dell’attenuante ad effetto speciale della “lieve entità”.
In questo caso l’applicazione del regime sanzionatorio più lieve deriva da un giudizio di
merito ad opera del giudice[39].
Più precisamente nella fattispecie prevista dall’art. 4 commi 2 e 3, della l. 110 del 1975, sanzionata sia con la pena detentiva dell’arresto che con quella pecuniaria dell’ammenda, è stato osservato che il fatto di lieve entità previsto dalla seconda parte del comma 3 non costituisce un’ipotesi autonoma di reato, ma circostanza attenuante speciale.
In questo caso non si applica l’oblazione discrezionale di cui all’art. 162 bis neanche quando ricorra la circostanza attenuante[40].
La Corte costituzionale ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 162, 162-bis c.p. e 604 c.p.p. oltre agli artt.126 e 137 l. 689/81, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, quando dispongono che la sentenza che dichiara estinto il reato in seguito ad oblazione deve essere iscritta nel casellario giudiziario, se oggetto della pronuncia è una contravvenzione punibile con la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda, mentre non è iscritta se la contravvenzione è punibile con la sola ammenda; non vi è identità per le situazioni regolate poiché la iscrivibilità della sentenza nel primo caso a differenza della contravvenzione oblata, sanzionata unicamente con l’ammenda, è giustificata dalla maggior gravità della pena edittale e per il diverso ruolo dell’intervento del giudice (sentenza costitutiva in un caso, dichiarativa nell’altro)[41].
La Corte costituzionale ha inoltre ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata, riguardo all’art. 3 della Costituzione, dell’art. 162-bis nella parte n cui non prevede l’applicazione dell’istituto ai delitti puniti con la sola pena della multa.
La Corte ha stabilito che prevederne o meno l’estinzione per oblazione rientra nel potere discrezionale del legislatore; questa discrezionalità appare essere esercitata in modo del tutto razionale [42].
Analogamente la Corte ha giudicato manifestamente inammissibile la questione sollevata con riferimento all’esclusione dei delitti puniti con la pena alternativa della reclusione e della multa dall’applicazione dell’istituto in esame, richiamando in questo caso le sentenze n. 148 del 1984[43] e 350 del 1985[44] e l’ordinanza n. 267 del 1986[45].

Una parte della dottrina meno recente ritiene che il contravventore, nel caso di oblazione discrezionale, è tenuto a corrispondere contestualmente alla domanda, una somma pari alla metà del massimo della pena pecuniaria prevista.
E’ considerata inammissibile la domanda qualora il deposito della somma in questione o la
somma stessa venga depositata tardivamente[46].
La giurisprudenza successivamente si è orientata nel ritenere che il legislatore delegato del 1989 abbia avuto intenzione di stilare una disciplina generale del procedimento di oblazione[47], in base alla quale il giudice, accolta la domanda di oblazione, determina la somma da versare.
Precisamente al caso di annullamento con rinvio di ordinanza con la il g.i.p. dichiarava inammissibile l’opposizione, ed esecutivo il decreto, per non aver l’imputato versato la somma corrispondente alla metà del massimo dell’ammenda prevista, la Corte di cassazione ha sottolineato la mancanza di coordinamento tra l’art. 162-bis c.p. e il comma 4 dell’art. 141 disp. att. c.p.p. Infatti, ritiene la Corte, seppur vero che il contravventore deve depositare una somma corrispondente alla metà del massimo dell’ammenda prevista, è altrettanto vero che se il giudice ammette la domanda di oblazione deve fissare la domanda da versare, dandone avviso all’interessato; da questo deriva che in virtù dell’art. 15 disp. prel. c.c., lex posterior derogat priori, la prima norma deve giudicarsi abrogata [48].
Inoltre è stato sottolineata come unica condizione processuale imposta dall’art. 162-bis c.p. il deposito di una somma pari alla metà del massimo dell’ammenda prevista; non necessariamente le spese relative al processo[49].
Le problematiche legate all’applicabilità della norma anche nel caso delle contravvenzioni commesse in un tempo antecedente all’entrata in vigore della l. 689 del 1981 sono ormai superate.
La Corte di cassazione ha dichiarato che la disposizione dell’art. 126 della l. 24 novembre 1981, n. 689 che introduce l’art. 162-bis, non era applicabile a quei procedimenti che, al momento dell’entrata in vigore della legge, fossero oltre l’inizio della discussione finale del dibattimento di primo grado[50].
Tuttavia la dottrina ritiene che tale orientamento possa ritenersi valido solamente nel momento in cui venga riproposta istanza di oblazione precedentemente respinta per motivi riguardanti la gravità del fatto[51].
La giurisprudenza si divide sulla possibilità di ammettere l’oblazione nella fase delle indagini preliminari.
Negando tale possibilità si è ritenuto che il tono dell’art. 162-bis, il quale stabilisce la facoltà di oblare nella fase compresa tra gli atti preliminari al dibattimento di primo grado e la chiusura del dibattimento stesso, consente di ritenere che anche in questa ipotesi di estinzione del reato sia valido lo stesso principio che riguarda l’oblazione di cui all’art. 162, cioè l’impossibilità di applicazione nella fase delle indagini preliminari.
Poiché unicamente il giudice della cognizione piena può compiere determinate valutazioni di merito previste dai commi 3 e 4 dello stesso art. 162-bis [52].
L’ideologia positiva ha invece ritenuto di dover accogliere la possibilità di poter oblare ex art. 162-bis anche prima della fase degli atti preliminari al dibattimento, perché il contenuto dell’articolo in questione non prevede un termine iniziale, ma unicamente finale oltre il quale si decade dalla possibilità di poter usufruire del beneficio[53].
L’art. 162-bis comma 3 prevede le ipotesi nelle quali l’oblazione non può essere ammessa, per motivi oggettivi quanto soggettivi.
La giurisprudenza ha affermato attraverso numerose pronunce che l’esclusione dal godimento del beneficio dell’oblazione “discrezionale” non può essere determinata dall’attribuzione di una normale qualifica soggettiva come la declaratoria di abitualità o professionalità nella contravvenzione e la contestazione espressa della recidiva[54], quanto semmai alla presenza dei dati normativi e fattuali che consentono tale dichiarazione[55], preceduti dalla ricognizione di tale status soggettivo desumibile dal certificato penale[56].
E’ stato inoltre precisato che la nuova disciplina della recidiva, prevista dalla l. 7 giugno 1974, n. 220, ha dichiarato unicamente la facoltatività dell’aumento di pena e non di tutti gli altri effetti penali riconducibili alla recidiva stessa; di conseguenza la presenza della condizione di recidiva reiterata crea un ostacolo all’ammissibilità dell’oblazione di cui all’art. 162-bis[57].
La dottrina ha sollevato obiezioni circa l’applicabilità della declaratoria di abitualità nelle contravvenzioni e della professionalità nel reato, che non derivano mai da una presunzione normativa ma unicamente da un accertamento del giudice, basato su elementi strettamente oggettivi, come la natura e la gravità dei reati, il tempo nel quale sono stati commessi e in genere sulla cosiddetta capacità a delinquere del soggetto, fondati sulla condotta e sul genere di vita del colpevole.
E’ tuttavia indiscusso che la sentenza che dichiara estinto il reato per intervenuta oblazione non ha comunque effetti su una possibile declaratoria di recidiva, abitualità, professionalità del reato.
In base all’art. 106 comma 2, infatti, le sentenze attraverso le quali è stata applicata una causa estintiva del reato che estingue anche gli effetti penali della condanna non vengono tenute di conto.[58]
Le preclusioni oggettive invero riguardano tutte alla gravità del fatto per il quale si procede e sono disciplinate dalla norma in questione ai commi 3 e 4.
L’oblazione non è ammessa quando sussistono le condizioni dannose o pericolose del reato eliminabili da parte del contravventore.
La giurisprudenza ha sottolineato tuttavia che la permanenza di conseguenze dannose o pericolose eliminabili da parte del reo risulta essere condizione ostativa per l’imputato di poter beneficiare dell’oblazione di cui all’art. 162-bis; il giudice quindi è tenuto ad accertare, anche d’ufficio, se l’ostacolo non esista, o venga meno, spiegando il suo convincimento con una motivazione, prima di ammettere l’imputato all’oblazione.

Note:
[1] Così il codice penale articoli 162 e 162-bis: “Nelle contravvenzioni, per le quali la legge stabilisce la sola pena dell’ammenda, il contravventore è ammesso a pagare, prima dell’apertura del dibattimento, ovvero prima del decreto di condanna, una somma corrispondente alla terza parte del massimo della pena stabilita dalla legge per la contravvenzione commessa, oltre le spese del procedimento.
Il pagamento estingue il reato.
Nelle contravvenzioni per le quali la legge stabilisce la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda, il contravventore può essere ammesso a pagare, prima dell’apertura del dibattimento, ovvero prima del decreto di condanna, una somma corrispondente alla metà del massimo dell’ammenda stabilita dalla legge per la contravvenzione commessa oltre le spese del procedimento.
Con la domanda di oblazione il contravventore deve depositare la somma corrispondente alla metà del massimo dell’ammenda.
L’oblazione non è ammessa quando ricorrono i casi previsti dal terzo capoverso dell’articolo 99, dall’articolo 104 o dall’articolo 105, né quando permangono conseguenze dannose o pericolose del reato eliminabili da parte del contravventore.
In ogni altro caso il giudice può respingere con ordinanza la domanda di oblazione, avuto riguardo alla gravità del fatto.
La domanda può essere riproposta sino all’inizio della discussione finale del dibattimento di primo grado.
Il pagamento delle somme indicate nella prima parte del presente articolo estingue il reato.
[2] Codice di procedura penale, art. 464 comma 2, “il giudice, se è presentata domanda di oblazione contestuale all’opposizione, decide sulla domanda stessa prima di emettere i provvedimenti a norma del comma 1.
[3] In tali artt. la Cost. oltre a stabilire l’obbligo per il pubblico ministero di esercitare l’azione penale, garantisce anche “l’indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali, del pubblico ministero presso di esse, e degli estranei che partecipano all’amministrazione della giustizia”.
[4] BETTIOL, In tema di antinomie penalistiche, in BETTIOL, Scritti giuridici, II, Padova, 1966, 1029.
[5] SANTORO, voce Estinzione del reato e della pena (Diritto penale comune), Novissimo Digesto Italiano, vol. I, Torino, 1961, pag. 991.
[6] PESSINA, Relazione al Senato sul progetto del Codice Penale del 1889; RENDE e MALGERI, L’oblazione volontaria nel Codice Penale e nelle leggi speciali, Milano, 1912, pag. 9; ROCCO, Trattato della cosa giudicata come causa di estinzione dell’azione penale, vol. II, Modena, 1904, pag. 315.
[7] Così l’Autore in Trattato di diritto penale italiano, vol. III, 1961, pag. 602.
[8] MANZINI, op. cit., pag. 604; PANNAIN, Manuale di diritto penale, vol. I, Torino, 1962, pag. 882; MAZZANTI, Contestazione di un delitto e possibilità di oblazione , in Riv. it. dir. e proc. pen., 1962, 625.
[9] RAMACCI, Corso di diritto penale II reato e conseguenze giuridiche, Giappichelli editore, Torino, 1993.
[10] In tema, ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, parte generale, Giuffrè editore, Milano, 1997.

[11] RAMACCI, op. cit., pag. 326.
[12] Art. 725 c. p., “Chiunque espone alla pubblica vista o, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, offre in vendita o distribuisce scritti, disegni o qualsiasi altro oggetto figurato, che offenda la pubblica decenza, è punito con l’ammenda da lire ventimila a due milioni”.
Il libro presentava una sovracoperta in carta patinata contenente il titolo dell’opera stampato a due colori (le prime sillabe: “I libera…” in colore bianco, e le ultime sillabe: “i tori”, in colore rosso), nonché la immagine di un essere maschile senza volto nell’atto di ghermire una donna nuda. La sovracopertina era a sua volta accompagnata da una fascetta orizzontale mobile, portante la scritta: ”…distruggevano e violentavano per sentirsi eroi…”. A parere del giudice di merito, il frazionamento del titolo in due monconi, con sottinteso richiamo alla impetuosa maschilità dei “tori”, e la immagine stilizzata del maschio nell’atto di stringere a se una donna nuda costituivano- dal punto di vista obiettivo-una condotta sconveniente con parallela offesa del bene giuridico della pubblica decenza; quindi l’applicabilità della norma incriminatrice ex art. 725 c. p.
[13] Così il c. p. p. all’art. 475 n. 3, “L’imputato allontanato può essere riammesso nell’aula di udienza, in ogni momento, anche di ufficio. Qualora l’imputato debba essere nuovamente allontanato, il giudice può disporre con la stessa ordinanza che sia espulso dall’aula, con divieto di partecipare ulteriormente al dibattimento se non per rendere le dichiarazioni previste dagli artt. 503 e 523 comma 5”.
[14] In tal senso, AA. VV., Mutamento del titolo del reato e conseguente diritto di oblazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1958, 46 ss.; tale indirizzo è stato condiviso anche dalla Cass., 11 luglio 1958, in Giust. pen. 1958, III, 827 ss.
[15] Cfr., SABATINI GIUS., Trattato dei procedimenti speciali e complementari nel processo penale, 1956, p. 94; SABATINI GU., Istituzioni di diritto penale, 1946, III, p. 102; VANNINI, Manuale di diritto processuale penale italiano, 1956, p. 170; SALTELLI-ROMANO, Commento teorico-pratico del nuovo codice penale, 1940, II, p. 304; Cass. 12 marzo 1951, Mass. pen., 1951, 933; id. 17 febbraio 1944, Giur. compl. Cass. pen., 1944, 65; id. 2 marzo 1942, Riv. dir. penit., 1942, 656; id. 6 luglio 1942, Giust. pen., 1943, II, 76; id. 26 maggio 1942, ivi, 1943, II, 199.
Contra BELLAVISTA, Il processo penale monitorio, 1938, p. 119.
[16] Per tutti, SABATINI GIUS., Trattato dei procedimenti speciali, cit. pg. 61 ss. L’Autore precisa come, una volta eliminata la situazione derivante dall’emissione del decreto penale, il processo riprende il suo corso dall’opposizione con la fase del giudizio di primo grado, in quanto l’emissione del decreto è considerata dalla legge non più come atto conclusivo di una sua fase, cioè della fase istruttoria.
[17] Per la mancata comparizione e i suoi effetti, Corte cost. 18 marzo 1957 con nota di CONSO, Anticostituzionalità dell’art. 510, comma 1 c.p.p., in Riv. dir. proc. pen., 1957, 373; SABATINI, Trattato, cit., p. 95; BELLAVISTA, Voce decreto penale, in Noviss. Dig. It., 1960, 305; LEONE, Trattato di diritto processuale penale, 1961, II, p. 483; VASSALLI, Sulla mancata comparizione dell’imputato come rinuncia all’opposizione, in Giur. Costit., 1957, 596; MASSA, La mancata presentazione dell’opponente all’udienza, in Riv. dir. proc. pen., 1957, 517; MANZINI, Trattato di diritto processuale penale italiano, 1956, IV, pg. 286.
[18] Sulla natura dell’opposizione cfr., LEONE, Trattato, cit., II, pg. 474 ss.; BELLAVISTA, voce Decreto penale, cit. pg 303; MANZINI, Trattato, cit., IV, p. 283, per i quali essa costituisce un mezzo d’impugnazione. In senso diverso DELITALA, Il divieto della reformatio in peius nel processo penale, 1927, pg. 11 il quale configura l’opposizione come la ricusazione di un giudizio svoltosi senza contraddittorio (sulla stessa linea si muove il SANTORO, Manuale di diritto processuale penale, 1954, p. 616), mentre il SABATINI GIUS., Trattato, cit. pg. 61, la qualifica “procedimento introduttivo”, diretto alla reintroduzione dell’esercizio “normale dell’azione penale con l’impedire che si consolidi la situazione processuale prodottasi con l’emissione del decreto”.
[19] Nello stesso senso cfr., Cass. 14 marzo 1958, in Giust. pen., 1958, II, 769. A diversa soluzione era, invece, in precedenza giunta la giurisprudenza con decisioni della Cass. 16 maggio 1939, in Annali, 1939, 397; id. 23 maggio 1935, in Giust. pen., 1936, III, 543; id. 21 novembre 1956, in Mass. pen., 1957, n. 40; Trib. Trento 6 marzo 1956, in Giur. it., 1956, II, 225.
[20] Contravvenzione all’art. 1 terzo comma R. D. L. 30 dicembre 1929 n. 2316 e sanzionata dagli articoli 48, 49, e 61 R. D. 15 ottobre 1925 n. 2033.
[21][21] Così l’art. 17 c. p., “Le pene principali stabilite per i delitti sono: la morte, l’ergastolo, la reclusione, la multa. Le pene principali stabilite per le contravvenzioni sono: l’arresto, l’ammenda.
Così l’art. 18 c. p., “Sotto la denominazione di pene detentive o restrittive della libertà personale la legge comprende: l’ergastolo, la reclusione e l’arresto. Sotto la denominazione di pene pecuniarie la legge comprende: la multa e l’ammenda.
Così l’art. 19 c. p., “Le pene accessorie per i delitti sono: l’interdizione dai pubblici uffici, l’interdizione da una professione o da un’arte, l’interdizione legale, l’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese, l’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione, la decadenza o la sospensione dall’esercizio della potestà dei genitori. Le pene accessorie per le contravvenzioni sono: la sospensione dall’esercizio di una professione o di un’arte, la sospensione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese. Pena accessoria comune ai delitti e alle contravvenzioni è la pubblicazione della sentenza penale di condanna. La legge penale determina gli altri casi in cui le pene accessorie stabilite per i delitti sono comuni alle contravvenzioni.
Così l’art. 20 c. p., “Le pene principali sono inflitte dal giudice con sentenza di condanna; quelle accessorie conseguono di diritto alla condanna, come effetti penali di essa.
[22] Così l’art. 474 c. p. p., “L’imputato assiste all’udienza libero nella persona, anche se detenuto, salvo che in questo caso siano necessarie cautele per prevenire il pericolo di fuga o di violenza.
Così l’art. 475 c. p. p., “L’imputato che, dopo essere stato ammonito, persiste nel comportarsi in modo da impedire il regolare svolgimento dell’udienza, è allontanato dall’aula con ordinanza del presidente. L’imputato allontanato si considera presente ed è rappresentato dal difensore. L’imputato allontanato può essere riammesso nell’aula di udienza, in ogni momento, anche di ufficio. Qualora l’imputato debba essere nuovamente allontanato, il giudice può disporre con la stessa ordinanza che sia espulso dall’aula, con divieto di partecipare ulteriormente al dibattimento se non per rendere le dichiarazioni previste dagli artt. 503 e 523 comma 5.
[23] Corte di Cassazione, I sezione penale, 12 febbraio 1936.
[24] Al riguardo, Giust. pen., Codice, 1935, 1388, 527.
[25] V. Cass., 25 maggio 1996, Piras, C.E.D. Cass., n. 204671; Cass., 7 marzo 1996, Zagari, ivi, n.204063
[26] In giurisprudenza, sul punto, v. Cass., 18 febbraio 1986, Cass. pen. 1987, 1522; in dottrina, in relazione alla differenza di struttura e funzione dei due istituti, v. CADOPPI, Oblazione “vecchia” e “nuova” e principi costituzionali, in Riv. it. dir. e proc. pen. 1983, 178; PANARIA, Questioni di diritto penale dell’economia. L’art. 162 bis del codice penale nella prospettiva di alcune leggi speciali, in Rass. Trib. 1987, I, 135.
[27] In merito, Cass., 8 marzo 1993, C.E.D. Cass., n.194161.
[28] V. Cass., 25 febbraio 1992, Proni, Riv. giur. it., voce Oblazione nelle contravvenzioni, 1992, n.7, 2905; in dottrina, sulla nozione di fatto come comprensiva della dimensione soggettiva e oggettiva del reato NUVOLOSE, I limiti taciti della norma penale,Prilla, 1947, 10, 37, 45.
[29] Si veda Cass., 8 marzo 1993, Capitani, C.E.D. Cass., n. 194162.
[30] V. Cass., 27 maggio 1983, Girotti, Cass. pen. 1985, 369, con nota contraria di RAMPIONI, Inquinamento idrico, oblazione ex art. 162-bis c.p. e permanenza delle conseguenze dannose o pericolose del reato; MUCCIARELLI, L’istituto dell’oblazione ex art. 162- bis c.p. in due sentenze della Corte di Cassazione: qualche rilievo critico.
[31] V. Cass., 6 marzo 1984, Coppo, Cass. pen. 1985, 1101.
[32] PADOVANI, Diritto penale del lavoro, Giuffrè, 1983, 290.
[33] In tema, Cass., 22 aprile 1985, Critelli, Giur. it. 1986, II, 222; Foro it. 1986,II, 11, con nota di BOSCHI; in senso contrario, DELL’ANNO, In tema di oblazione delle contravvenzioni tributarie a norma dell’art. 162-bis c.p., in Giust. pen. 1986, III, 134; in dottrina, CADOPPI, Punti di tangenza fra due novità: oblazione di cui all’art. 162-bis c.p. e le nuove contravvenzioni tributarie, in Riv. it. dir. e proc. pen. 1984, 1160; DI DIO, L’oblazione nel diritto penale tributario, in Riv. pen. 1986, 137.
[34] V. Cass. 7 ottobre 1986, Zottino, Foro it. 1987, II, 144; Cass., 9 marzo 1987, Del Rito, Cass. pen. 1987, 1830; Cass., 24 marzo 1987, Aldegheri, ivi, 1988, 1278; in dottrina sul punto, DELL’ANNO, Ancora sull’inammissibilità dell’oblazione in materia di contravvenzioni alla normativa tributaria penale punita con pena alternativa, in Giust. pen. 1987, II, 271; DI DIO, Non più oblazionabili le contravvenzioni tributarie ounibili con pene alternative, Riv. pen. 1987, 430; MUCCIARELLI, Oblazione ex art. 162-bis c.p. e contravvenzioni tributarie ounite con pena alternativa: una nuova e discutibile sentenza della Corte di cassazione, ivi 1986, 1350.
[35] Sezioni Unite, 21 maggio 1988, Meneghin, Cass. pen. 1988, 1555.
[36] V. Cass., 24 maggio 1988, Stefanuto, C.E.D. Cass. n. 178700.
[37] In dottrina, MAZZA, voce Oblazione volontaria, in Enc. dir., vol. XXIX, Giuffrè, 1979, 562; in giurisprudenza v. Cass., 12 maggio 1986, Bellemo, Riv. pen. 1987, 507.
[38] BELLAVISTA, In tema di termini per la presentazione della domanda di oblazione, Riv. pen. 1992, 823.
[39] In merito v. Cass., 17 giugno 1994, De Marco, C.E.D. Cass., n. 199733; Cass., 21 gennaio 1992, Allegrucci, Cass. pen. 1993, 658.
[40] In riferimento la Cassazione ha pronunciato il 13 giugno 1999, Maggiore, C.E.D. Cass., n. 212775; Cass., 25 ottobre 1996, ivi, n. 206736; Cass., 22 gennaio 1996, Ferravamo, ivi, n. 203802; Cass. 3 novembre 1992, Gilistro, ivi, n. 194365.
[41] Per tutte Cass., 13 aprile 1983, Vezzali, Cass. pen. 1984, 2430, con nota di ROMEO, Oblazione speciale e iscrizione nel casellario: un problema di interpretazione risolto ed una questione di legittimità costituzionale ancora aperta, in Cass. pen. 1984.
[42] Corte cost., 12 novembre 1987, n. 462, Rubino, Giur. cost. 1987, I, 317; Foro it. 1988, I, 3156.
[43] V. Corte cost., 24 maggio 1984, n. 148, Foro it. 1984, I, 1444.
[44] V. Corte cost., 17 dicembre 1985, n. 350, ivi, 1986, I, 3 con nota di LA GRECA.
[45] V. Corte cost., 15 dicembre 1986, n. 267, Giur. cost. 1986, I, 2185.
[46] Tesi sostenuta dalla Cass., 27 ottobre 1995, Di Martino, Giur. it. 1997, II, 164; Cass., 30 marzo 1994, Ibbadu, C.E.D. Cass., n. 198606.
[47] Ricavabile dalla rubrica del capo decimo e dell’art. 141 disp. att. c.p.p.
[48] V. Cass., 26 settembre 1997, Di Ceno, C.E.D. Cass., n. 209365; Cass., 19 dicembre 1997, Gulli, Cass. pen. 1999, 871; Cass., 14 ottobre 1999, Tomasi, C.E.D. Cass., n. 214838; contra, Cass., 12 maggio 1999, Noleno, ivi, n. 214067; in dottrina per tutti, SELVAGGI, Commentario Chiavario, in La normativa complementare, (art. 14 att.), vol. I, 1992, 531.
[49] Ad esempio, Cass., 10 aprile 1997, Rettondini, C.E.D. Cass., n. 208690.
[50] V. Cass., 26 novembre 1983, Cordaro, Cass. pen. 1984, 2415.
[51] Tesi sostenuta in dottrina da MUCCIARELLI, in Dolcini-Mucciarelli-Paliero-Riva-Crugnola, Commentario delle “Modifiche al sistema penale”, Giuffrè, 1982, 5299.
[52] V. Cass., 26 novembre 1983, Cordaro, cit.
[53] V. Cass., 22 aprile 1985, Cristalli, Riv. pen. 1986, 1073.
[54] In tal senso, v. Cass. 15 giugno 1990, Cipolla, Riv. pen. 1991, 279.
[55] V. Cass., 28 settembre 1994, Casentino, C.E.D. Cass., 199166; Cass., 18 marzo 1993, Mughetto, Riv. pen. 1993, 1110; Cass., 22 ottobre 1992, Petri, ivi, 1993, 891.
[56] Così la Cass., 18 settembre 1992, Petrì, C.E.D. Cass., n. 192077.
[57] V. Cass., 20 maggio 1993, Mighetto, ivi, n. 195128.
[58] In dottrina, STORTONI, Estinzione del reato e della pena, in Dir. pen. 1990, IV, 342.

Un precedente non basta per negare la messa alla prova

Corte di cassazione – Sezione IV – Sentenza 3 febbraio 2016 n. 4526. Il giudice non può negare la sospensione del processo con messa alla prova solo sulla base di un precedente penale. La Cassazione, con la sentenza 4526 depositata ieri, accoglie un ricorso contro l’ordinanza con la quale il Tribunale, anche il virtù del parere contrario del Pubblico ministero, rigettava la richiesta di messa alla prova (legge 67/2014). Un no motivato dall’esistenza di “una recidiva specifica infra-quinquennale” che, secondo i giudici di primo grado, rendeva impossibile dare il via libera all’utilizzo del nuovo istituto.
La Suprema corte però la pensa diversamente. La Cassazione ricorda i tratti salienti della norma che, ai sensi dell’articolo 167 bis del codice penale, si può applicare ai reati con un tetto di pena di 4 anni, o ai delitti citati dall’articolo 550 del codice di rito:?dalla rissa aggravata al furto aggravato, dalla resistenza al pubblico ufficiale alla violazione di sigilli. Il via libera alla sospensione del procedimento, in vista dell’affidamento al servizio sociale e dello svolgimento di un lavoro di pubblica utilità, è disposto dal giudice che “in base ai parametri dettati dall’articolo 133 del codice civile, reputa idoneo il programma di trattamento presentato e ritiene che l’imputato si asterrà dal commettere altri reati”.
L’articolo 133 del codice penale elenca gli indici rivelatori della gravità del reato che il giudice deve valutare per aprire o meno alla messa alla prova. Fra questi ci sono la natura del crimine commesso, la gravità del danno arrecato alla vittima, il grado di colpa o l’intensità del dolo. Sempre lo stesso articolo sposta poi l’attenzione sulla capacità di delinquere, che va desunta: dal carattere del reo, dai motivi che lo hanno spinto a “trasgredire”, dalle sue condizioni di vita familiare e sociale e dai precedenti penali e giudiziari. Nel caso esaminato il Tribunale – sottolinea la Cassazione – ha respinto la richiesta dell’imputato prendendo in considerazione solo il precedente penale. Ma il riferimento ad uno solo dei molteplici indici previsti dal codice non basta a legittimare il no.

La Cassazione interviene sulla rilevanza del “like” (mi piace) su Facebook e istigazione a delinquere

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VESSICHELLI Maria – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto Luigi – Consigliere –

Dott. CATENA Rossella – Consigliere –

Dott. MICCOLI Grazia – Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI BRESCIA;

nel procedimento a carico di:

D.G., nato il (OMISSIS);

nel procedimento a carico di quest’ultimo:

avverso l’ordinanza del 06/06/2017 del TRIB. LIBERIA’ di BRESCIA;

sentita la relazione svolta dal Consigliere Dr. ANDREA FIDANZIA;

lette/sentite le conclusioni del PG Dr. LOY MARIA FRANCESCA che conclude per l’annullamento con rinvio.

Svolgimento del processo
1. Con ordinanza del 6 giugno 2017 il Tribunale del Riesame di Brescia ha annullato l’ordinanza del G.I.P. presso lo stesso Tribunale del 28.10.2016 con la quale era stata applicata a D.G. la misura cautelare in carcere in quanto accusato, a norma dell’art. 414 c.p., comma 4, di aver pubblicamente, mediante la diffusione sulla rete internet, fatto apologia dello Stato Isalmico, associazione con finalità di terrorismo internazionale.

Il Tribunale del Riesame di Brescia era stato chiamato ad esaminare nuovamente la posizione del predetto indagato dopo che questa Corte, con sentenza n. 24103/2017, aveva annullato la prima ordinanza del Tribunale di Brescia del 15.11.2016 con cui era stata per la prima volta annullata la predetta ordinanza del G.I.P. di Brescia del 28.10.2016.

Lamenta il Procuratore ricorrente che l’ordinanza impugnata ha violato il principio di diritto enunciato da questa Corte nella sentenza n. 24103/2017 nonchè ha travisato il fatto, con conseguente contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione.

Ha premesso il Procuratore della Repubblica di Brescia che la rsezione di questa Corte, nella predetta sentenza di annullamento, aveva enunciato il principio che il richiamo costante ed esplicito al conflitto bellico in corso di svolgimento sul territorio sirio-iracheno, contenuto nelle registrazioni pubblicate e condivise sul profilo Facebook del D., rappresentava un idoneo e qualificato riferimento all’ISIS, protagonista non certo secondario di tale conflitto, con la conseguenza che il Tribunale del Riesame di Brescia non aveva tenuto conto delle conseguenze apologetiche che i riferimenti espliciti ed impliciti al conflitto sirio-iracheno erano in grado di provocare rispetto ai frequentatori dei social network.

Il riferimento ad una delle parti in guerra, in particolare all’ISIS, presupponeva, il richiamo alla Jihad islamica, la quale costituisce la fonte di ispirazione delle azioni militari dello Stato islamico sul territorio sirio-iracheno e, su scala internazionale, il collante del terrorismo islamico.

La I sezione di questa Corte aveva precisato, a titolo esemplificativo, che l’inneggiare al martirio contenuto nella videoregistrazione del 17 agosto 2015 non costituiva una condotta caratterizzata da una matrice esclusivamente ideologica e religiosa dei messaggi ad essi sottesi, come ritenuto dalla prima ordinanza annullata del Tribunale di Brescia.

Ciò premesso, l’ordinanza impugnata aveva disatteso il principio di diritto espresso dal Giudice di legittimità svolgendo un percorso argomentativo sulle medesime premesse valutative incongrue e contrastanti con il quadro indiziario in atti, già censurate.

L’ordinanza impugnata, in contrasto con quanto affermato da questa Corte, pur riconoscendo che il termine Jihad evoca la guerra santa, ha ritenuto che nelle videoregistrazioni di cui al presente procedimento non vi siano sufficienti elementi per ricondurre univocamente i richiami alla guerra santa, in esse contenuti, all’ISIS, sul rilievo che lo Stato islamico era solo una delle parti belligeranti del conflitto sirio-iracheno e non era stata dimostrata la volontà del D. di riferirsi proprio all’ISIS e non ad altri combattenti.

Tale argomentazione si appalesa quantomeno contraddittoria ed incongrua rispetto al materiale probatorio acquisito ed in contrasto con le conclusioni cui era giunto lo stesso giudice di merito allorquando, da un lato, aveva circoscritto alla sola (breve) durata del video la portata offensiva della condotta apologetica, e, dall’altro, ne avevano minimizzato la rilevanza penale ridimensionando l’importanza della opzione like apposta dal D. ai video postati in rete.

Motivi della decisione
1. Il ricorso è fondato e va pertanto accolto.

Va preliminarmente osservato che nella sentenza n. 24103/2017 con cui è stata annullata la prima ordinanza del Tribunale del Riesame di Brescia, la 1^ sezione di questa Corte ha, in primo luogo, affermato (a pag. 8 primo cpv) il principio di diritto secondo cui le consorterie di ispirazione jihadista operanti su scala internazionale hanno natura di organizzazione terroristiche rilevanti ex art. 270 bis c.p..

Tale enunciato è coerente con quanto già affermato da questa Corte nella sentenza n. 31389 del 11/6/2008, Rv. 241174, nella quale era stato evidenziato come l’ideologia della Jihad secondo la logica della contrapposizione fedele/infedele, verità/menzogna, giustizia/ingiustizia, legittimi l’impiego dei cc.dd. kamikaze, persone disposte a sacrificare la propria vita e quella degli altri per “la causa”, ponendo in atto condotte che, ad un tempo, sono atti di violenza in incertam personam e forme di comunicazione e di “ammonimento” verso i superstiti.

La sentenza n. 24103/17 ha quindi condiviso il percorso logico-argomentativo auspicato dal Procuratore ricorrente e già sviluppato dal G.U.P. presso il Tribunale di Brescia nell’ordinanza applicativa della misura cautelare, il quale, nell’esaminare le singole videoregistrazioni diffuse dal D. su facebook, aveva ritenuto la natura apologetica e propagandistica dello Stato islamico:

1) del video del (OMISSIS), nel quale un combattente predica l’unione dei fratelli per aiutare la Siria, pregando perchè Allah lo accetti come martire;

2) del video del (OMISSIS), nel quale è ritratto un combattente armato con la divisa del mujahideen e sono evocati i massacri in Siria, inneggiandosi ai mujahideen caduti per proteggere i musulmani nella guerra contro i nemici di Allah;

3) del video del (OMISSIS) in cui si inneggia ai mujahideen che uccidono e sono uccisi per Allah.

La 1^ sezione di questa Corte aveva ritenuto l’incongruità logica insita nel ragionamento di escludere l’associazione, ritenuta invece dal G.I.P. di Brescia, tra ISIS e la Jihad combattuta in Siria, osservando come il richiamo alla Jihad islamica ispiri le azioni belliche condotte dall’ISIS in Siria, e costituisca su scala internazionale il collante del terrorismo islamico.

A fronte delle ritenute incongruità motivazionali, la I sezione di questa Corte, nell’annullare la prima ordinanza del Tribunale del Riesame di Brescia, ha rinviato allo stesso Tribunale affinchè fosse condotto un nuovo esame degli elementi probatori acquisiti nei confronti del D., e in particolare, delle videoregistrazioni postate nei giorni 29/01/2015, 17/08/2015, del 20/09/2015, 14/11/2015 e del 25/11/2015.

Ciò premesso, la seconda ordinanza del Tribunale del Riesame di Brescia, oggetto della odierna impugnazione, ha annullato nuovamente l’ordinanza del G.I.P. di Brescia, applicativa della misura cautelare nei confronti del D..

E’ stato, in particolare, osservato che il mero richiamo alla jihad non è rilevante ai fini apologetici per lo spettro di gruppi religiosi che all’interno della religione islamica evocano il martirio religioso, senza, peraltro, necessariamente concretizzare le predette aspirazioni.

Inoltre, ad avviso dell’ordinanza impugnata, dall’esame dei video non emergono elementi inequivoci che il D. volesse riferirsi proprio all’associazione terroristica denominata Isis, atteso che una tale organizzazione rappresenta solo uno dei soggetti partecipanti al conflitto siriano.

Non vi è dubbio che con tali affermazioni l’ordinanza impugnata si sia posta in contrasto il principio, come sopra riportato, espresso dalla citata sentenza n. 24103/17 e sia comunque caduta nel medesimo vizio logico – o quantomeno in un’evidente carenza motivazionale – che aveva determinato l’annullamento della prima ordinanza del Tribunale del Riesame di Brescia.

L’ordinanza in oggetto ha, infatti, negato la connotazione terroristica della c.d. guerra santa nonchè apoditticamente affermato che il richiamo al martirio religioso non consentirebbe, data la pluralità dei gruppi religiosi che evocano Ilihad, di ricondurre univocamente i video in questione all’ISIS, obliterando quindi quanto osservato dalla I sezione di questa Corte, non avendo avuto nemmeno cura di indicare quali sarebbero allora le altre organizzazioni jiahdiste che, come l’ISIS, opererebbero parimenti nel conflitto siriano, evocando il martirio religioso nei confronti degli infedeli.

L’ordinanza impugnata, peraltro, ha frainteso il contenuto della sentenza di annullamento di questa Corte con riguardo ai video del 14/11/2015 e del 25/11/2015.

Sul punto, ritiene il Tribunale del Riesame che la 1 sezione di questa Corte non avrebbe censurato le argomentazioni svolte nell’ordinanza annullata in ordine alla mancanza del rischio effettivo di consumazione di ulteriori reati derivante dall’attività di propaganda dell’Isis, presente incontestabilmente nei predetti video.

Tale affermazione è priva di pregio.

Non vi è dubbio che la sentenza di annullamento, prendendo in esame esclusivamente i video del 29/01/2015, 17/08/2015, del 20/09/2015, non ha certo voluto affermare la inconfigurabilità del delitto di cui all’art. 414 c.p. per i restanti video – neppure esaminati – e ciò perchè quanto osservato da questa Corte per i primi video ha avuto una valenza assorbente per gli altri.

Diversamente argomentando, la sentenza di annullamento di questa Corte, nel disporre che il giudice del rinvio effettuasse un nuovo esame degli elementi probatori acquisiti nei confronti del D., non avrebbe espressamente indicato, come invece ha fatto, anche le videoregistrazioni del (OMISSIS).

Orbene, in ordine a questi due video, è pacifico che il D. abbia inneggiato apertamente allo Stato islamico ed alle sue gesta ed i suoi simboli e, al fine di valutare il rischio effettivo della consumazione di altri reati derivanti dall’attività di propaganda, i giudici del Riesame, nonostante avessero espressamente citato quell’orientamento giurisprudenziale (Sez 1.12.2015, Halili) che impone di considerare il comportamento dell’agente per la condizione personale dell’autore e le circostanze di fatto in cui si esplica, non hanno tenuto conto dei contatti dagli stessi evidenziati (pag. 10 prima ordinanza annullata e pag. 3 ordinanza impugnata) del D. con altri soggetti già indagati per terrorismo islamico, affermando contraddittoriamente che lo stesso fosse estraneo a frequentazioni di gruppi religiosi più estremisti, o valorizzando la circostanza che fosse estraneo a frequentazioni religiose.

Inoltre, per escludere la configurabilità del delitto di cui all’art. 414 c.p., l’ordinanza impugnata ha ridimensionato la portata apologetica dei due video sul rilievo dell’asserita breve durata – ben undici giorni – della condivisione degli stessi sul profilo facebook del D. o in relazione alla circostanza che uno dei due sarebbe stato diffuso con la sola opzione “mi piace”, elementi che invece non sono certo idonei a ridurre la portata offensiva della sua condotta, attesa la comunque immodificata funzione propalatrice svolta in tale contesto dal social network facebook.

Deve quindi annullarsi l’ordinanza impugnata con rinvio, per nuovo esame, al Tribunale di Brescia in diversa composizione nonchè ordinarsi la restituzione integrale degli atti.

P.Q.M.

Annulla l’ordinanza impugnata con rinvio, per nuovo esame, al Tribunale di Brescia in diversa composizione. Ordina la restituzione integrale degli atti.

Così deciso in Roma, il 25 settembre 2017.