La demolizione nell’abuso edilizio NON estingue SEMPRE il reato

La demolizione nell’abuso edilizio NON estingue SEMPRE il reato

Beni Ambientali.Spontanea rimessione in pristino

 DettagliCategoria principale: Beni AmbientaliCategoria: Cassazione PenalePubblicato: 19 Ottobre 2020Visite: 748

Cass. Sez. III n.26325 del 21 settembre 2020 (UP 3 lug 2020)
Pres.Andreazza Est. Semeraro Ric. Stallone
Beni Ambientali.Spontanea rimessione in pristino

La speciale causa estintiva, prevista dall’art. 181 comma 1-quinquies d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 opera a condizione che l’autore dell’abuso si attivi spontaneamente alla rimessione in pristino delle aree o degli immobili soggetti a vincolo paesaggistico, anticipando l’emissione del provvedimento amministrativo ripristinatorio. L’applicabilità di tale causa estintiva è subordinata al fatto che la rimessione in pristino da parte dell’autore dell’abuso sia spontanea e non eseguita su impulso dell’autorità amministrativa.  L’estinzione si ha, pertanto, solo quando non sia stata ancora disposta d’ufficio dalla P.A.; è necessario cioè che l’autore dell’abuso si attivi spontaneamente alla rimessione in pristino e, quindi, prima che la P.A. la disponga, perché l’effetto premiale può realizzarsi solo in presenza di una condotta che anticipi l’emissione del provvedimento amministrativo ripristinatorio.

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza del 26 giugno 2019 la Corte di appello di Palermo ha confermato la condanna inflitta a Gaetano Stallone ed Agata Indelicato dal Tribunale di Marsala alla pena di un mese di arresto ed € 57.000 di ammenda per i reati di cui agli artt. 95 d.P.R. 380/2001 (capo B), 181 comma 1-bis d.lgs. 42/2004 (capo C), 734 cod. pen. (capo D) per la costruzione di una sopraelevazione di 59 mq. e di una tettoria, alle spalle della sopraelevazione, di circa mq. 18, in zona sismica, senza il necessario preavviso e senza la necessaria autorizzazione, in zona vincolata senza autorizzazione paesistica, in zona di notevole interesse pubblico alterando le bellezze naturali. In Campobello di Mazara fino al 18 gennaio 2016.

2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore degli imputati.
2.1. Con il primo motivo si deduce il vizio della motivazione; la Corte di appello avrebbe erroneamente ritenuto che i ricorrenti abbiano demolito le opere per le quali hanno ottenuto la concessione in sanatoria del 17 marzo 2017; con tale concessione sarebbero stati sanati gli abusi commessi dal precedente proprietario dell’immobile e parte degli illeciti commessi dai ricorrenti, tra cui una scala in cemento armato. La corte territoriale avrebbe ritenuto erroneamente che i motivi di appello siano contraddittori. Vi sarebbe una evidente illogicità o contraddittorietà della motivazione della sentenza.
2.2. Con il secondo motivo si deduce il vizio della motivazione con riferimento al capo c), ex art. 181 comma 1-bis d.lgs. 42/2004. Sarebbe stata omessa la risposta al primo motivo di appello su tale capo.
2.3. Con il terzo motivo si deducono i vizi di violazione di legge e della motivazione in relazione al reato ex art. 734 cod. pen. 
La Corte di appello avrebbe erroneamente ritenuto che la concessione in sanatoria non abbia estinto il reato ex art. 734 cod. pen., in contrasto con quanto previsto dall’art. 39 comma 7 della legge 724/1994.
Mancherebbe poi la motivazione con riferimento al quarto motivo di appello relativo alla mancanza di motivazione della sentenza di primo grado sulla sussistenza di una permanente menomazione della bellezza del luogo e sulla concreta idoneità della condotta di deturpamento.
2.4. Con il quarto motivo si deduce la violazione dell’art. 181 comma 1- quinquies d.lgs. 42/2004. La Corte di appello avrebbe erroneamente ritenuto che, per aversi l’estinzione del reato, la demolizione avrebbe dovuto precedere la sentenza di condanna e l’emissione del provvedimento di demolizione da parte dell’autorità amministrativa. Invece, l’art. 181 comma 1-quinquies consentirebbe l’effetto estintivo, in caso di demolizione prima della sentenza di condanna, anche nel caso di demolizione successiva all’ingiunzione amministrativa.
La demolizione sarebbe avvenuta prima della citazione a giudizio e ciò emergerebbe dalla richiesta di dissequestro dell’immobile, presentata alla Procura della Repubblica di Marsala, per procedere alla demolizione delle opere.
2.5. Con il quinto motivo si deducono i vizi di violazione di legge e della motivazione sul rigetto della richiesta di applicazione dell’art. 131-bis cod. pen.; il rigetto sarebbe fondato sull’abitualità delle condotte.
I ricorrenti avrebbero invece dimostrato che le opere abusive realizzate al primo piano furono realizzate dal precedente proprietario (Antonino Bono) che il 30 giugno 1986 presentò l’istanza per la sanatoria.
Nessun procedimento per illeciti edilizi sarebbe sorto a carico degli imputati.
Inoltre, l’applicabilità dell’art. 131-bis cod. pen. deriverebbe dalla scarsa consistenza delle opere abusive con minima lesione dell’interesse protetto, anche a seguito della demolizione delle opere.
2.6. Con il sesto motivo si deduce il vizio della motivazione in relazione all’art. 95 d.P.R. 380/2001; la Corte di appello ha ritenuto che il reato ex art. 95 non possa essere dichiarato estinto poiché le opere abusive non sarebbero state sanate ma demolite. Invece, parte delle opere abusive sarebbero state sanate dal permesso di costruire n. 27 del 17 marzo 2017.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il primo motivo è manifestamente infondato.
Nella sentenza non vi è alcuna contraddittorietà: la corte territoriale ha chiaramente distinto le opere oggetto della concessione in sanatoria del marzo del 2017 – che non riguardano quelle oggetto del capo di imputazione (come invece ritenuto erroneamente dal Tribunale di Marsala, in relazione al capo a, ma confermato dai ricorrenti) – e quelle demolite, oggetto dell’imputazione (cfr. pagina 5 punto 5). Né l’eventuale erronea qualificazione dei motivi di appello come contraddittori inciderebbe sulla ratio decidendi.

2. Manifestamente infondati sono il secondo ed il quarto motivo: la Corte di appello ha esplicitamente motivato sulla sussistenza del reato di cui al capo c), ex art. 181 comma 1-bis d.lgs. 42/2004, valutando non solo la realizzazione delle opere in zona vincolata, senza il preventivo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, ma anche l’irrilevanza della demolizione eseguita non spontaneamente dagli imputati.
2.1. La demolizione è stata effettuata a seguito dell’emissione dell’ingiunzione alla demolizione, il 22 febbraio 2016, da parte del comune di Campobello di Mazara.
Orbene, va rilevato che è contestato agli imputati il reato di cui all’art. 181 comma 1-bis d.lgs. 42/2004, poiché l’opera è stata realizzata in area sottoposta a vincolo di notevole interesse pubblico con apposito provvedimento emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori, per cui non opera la causa estintiva di cui al comma 1-quinquies.
2.2. Va ribadito il principio per cui la rimessione in pristino delle aree o degli immobili assoggettati a vincolo paesaggistico, spontaneamente eseguita dal trasgressore, per la sua natura eccezionale, estingue solo il reato previsto dal comma primo e non dal comma 1-bis, dell’art. 181 del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (Sez. 3, n. 33542 del 19/06/2012, Cavaletto, Rv. 253139-01).
2.3. In ogni caso, anche ove si volesse ritenere che la condanna sia avvenuta per il comma 1 dell’art. 181 d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, la decisione della Corte di appello è corretta.
Infatti, la speciale causa estintiva, prevista dall’art. 181 comma 1-quinquies d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 – «La rimessione in pristino delle aree o degli immobili soggetti a vincoli paesaggistici da parte del trasgressore, prima che venga disposta d’ufficio dall’autorità amministrativa, e comunque prima che intervenga la condanna, estingue il reato di cui al comma 1» – opera a condizione che l’autore dell’abuso si attivi spontaneamente alla rimessione in pristino delle aree o degli immobili soggetti a vincolo paesaggistico, anticipando l’emissione del provvedimento amministrativo ripristinatorio: cfr. in tal senso Sez. 3, n. 37822 del 12/06/2013, Battistelli, Rv. 25651801.
Come osservato dalla sentenza Battistelli, l’applicabilità della speciale causa estintiva di cui all’art. 181 comma 1-quinquies è subordinata al fatto che la rimessione in pristino da parte dell’autore dell’abuso sia spontanea e non eseguita su impulso dell’autorità amministrativa. 
L’estinzione si ha, pertanto, solo quando non sia stata ancora disposta d’ufficio dalla P.A.; è necessario cioè che l’autore dell’abuso si attivi spontaneamente alla rimessione in pristino e, quindi, prima che la P.A. la disponga, perché l’effetto premiale può realizzarsi solo in presenza di una condotta che anticipi l’emissione del provvedimento amministrativo ripristinatorio. 
Se si fosse voluto far riferimento solo alla sentenza di condanna non avrebbe avuto alcun senso richiamare il provvedimento disposto d’ufficio dalla P.A.; il legislatore ha voluto porre l’accento sul carattere (necessariamente) spontaneo della rimessione in pristino per farne derivare l’effetto estintivo del reato.

3. Manifestamente infondato è il terzo motivo relativo al reato ex art. 734 cod. pen.: come chiaramente rilevato dalla Corte di appello, la concessione in sanatoria non si riferisce alle opere oggetto dell’imputazione sicché gli effetti non sono minimamente invocabili nel processo.
Contrariamente a quanto si afferma nel ricorso, vi è poi una esplicita motivazione da parte della Corte di appello sulla sussistenza del reato ex art. 734 cod. pen. per le dimensioni dell’opera, realizzata in sopraelevazione di altra abusiva, e non ancora condonata al momento della costruzione, in zona sottoposta a vincolo ambientale, a 500 metri dal mare.

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ODV 231/2001 responsabilità amministrativa da reato

ODV 231/2001 responsabilità amministrativa da reato

Il D.Lgs. n. 231/2001 e il Sistema di Gestione

La norma, ormai ventennale, ha rivoluzionato il panorama normativo italiano perché ha dei tratti di interdisciplinarietà che permettono la collaborazione di diverse tipologie di professionisti per la sua corretta applicazione, con il risultato di avere una visione d’insieme della società e della realtà in cui la stessa opera.

Mira alla tutela dell’Azienda dai comportamenti non corretti di coloro che al suo interno agiscono per profitti personali.

Grazie all’adozione di un Modello 231, l’Azienda al suo interno decide di seguire direttive di contenuto etico e morale per poter operare nella trasparenza e nella legalità.

D’altronde anche l’art. 2086, comma II, c.c. (introdotto dal D.Lgs. n. 14/2019) impone a tutte le società di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa.

La creazione di un Sistema di Gestione è un insieme di regole, procedure e modalità: è strettamente legato alle caratteristiche dell’Impresa, all’attività svolta, ai processi produttivi che vengono utilizzati, al contesto in cui opera e agli interlocutori con cui si interfaccia.

Prevede la preventiva individuazione delle aree di rischio e la creazione di principi e procedure di controllo che possano tutelare l’Impresa dalla commissione dei reati.

Comprende l’adozione di un Codice Etico, a salvaguardia dei comportamenti da tenere, e di un conseguente sistema disciplinare e sanzionatorio.

Ogni Ente o Società che voglia garantire una corretta gestione aziendale, deve dotarsi di un proprio Modello ex D.Lgs n. 231/01 che comprenda una corretta mappatura delle aree dell’attività aziendale sensibili al rischio di commissione dei reati.

È necessaria una capillare attività di intervista al fine di analizzare i processi aziendali più a rischio e di conseguenza, adeguare ed aggiornare al meglio il Modello sulla realtà aziendale.

L’applicazione di tale Modello deve essere controllata mediante un Organismo di Vigilanza, autonomo ed indipendente, che possa vigilare sulla sua adeguatezza e sanzionare le violazioni e gli scostamenti dallo stesso.

Il Modello di Organizzazione, Gestione e Controllo

Il secondo strumento esimente previsto dal D.Lgs. 231/2001, è la dotazione da parte dell’Ente del Modello di Organizzazione, Gestione e Controllo.

Potremmo definirlo come il “codice” di cui l’Ente si dota per evitare il rischio-reato, ovvero per escludere che dalle condotte poste in essere da apicali o subordinati, nell’interesse o a vantaggio dell’Ente, possa insorgere anche una responsabilità dell’Ente medesimo, con gravissime conseguenze in termini di sanzioni e misure interdittive, anche cautelari.

Il MOGC, che verrà redatto dallo studio dopo una scrupolosa analisi di risk assesment, sarà oggetto di costanti verifiche da parte dell’Organismo di Vigilanza, sia in termini di efficacia del Modello, sia in termini di revisione in caso di mutamento del business aziendale o di intervento legislativo che incida sul catalogo dei reati presupposto.

Le diverse aree di provenienza delle due Professioniste consentiranno di mappare ogni attività o settore dell’organizzazione aziendale, individuando una matrice dei rischi che costantemente vagliata con specifici audit dell’OdV, consentirà all’Ente di andare esente da ogni censura.

Perchè prevedere all’interno dell’Azienda la nomina di un OdV?

L’Azienda, con le previsioni della D.Lgs. n. 231/2001, viene attratta nella responsabilità per i reati commessi dalle persone che operano al suo interno a diverso titolo, se si dimostri che il reato è stato commesso per procurare un vantaggio all’Azienda stessa. L’Azienda, quindi,  potrebbe essere soggetta a diverse sanzioni, tra le quali anche alcune di tipo interdittivo che possono portare alla sospensione dell’attività aziendale. Non solo. Possono anche essere revocati benefici, possono essere confiscati  beni aziendali, o si può incorrere in pesanti sanzioni pecuniarie.

Alcune di tali sanzioni possono essere applicabili anche in una fase cautelare e portano all’arresto della continuità aziendale. Con un adeguato Modello 231, generalmente, l’Azienda è salva dalle sanzioni che intervengono in fase cautelare.

Sono pertanto necessarie le seguenti fasi:

  • Adozione e progettazione del Modello
  • Attuazione e messa in opera dello stesso
  • Controllo del Modello ad opera dell’ODV.


Possiamo intervenire nella Vostra Azienda sia nella fase di adozione e progettazione del Modello, nella attuazione e messa in opera dello stesso e nel controllo come come Organismo di Vigilanza.

Cosa è l’Organismo di Vigilanza

È la componente centrale del Modello organizzativo 231.

Può essere monocratico e interno, tuttavia la collegialità ed il fatto che i suoi componenti siano esterni all’Azienda darà maggiori garanzie sulle caratteristiche richieste dalla Legge:  l’autonomia, l’indipendenza, la professionalità e la continuità di azione.

l’Organismo di Vigilanza, dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo, vigila sul funzionamento e l’osservanza del Modello di Gestione e ne cura  l’aggiornamento. È una unità organizzativa dell’impresa a servizio dell’organo amministrativo.

L’Organismo di Vigilanza non ha un potere di gestione dell’Impresa, ma di mero controllo interno.

L’OdV deve garantire

  • Indipendenza
  • Autonomia
  • Continuità di azione
  • Professionalità
  • Onorabilità

L’OdV può essere un organo esterno e collegiale, composto da tre membri.

È il nostro obiettivo mettere le nostre professionalità a servizio delle Aziende interessate e capire le reali esigenze per poter selezionare il terzo membro tra diversi professionisti con cui collaboriamo da anni.

Cosa fa l’Odv

  • Propone gli adattamenti e gli aggiornamenti necessari al Modello a seguito di mutamenti interni o esterni, di normative o dell’organizzazione societaria al fine di garantirne la massima efficacia per la corretta applicazione.
  • Vigila e controlla l’efficace attuazione del Modello stesso, tramite flussi informativi costanti e tracciati.
  • Gestisce e monitora la formazione dei destinatari per la comprensione e la corretta applicazione del Modello.
  • Garantisce una continuità di azione, per avere la massima efficacia sul controllo e la gestione del Modello.
  • Verifica che il Modello adottato dall’impresa sia efficiente ed efficace per la prevenzione dei reati previsti.
  • Rileva gli eventuali scostamenti dal Modello grazie all’analisi costante dei flussi informativi.
  • Gestisce le segnalazioni che arrivano dall’Azienda.
  • Tramite incontri verbalizzati tiene traccia del suo costante operato e predispone una relazione periodica per l’organo dirigente e per il Collegio Sindacale sull’attività di verifica e controllo.
  • L’indipendenza viene garantita rispetto a tutti gli organi aziendali, deve essere assicurato libero accesso a tutte le funzioni della società per gestire al meglio il corretto funzionamento del Modello.
  • L’OdV può avvalersi di tutti i consulenti esterni che ritenga possano essere utili alla realtà aziendale per l’adeguamento del Modello.

Perché scegliere lo Studio Penale Scialla per la redazione e gestione di un modello 231/2021 o lo svolgimento di incarico di ODV

Il D.Lgs. 231/2001 richiede che l’Organismo di Vigilanza sia formato da professionisti, scelti dai vertici aziendali, dopo un’attenta analisi delle loro capacità professionali ed esperienza sul campo.

Garantiamo un aggiornamento costante con master di specializzazione, nonché con i rispettivi percorsi professionali che, integrandosi vicendevolmente, consentono di offrire una consulenza che costituisca  un valore aggiunto per l’Ente.

Non un costo, ma un investimento, che garantirà l’Ente sia in termini economici che reputazionali.

Confisca diretta del denaro sul conto corrente e prova della sua derivazione da un titolo lecito: depositata la sentenza delle Sezioni Unite (42415/2021)

Confisca diretta del denaro sul conto corrente e prova della sua derivazione da un titolo lecito: depositata la sentenza delle Sezioni Unite (42415/2021)

Confisca conto corrente Sezioni Unite di Cassazione

Cassazione Penale, Sezioni Unite, 18 novembre 2021 (ud. 27 maggio 2021), n. 42415
Presidente Cassano, Relatore Mogini

Con ordinanza n. 7021/2021 era stata rimessa alle Sezioni unite la seguente questione di diritto: «se il sequestro delle somme di denaro giacenti su conto corrente bancario debba sempre qualificarsi finalizzato alla confisca diretta del prezzo del profitto derivante dal reato anche nel caso in cui la parte interessata fornisca la prova della derivazione del denaro da un titolo lecito».

Con sentenza numero 42415, depositata il 18 novembre 2011, le Sezioni Unite hanno affermato il seguente principio di diritto: «qualora il prezzo o il profitto derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca viene eseguita, in ragione della natura del bene, mediante l‘ablazione del denarocomunque rinvenuto nel patrimonio del soggetto, che rappresenti l’effettivo accrescimento patrimoniale monetario da quest’ultimo conseguito per effetto del reato; tale confisca deve essere qualificata come confisca diretta, e non per equivalente, e non è ostativa alla sua adozione l’allegazione o la prova dell’origine lecita del numerario oggetto di ablazione».

La questione rimessa all’esame delle Sezioni Unite è la seguente: “se il sequestro delle somme di denaro giacenti su conto corrente bancario debba sempre qualificarsi come finalizzato alla confisca diretta del prezzo o profitto derivante dal reato anche nel caso in cui la parte interessata fornisca la “prova” della derivazione del denaro da titolo lecito”.

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Espulsione dello straniero: sì alla sospensione per il superiore interesse dei figli minori

L’interesse statuale va bilanciato con quello dei minori alla tutela del nucleo familiare, saldamente radicato sul territorio italiano (Trib. Roma decreto 3 agosto 2021)

Il Tribunale di Roma, sezione diritti della persona e immigrazione ha accolto lo scorso 3 agosto la domanda di sospensione cautelare di un provvedimento di espulsione dal territorio italiano emesso dal Prefetto di Roma nei confronti di un cittadino albanese (testo in calce).

Il provvedimento è di interesse in quanto il Giudice ha dato rilievo all’esistenza di forti legami familiari sul territorio italiano del ricorrente (la moglie e due figli minori) e ha sospeso, inaudita altera parte, il provvedimento proprio in quanto l’evidenza di tali legami implica “necessariamente la sussistenza del rischio di un danno grave ed irreparabile in connessione ad un eventuale allontanamento del ricorrente dal territorio, senza contare che in presenza di figli minori l’interesse statuale all’allontanamento dovrà comunque essere bilanciato con l’interesse superiore di questi ultimi, trattandosi di provvedimento destinato inevitabilmente ad incidere sull’unità familiare (cfr anche art. 28 comma 3 d.lvo 286/98)”.

SommarioLa vicendaIl permesso di soggiorno per assistenza minoriLe dimissioni dal carcere e l’espulsione emessa dal PrefettoIl trattenimento presso il Centro per i rimpatri e la convalida del trattenimentoIl ricorso d’urgenza al Tribunale ordinario e la sospensione dell’espulsioneConclusioni

La vicenda

Il ricorrente è arrivato all’età di 20 anni in Italia, nel 2001, con regolare permesso di soggiorno. L’anno successivo ha commesso un reato per il quale è stato successivamente condannato e tratto in arresto nel 2012. Tra la data della commissione del reato e l’emissione del provvedimento di espulsione sono trascorsi 19 anni durante i quali l’interessato, oltre ad aver scontato per intero la pena detentiva inflitta, si è pienamente integrato sul territorio italiano dove ha messo su famiglia e dove lavora sin dal 2014 come cuoco, dapprima presso la mensa del carcere e poi presso un ristorante nel centro di Roma, grazie all’autorizzazione al lavoro esterno al carcere (art. 21 Ordinamento penitenziario), ottenuta proprio per la sua buona condotta durante l’espiazione della pena.

Prima della detenzione il ricorrente aveva contratto matrimonio con una propria connazionale e dalla loro unione sono nati due figli con i quali il ricorrente ha mantenuto un rapporto costante anche durante la detenzione. 

La moglie e i figli sono titolari di regolare permesso di soggiorno e sono perfettamente integrati sul territorio italiano dove i ragazzi frequentano la scuola ed il gruppo scout del paese dove hanno stabilito la residenza.

Il ricorrente ha invece chiesto, poco prima della scarcerazione, un’autorizzazione alla permanenza sul territorio italiano in forza dell’art. 31 d.lgs. 286/98, a mente del quale il Tribunale per i minorenni può autorizzare la permanenza sul territorio nazionale del genitore per salvaguardare il superiore interesse dei figli minori. 

Il permesso di soggiorno per assistenza minori

L’art. 31, co. 3, del d.lgs 286/98 prevede infatti che il Tribunale per i minorenni, per gravi motivi connessi appunto allo sviluppo psicofisico dei figli stranieri che si trovano nel territorio italiano e tenuto conto dell’età e delle condizioni di salute del minore, può autorizzare l’ingresso o la permanenza del familiare, per un periodo di tempo determinato, anche in deroga alle altre disposizioni del TU in materia di immigrazione.

L’art. 31 TU immigrazione introduce quindi un’eccezione alla disciplina sul controllo delle frontiere laddove ricorrano le condizioni per salvaguardare il preminente interesse del minore nei casi in cui l’allontanamento di un suo familiare potrebbe appunto pregiudicarne l’integrità fisico-psichica del minore stesso.

Il noto contrasto giurisprudenziale relativo all’interpretazione dell’art. 31 comma 3 d.lgs 286/98 si è risolto con le sentenze delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione del 25 ottobre 2010 n. 21799 e del 6 luglio 2010 n. 21803 che hanno sancito il chiaro principio di diritto secondo cui: “La temporanea autorizzazione alla permanenza in Italia del familiare del minore, prevista dall’art. 31 del d.lgs 286/98 in presenza di gravi motivi connessi al suo sviluppo psico-fisico, non postula necessariamente l’esistenza di situazioni di emergenza o di circostanze contingenti ed eccezionali strettamente connesse alla sua salute, potendo comprendere qualsiasi danno effettivo, concreto, percepibile ed obiettivamente grave che in considerazione dell’età e delle condizioni di salute ricollegabili al complessivo equilibrio psicofisico deriva o deriverà certamente al minore dall’allontanamento del familiare o dal suo definitivo sradicamento dall’ambiente in cui è cresciuto. Trattasi di situazioni di per sé non di lunga o indeterminabile durata, e non aventi tendenziale stabilità, che pur non prestandosi ad essere preventivamente catalogate e standardizzate, si concretano in eventi traumatici e non prevedibili nella vita del fanciullo che necessariamente trascendono il normale e comprensibile disagio del rimpatrio suo o del suo familiare”.

Le dimissioni dal carcere e l’espulsione emessa dal Prefetto

Al momento delle dimissioni dal carcere, nonostante la pendenza del procedimento volto al rilascio del permesso di soggiorno per assistenza minori, il Prefetto di Roma ha emesso un provvedimento di espulsione senza effettuare il bilanciamento tra l’interesse statuale all’allontanamento e l’interesse superiore dei figli minori alla permanenza sul territorio italiano del genitore, trattandosi di provvedimento destinato inevitabilmente ad incidere sull’unità familiare (cfr anche art. 28 comma 3 d.lvo 286/98)

Sul punto è degno di nota l’insegnamento da ultimo impartito dalla Cassazione, Sezioni Unite civili, nella sentenza n. 15750 del 12 giugno 2019.

In tale occasione le sezioni unite hanno espresso la seguente massima:

 “In tema di autorizzazione all’ingresso o alla permanenza in Italia del familiare di minore straniero che si trova nel territorio italiano, ai sensi dell’art. 31, comma 3, t.u. immigrazione […], il diniego non può essere fatto derivare automaticamente dalla pronuncia di condanna per uno dei reati che lo stesso testo unico considera ostativi all’ingresso o al soggiorno dello straniero; nondimeno la detta condanna è destinata a rilevare, al pari delle attività incompatibili con la permanenza in Italia, in quanto suscettibile di costituire una minaccia concreta e attuale per l’ordine pubblico o la sicurezza nazionale, e può condurre al rigetto della istanza di autorizzazione all’esito di un esame circostanziato del caso e di un bilanciamento con l’interesse del minore, al quale la detta norma, in presenza di gravi motivi connessi con il suo sviluppo psicofisico, attribuisce valore prioritario, ma non assoluto”.

Ad avviso delle Sezioni Unite, il legislatore, con la previsione del permesso rilasciato ai sensi dell’art. 31 d.lvo 286/98, ha voluto perseguire l’interesse del minore, assicurandogli il godimento pieno del suo diritto fondamentale all’effettività della vita familiare e della relazione con i propri genitori, pur nel rispetto dell’esigenza di salvaguardare l’interesse dello Stato ospitante alla tutela dell’ordine pubblico. A tal riguardo, l’art. 31, comma 3, sancisce che, in presenza dei gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico del minore, è previsto il rilascio dell’autorizzazione alla permanenza o all’ingresso del familiare come possibile “anche in deroga alle altre disposizioni del presente testo unico”.

Tale deroga alle disposizioni che prevedono cause ostative all’ingresso o al soggiorno conseguenti a condanne penali dello straniero, comporta che l’autorizzazione ai sensi dell’art. 31, comma 3 TUI, non può essere negata automaticamente, in base alla condanna per determinati reati, ma deve di volta in volta essere fatto un bilanciamento degli interessi in gioco, essendo vietato ogni automatismo.

Nel caso sottoposto al vaglio del Tribunale di Roma è di tutta evidenza la mancanza del requisito dell’attualità della pericolosità sociale e quindi l’interesse dello Stato ad allontanare l’interessato deve soccombere al superiore interesse dei minori a potersi vedere garantito il diritto all’unità familiare.

Dunque, facendo tesoro dell’insegnamento delle Sezioni Unite, nel caso di specie deve ritenersi sussistente la necessità e l’opportunità della permanenza di entrambi i genitori sul territorio italiano per favorire lo sviluppo psico fisico dei minori pienamente integrati sul territorio italiano, stante anche l’assenza dell’attualità della pericolosità del ricorrente in quanto il reato (l’unico commesso dall’interessato) è risalente nel tempo e il ricorrente ha intrapreso con successo un percorso di reinserimento nella società libera. 

Ed infatti, ad avviso del Giudice procedente, nel succinto decreto in commento, in assenza di attualità della pericolosità non vi sono ragioni per poter ritenere preminente l’interesse dello Stato all’ordine pubblico e dovrà attendersi l’esito del procedimento pendente innanzi al Tribunale per i minorenni che deciderà se concedere o meno un’autorizzazione al ricorrente di poter restare in Italia, anche per poter continuare a svolgere l’attività lavorativa in essere che rappresenta l’unica fonte di reddito per l’intero nucleo familiare.

Il trattenimento presso il Centro per i rimpatri e la convalida del trattenimento

In conseguenza del provvedimento di espulsione è stato emesso un ordine del Questore di trattenimento presso il Centro di permanenza temporanea di Roma Ponte Galeria per l’indisponibilità di un vettore che consentisse il rimpatrio immediato dell’interessato.

Illegittimamente la convalida del trattenimento è stata effettuata dal Giudice di Pace e non dal Tribunale ordinario che è invece competente per le convalide dei trattenimenti allorquando  sia pendente un giudizio in materia di unità familiare (art. 30, co. 2, TUI) ovvero – come nel caso di specie – una richiesta di autorizzazione alla permanenza del familiare di minore straniero (art. 31, co. 3, TUI). 

Tale competenza esclusiva e derogatoria alla normativa relativa alla convalida del trattenimento dello straniero irregolare è prevista dall’art. 1, co. 2 bis, D.L. 241/2004, introdotto in sede di conversione con L. 271/2004, ed è stata da ultimo ribadita dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 16075 del 2019 e dai giudici di merito (in ultimo, Tribunale di Genova, ordinanza del 29.11.2020 e Tribunale di Roma, ordinanza 7546/2018).

Il ricorso d’urgenza al Tribunale ordinario e la sospensione dell’espulsione

Nonostante l’errore del Giudice di Pace che non ha accolto la questione preliminare di incompetenza sollevata dalla difesa durante l’udienza di convalida (celebratasi da remoto), il ricorrente è stato poi liberato dopo che è stata accolta la domanda cautelare di sospensione dell’atto presupposto e giustificativo del trattenimento: il provvedimento di espulsione.

Il Tribunale ordinario di Roma ha dapprima “condiviso la tesi del ricorrente in punto di competenza, giacchè ai sensi dell’art. 1, co. 2 bis, D.L: 241/2004, introdotto in sede di conversione con L. 271/2004, è competente il tribunale ordinario ( e non il giudice di pace) a conoscere delle controversie relative all’ espulsione amministrativa qualora sia pendente un giudizio in materia di unità familiare (art. 30, co. 2, TU) ovvero una richiesta di autorizzazione alla permanenza del familiare di minore straniero (art. 31, co. 3, TU), come documentato nel caso di specie”; per poi entrare nel merito della vicenda e, come osservato, ha sospeso il provvedimento per “la sussistenza del rischio di un danno grave ed irreparabile in connessione ad un eventuale allontanamento del ricorrente dal territorio, senza contare che in presenza di figli minori l’interesse statuale all’allontanamento dovrà comunque essere bilanciato con l’interesse superiore di questi ultimi, trattandosi di provvedimento destinato inevitabilmente ad incidere sull’unità familiare (cfr anche art. 28 comma 3 d.lvo 286/98)

Conclusioni

Il caso sottoposto al vaglio del Tribunale di Roma è di sicuro interesse per almeno due ordini di ragioni.

In primo luogo denota un’insufficiente attenzione del giudice di pace a quelli che sono ormai principi consolidati nel nostro ordinamento relativi alla competenza del tribunale ordinario (e non già del giudice di pace) in tutti i procedimenti di limitazione della libertà personale comunque afferenti a soggetti che hanno pendenti un “giudizio in materia di unità familiare (art. 30, co. 2, TU) ovvero una richiesta di autorizzazione alla permanenza del familiare di minore straniero (art. 31, co. 3, TU).”

Nonostante il chiaro disposto normativo della legge 271/2004 e la costante giurisprudenza, ciò non solo ha comportato l’lllegittimità del trattenimento protrattosi per complessivi 10 giorni (con possibile danno erariale in caso di richiesta di risarcimento del danno) ma corrobora la tesi della dottrina secondo cui è opinabile l’attribuzione ad un giudice non togato di materie così delicate e che afferiscono alla limitazione della libertà personale, di rilievo costituzionale (art. 13 Costituzione). 

Su un piano generale, la vicenda sottesa alla decisione in commento palesa l’inattuazione del principio sancito dall’art. 27, comma 3 della Costituzione secondo cui la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. Ed infatti l’espulsione dello straniero a fine pena è l’epilogo scontato nella stragrande maggioranza dei casi; un automatismo che di fatto stride con il principio di proporzionalità almeno quando – come nel caso di specie – il reato è risalente nel tempo, non vi è recidiva, il condannato ha dato prova durante l’esecuzione della pena di essersi ravveduto e vi sono altri interessi (ad es. il superiore interesse dei minori) che devono prevalere in assenza dell’attualità della pericolosità dell’interessato.

D’altronde la Corte europea dei Diritti dell’Uomo in tema d’interpretazione dell’art. 8 della Convenzione Edu ha chiarito che, nonostante la Convenzione non garantisca allo straniero il diritto di entrare o risiedere in un determinato Paese, in ogni caso l’espulsione, pur costituendo un’interferenza nella vita privata o familiare, può ritenersi giustificata ai sensi del par. 2 dell’art. 8, purché avvenuta in conformità della legge e nel perseguimento del legittimo scopo di prevenire disordine e reati, individuando una serie di elementi la cui valutazione consente di stabilire, nel caso concreto, se la misura adottata possa considerarsi ragionevole e proporzionata: a) la natura e la gravità del reato commesso dal richiedente, b) la durata del soggiorno nel Paese da cui dev’essere espulso, c) il tempo trascorso dalla commissione del reato e la condotta tenuta dal richiedente, d) la nazionalità delle persone interessate, e) la situazione familiare del richiedente, ivi compresa la durata del matrimonio ed altri fattori sintomatici dell’effettività della vita di coppia, f) la conoscenza del reato da parte del coniuge al tempo dell’instaurazione del vincolo familiare, g) l’esistenza di figli e la loro età, h) le difficoltà che il coniuge potrebbe incontrare nel Paese verso il quale il richiedente dev’essere espulso, i) l’interesse ed il benessere dei figli, in particolare le difficoltà che ciascuno di essi potrebbe incontrare nel Paese verso il quale il richiedente dev’essere espulso, l) la solidità dei legami sociali, culturali e familiari con il Paese ospite e con quello di destinazione (cfr. ex plurimis, Corte EDU, 23/10/2018, Assem Hassan Ali c. Danimarca; 1/12/2016, Salem c. Danimarca; 3/07/2012, Samsonnikov c. Estonia; 7/04/2009, Cherif e altri c. Italia). 

Ne consegue che il principio di proporzionalità e ragionevolezza della espulsione, nei termini delineati dalla Corte Edu, ed il principio della finalità rieducativa della pena di cui all’art. 27 comma 3 della Costituzione devono essere sempre considerati quali parametri da utilizzare nelle decisioni relative alle espulsioni degli stranieri con precedenti penali ed ogni automatismo espulsivo fondato esclusivamente sull’esistenza di precedenti penali deve ritenersi illegittimo.

RICORSO ALLA CEDU Corte Europea dei diritti dell’Uomo Come presentarlo e in che modo lo stesso viene gestito

La Corte dichiara inammissibili la maggior parte dei ricorsi senza esaminarli nel merito, a causa del mancato rispetto dei requisiti previsti a pena di inammissibilità. Le decisioni di inammissibilità sono definitive e non suscettibili di impugnazione.

Affinché il Suo ricorso non venga dichiarato inammissibile è quindi di fondamentale importanza che Lei rispetti tutti i requisiti necessari. Prima di introdurre il ricorso, La invitiamo a consultare il sito internet della Corte ed in particolare la Guida sull’ammissibilità, avvalendosi della lista di controllo, onde assicurarsi che il ricorso presenti tutti i requisiti necessari per superare il vaglio di ammissibilità.

PRIMA DI INVIARE IL RICORSO ALLA CORTE

Il formulario di ricorso è disponibile sul sito internet della Corte. La invitiamo a scaricarlo, compilarlo in ogni sua parte, nessuna esclusa, stamparlo e poi inviarlo alla Corte, allegando solo copie (non originali) dei documenti relativi che non le verranno poi più restituite alla fine del procedimento. Non chieda alla Corte di inviarLe il formulario in formato cartaceo ma lo stampi e si assicuri che arrivi in tempo utile alla fine di evitare che il ricorso venga dichiarato tardivo (consulti a tal proposito la Guida pratica per la presentazione di un ricorso alla Corte e le istruzioni per la compilazione del formulario, disponibili sul sito internet della Corte).

Un ricorso incompleto rischia di non essere esaminato dalla Corte. È quindi essenziale che Lei compili scrupolosamente in ogni sua parte il formulario di ricorso. In caso di omessa o incompleta compilazione anche di una singola parte del formulario, o di mancato invio di copia dei documenti relativi, la Corte potrà rifiutare la registrazione del ricorso senza procedere al suo esame.

Il mio ricorso alla CEDU: Come presentarlo e in che modo lo stesso viene gestito

 È possibile rivolgersi alla Corte utilizzando una delle due lingue ufficiali del Consiglio d’Europa: francese o inglese. Vi è tuttavia anche la possibilità di utilizzare una delle lingue ufficiali di un qualsiasi Stato membro del Consiglio d’Europa.Durante la fase iniziale del procedimento, non è necessaria l’assistenza di un avvocato. Tuttavia qualora Lei desideri essere rappresentato, dovrà inviare alla Corte una procura da Lei sottoscritta in cui nomina il Suo legale di fiducia.Il formulario di ricorso compilato in ogni sua parte dovrà essere inviato, unitamente ai documenti relativi, al seguente indirizzo:European Court of Human Rights Council of Europe
67075 Strasbourg cedex FranceIl ricorso deve essere inviato solo per posta ed è consigliabile l’invio per posta raccomandata con avviso di ricevimento. La Corte deve essere adita entro il termine stabilito dalla Convenzione; fa fede la data del timbro postale.Pertanto il formulario di ricorso dovrà essere spedito il più presto possibile, una volta concluso il procedimento nazionale mediante una decisione definitiva.DOPO AVER INVIATO IL RICORSO ALLA CORTEIl ricorso arriva all’Ufficio Centrale della Corte che riceve mediamente circa 1500 lettere al giorno. Considerato l’elevato numero di corrispondenza, la Corte non è in condizione di accusarne immediatamente ricevuta.Non chiami la Corte per avere informazioni sull’avvenuta ricezione del ricorso. Sarà la Corte stessa a contattarLa se ha necessità di ulteriori informazioni.L’Ufficio Centrale verifica la corrispondenza in arrivo e poi trasmette i ricorsi alla divisione giuridica competente per lo Stato contro il quale è stato presentato il singolo ricorso. Ad esempio un ricorso contro la Germania verrà trasmesso alla divisione giuridica che tratta i casi tedeschi, composta da persone che possegono le competenze linguistiche e giuridiche del Paese.Il ricorso si vede attribuito un numero e viene esaminato da un giurista. Ciò non significa che esso sia stato accolto, ma solo che si è proceduto alla sua registrazione. Nel caso in cui Lei venga contattato dalla Corte, dovrà rispondere entro il termine stabilito. In caso contrario il Suo ricorso verrà rigettato o distrutto.Una volta in possesso di tutte le informazioni necessarie per il corretto esame del ricorso, la Corte lo assegna ad una delle sue formazioni giudiziarie.Nel corso del procedimento, anche se Le sembra che sia già trascorso molto tempo, attenda di essere contattato dalla Corte. Considerato l’elevato numero di ricorsi presentati ogni anno (più di 50.000) ed il numero di ricorsi pendenti, la Corte non può accusare ricevuta delle lettere o dei documenti che riceve ovvero indicare la data approssimativa di trattazione del ricorso.La procedura dinanzi alla Corte è scritta. Pertanto tutte le informazioni che Lei desidera portare a conoscenza della Corte devono essere comunicate per iscritto.page4image701396544
L’ESAME DEL RICORSO1.
Formazioni GiuDiziarieA seconda dei casi, i ricorsi vengono assegnati ad una delle formazioni giudiziarie della Corte: Giudice unico, Comitato o Camera.̈  Se il Suo ricorso è chiaramente inammissibile, perché non rispetta i requisiti necessari per l’introduzione di un ricorso alla Corte, esso viene assegnato ad un Giudice unico. La decisione di inammissibilità è definitiva e Lei ne sarà informato. Le decisioni di inammissibilità sono definitive e non impugnabili e non è possibile richiedere informazioni ulteriori. Il caso viene definitivamente archiviato e il relativo fascicolo successivamente distrutto.̈  Se si tratta di un caso ripetitivo, perché verte su questioni sulle quali la Corte si è già pronunciata in casi simili, il ricorso viene assegnato ad un Comitato di 3 giudici. In tale evenienza, Le verrà inviata una lettera contenente informazioni sulla procedura. Anche in questo caso, la Corte La contatterà se necessario.̈  Se non si tratta di un caso ripetitivo, il ricorso viene assegnato ad una Camera, composta da 7 giudici. Tale organo potrà emettere una decisione definitiva di inammissibilità o, se lo ritiene ammissibile, esaminare il ricorso nel merito. Preliminarmente il ricorso viene comunicato al Governo dello Stato interessato, per informarlo della sua esistenza e consentirgli di presentare eventuali osservazioni in merito alle questioni sollevate. Le osservazioni del Governo Le verranno trasmesse e Lei avrà la possibilità di replicare. Sebbene non sia necessario farsi assistere da un avvocato fin dall’inizio del procedimento, in questa fase la Corte La inviterà a nominare un avvocato di fiducia. Anche in questo caso, sarà la Corte a contattarLa.̈ La informiamo inoltre che la Grande Camera, composta da 17 giudici, non viene mai investita direttamente di un ricorso ma solo per rimessione o rinvio, in una fase avanzata del procedimento. Se il ricorso viene assegnato ad una Camera, questa può rimettere la competenza a favore della Grande Camera, quando si tratta di risolvere una questione rilevante concernente l’interpretazione della Convenzione o quando vi è il rischio di un conflitto di giurisprudenza. In casi eccezionali, la Grande Camera può altresì essere investita di un ricorso per rinvio, a richiesta di una delle Parti, entro 3 mesi dalla pronuncia della sentenza di una Camera.2. Durata Del proceDimentoÈ impossibile indicare la durata media di trattamento dei ricorsi da parte della Corte. Ciò dipende dal tipo di caso, dalla formazione giudiziaria alla quale viene assegnato, dalla solerzia con cui le parti forniscono alla Corte le informazioni richieste e da molteplici altri fattori. La Corte esamina i ricorsi in base ad un ordine di trattazione che tiene conto dell’importanza e dell’urgenza delle questioni sollevate. Pertanto, i casi più gravi o quelli che mettono in luce problemi su larga scala, vengono trattati con maggior rapidità, il che spiega perché può accadere che un ricorso sia ancora pendente mentre un altro, presentato dopo, sia già stato deciso.3. uDienzeLe udienze dinanzi alla Camera o alla Grande Camera si svolgono in un numero limitato di casi (circa 30 l’anno). Lei verrà informato nel caso in cui, in relazione al ricorso da Lei presentato, la Corte decida di tenere un’udienza. Tutte le udienze sono registrate ed è possibile prenderne visione sul sito internet della Corte.page5image700792224
  • „  la corte può Darmi un consiGlio leGale?Non è compito della Corte dare consigli di natura legale sulle possibilità di ricorso e sulle procedure previste in ogni singolo Paese. Per quanto riguarda invece la procedura dinanzi alla Corte, è possibile trovare tutte le informazioni necessarie sul sito internet. La Corte non è in grado di stabilire a priori quante possibilità di successo abbia il Suo ricorso. Dovrà quindi necessariamente attendere che venga emessa una decisione o pronunciata una sentenza.
  • „  la corte ha la possibilità Di intervenire presso lo stato convenuto?No. La Corte non interverrà a Suo favore presso le autorità dello Stato contro il quale è stato presentato il ricorso. Tuttavia, in casi eccezionali, la Corte può richiedere a uno Stato di adottare determinate misure o di astenersi dal compiere determinate azioni, in attesa dell’esame del ricorso (si tratta in genere di casi in cui vi è il rischio concreto che il ricorrente possa subire danni gravi alla persona).
  • „  la corte si È Già occupata Di casi simili al mio?Le sentenze della Corte vengono pubblicate sul sito internet. Lei può quindi effettuare una ricerca e verificare se la Corte ha già esaminato casi simili al Suo.
  • „  se il mio ricorso viene Dichiarato inammissibile che possibilità ho Di oppormi a tale Decisione?Le decisioni di inammissibilità sono definitive e non sono suscettibili di impugnazione. Pertanto è estremamente importante che ogni ricorrente, prima di rivolgersi alla Corte, si assicuri che il Suo ricorso soddisfi tutti i requisiti di ammissibilità.
  • „  come posso Fare per avere inFormazioni sul mio ricorso?La Corte non è in grado di rispondere alle molteplici richieste di informazione sulla fase in cui si trovano i ricorsi pendenti. Considerato che la procedura dinanzi alla Corte è scritta, Lei verrà contattato per posta nel caso in cui siano necessarie ulteriori informazioni da parte Sua o in occasione di una specifica fase del procedimento. Talune informazioni sono comunque reperibili sul sito internet della Corte (comunicazioni, domande alle parti, decisioni sull’ammissibilità, ecc

Le Sezioni Unite PENALI sul termine per l’adempimento degli obblighi nella sospensione condizionale della pena

Cassazione Penale sospensione condizionale della pena

1. La vicenda giudiziaria e la questione di diritto. – Con la pronuncia in commento, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno risolto la controversa questione (qui l’ordinanza di rimessione) relativa all’individuazione del termine entro cui il condannato debba adempiere all’obbligo risarcitorio cui sia stata subordinata la concessione in suo favore del beneficio della sospensione condizionale della pena, allorquando detto termine non sia stato fissato giudizialmente, in contrasto con il dettato dell’art. 165 c.p.

Nel caso di specie, il Tribunale di Lecce, in funzione di giudice dell’esecuzione, revocava il beneficio della sospensione condizionale della pena precedentemente concesso al condannato, essendo egli risultato inadempiente agli obblighi risarcitori disposti in favore della parte civile, cui risultava condizionato il beneficio della sospensione condizionale della pena, pur in assenza della fissazione giudiziale di un termine per il relativo adempimento.

Il giudice dell’esecuzione muoveva dal presupposto secondo cui, difettando un’espressa indicazione giudiziale, il termine di adempimento degli obblighi risarcitori dovesse essere individuato nel momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna a pena sospesa.

Pertanto, essendo la sentenza divenuta irrevocabile e non risultando elementi utili a provare la sussistenza di una causa scriminante l’inadempimento degli obblighi risarcitori, risultava integrata una delle ipotesi di revoca di diritto della sospensione condizionale della pena di cui all’art. 168, n. 1, c.p.

Ricorreva per cassazione la difesa del condannato che, richiamando alcuni principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità, sosteneva l’erroneità del provvedimento di revoca del beneficio della sospensione condizionale della pena.

Anzitutto, la difesa asseriva che, in caso di omessa fissazione giudiziale, il termine per l’adempimento andrebbe a coincidere con quello di cinque o due anni previsto dall’art. 163 c.p., non potendo diversamente operare le ordinarie regole civilistiche sull’immediata esigibilità delle prestazioni per cui non sia stato fissato un termine, regole che risulterebbero derogate proprio dal dettato dell’art. 165 c.p.

Conseguentemente, non essendo ancora decorso il suddetto termine, il giudice avrebbe dovuto, in luogo della revoca, adottare un provvedimento con cui assegnava al condannato un termine per adempiere.

La difesa lamentava, inoltre, l’omessa verifica delle concrete possibilità di adempiere del condannato, che risultava invero essere percettore di entrate di entità così modica da fondare un’assoluta impossibilità di adempiere, rilevante come fattore ostativo alla revoca del beneficio.

La Prima Sezione Penale, rilevando l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale in relazione al primo motivo di ricorso, rimetteva alle Sezioni Unite la seguente questione«se, in caso di sospensione condizionale della pena subordinata all’adempimento di un obbligo, il termine entro il quale l’imputato deve provvedere all’adempimento, qualora non sia stato già fissato in sentenza, coincida con quello del passaggio in giudicato della stessa o con quello previsto dall’art. 163 c.p.».

2. Le conseguenze della mancata fissazione giudiziale del termine di adempimento degli obblighi condizionanti: due gli indirizzi interpretativi. – Secondo il primo indirizzo giurisprudenziale richiamato, l’obbligazione risarcitoria cui sia stata subordinata la concessione del beneficio andrebbe qualificata come obbligazione pecuniaria immediatamente esigibile, di talché il termine per il suo adempimento dovrebbe individuarsi in relazione alla natura e al contenuto specifico dell’obbligazione stessa.  Ai sensi dell’art. 1183, co. 1, c.c., detto termine andrebbe a coincidere con il momento del passaggio in giudicato della sentenza[1]. Oltre a ciò, la disciplina dell’inadempimento andrebbe mutuata dalla disciplina codicistica di cui all’art. 1218 c.c., sicché la revoca del beneficio andrebbe esclusa in caso di impossibilità assoluta della prestazione derivante da causa non imputabile al condannato, causa di cui lo stesso potrebbe fornire prova in occasione del momento procedimentale previsto dall’art. 674 c.p.p. (udienza camerale di revoca del beneficio).

Per il secondo orientamento, invece, nel caso di omessa fissazione giudiziale del termine, dovrebbe applicarsi agli obblighi risarcitori lo stesso termine legislativamente previsto per la valutazione di meritevolezza del condannato al godimento del beneficio (termine pari, ai sensi dell’art. 163 c.p., a cinque anni per i delitti, due anni per le contravvenzioni)[2].

3. Il beneficio della sospensione condizionale della pena. – Preliminarmente, le Sezioni Unite ricostruiscono l’evoluzione legislativa della sospensione condizionale della pena[3].

Nata come istituto di carattere processuale (c.d. “condanna condizionale”) rispondente alla ratio di sottrarre all’ambiente rovinoso del carcere e ai suoi effetti criminogeni e disfunzionali chi non avesse ancora conosciuto l’esperienza detentiva[4], la sospensione condizionale della pena fu attratta nel novero degli strumenti di diritto sostanziale con l’entrata in vigore del codice Rocco del 1930.

La sospensione condizionale della pena si qualificò, dunque, come una delle prime misure in senso latoalternative alla detenzione, per tale intendendosi quelle risposte sanzionatorie variamente alternative per contenuto e struttura alla privazione della libertà realizzata nelle forme della restrizione carceraria[5].

Orientata al fine di ridurre il fenomeno della carcerazione di breve (o brevissima) durata, il beneficio assume, secondo la ricostruzione dottrinale prevalente, una duplice funzione: da un lato, è negativamente volto ad evitare l’esecuzione della pena, dall’altro, pur risultando uno strumento alternativo al carcere, conserva una positiva portata sanzionatoria[6].

La sospensione condizionale della pena è applicata contestualmente alla pronuncia della sentenza di condanna (fase c.d. decisoria) e sospende l’esecuzione delle pene principali e accessorie, per un periodo di durata pari a due anni, nel caso di contravvenzione, o a cinque anni, nel caso di delitto.

L’effetto estintivo che può conseguire alla concessione del beneficio in commento consegue, tuttavia, non all’applicazione della misura, ma al positivo superamento della prova cui il condannato è ammesso.

Il condannato dovrà, infatti, astenersi dal commettere ulteriori reati della stessa indole di quello per cui sia già intervenuta un’affermazione di responsabilità, risultando altresì obbligato ad adempiere all’eventuali prescrizioni cui sia stata subordinata la concessione del beneficio.

Tradizionalmente, al condannato potevano essere imposte prescrizioni attinenti alle restituzioni e al pagamento del risarcimento del danno, essendo altresì possibile per il giudice disporre la pubblicazione della sentenza di condanna a pena sospesa a titolo di riparazione del danno. Tanto valeva – ricorda la Corte – anche in relazione alla già citata figura della condanna condizionale, eccezion fatta per la previsione della pubblicazione della sentenza di condanna, non contemplata, mentre ammissibile era la condanna al pagamento delle spese del procedimento.

Se il nucleo essenziale della disciplina della sospensione condizionale della pena è rimasto nel tempo immutato, svariati sono stati gli interventi legislativi che hanno inciso sul beneficio, novellando, in particolare, la disposizione di cui all’art. 165 c.p. tramite la previsione di ulteriori obblighi all’adempimento dei quali subordinare la concessione della misura de qua. Si pensi alle previsioni legislative più recenti che hanno ammesso la subordinazione della concessione del beneficio all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato (l. n. 689/1981) ovvero alla prestazione di attività non retribuita in favore della collettività, sempre che il condannato non vi si opponga (l. n. 145/2004)[7].

In tal modo, la disciplina della sospensione condizionale si è arricchita di contenuti specialpreventivi, venendo a consistere, quantomeno per taluni condannati, in un programma di prescrizioni cui il soggetto è obbligato se vuole ottenere l’effetto estintivo[8]. In dottrina si è parlato in proposito di sospensione condizionale con obblighi o “con prova[9]”, come modello contrapposto a quello della sospensione condizionale “secca”, concessa senza che il condannato sia vincolato all’adempimento di particolari obblighi.

Il modello di sospensione condizionale con obblighi è l’unico applicabile ai condannati che abbiano già usufruito una prima volta della sospensione condizionale. Sempre che il cumulo delle pene loro inflitte si mantenga al di sotto delle soglie dettate per la concessione della misura dall’art. 163 c.p., tali soggetti saranno necessariamente tenuti ad adempiere ad uno degli obblighi di cui al co. 1 dell’art. 165 c.p.

Analoga regola trova applicazione anche in altri casi di subordinazione obbligatoria, che la Corte pure ripercorre. Si tratta di casi di conio più recente, relativi a condanne intervenute per alcuni reati contro la pubblica amministrazione (di cui agli artt. 314, 317, 318, 319, 319 ter, 319 quater, 320, 321 e 322 bis c.p.),  per il reato di furto in abitazione e furto con strappo (art. 624 bis c.p.), nonché relativamente ad una serie reati espressivi di violenza domestica o di genere.

Fuori dai casi di subordinazione obbligatoria, la tendenza registratasi nella prassi applicativa è quella della rinuncia all’esercizio dei poteri discrezionali attribuiti al giudice quanto alla definizione del contenuto prescrizionale della misura. Si è così di fatto delineato come modello prevalente quello della sospensione condizionale “secca” che, pur svuotato di contenuti risocializzanti[10], ha avuto un ottimo riscontro applicativo al punto che la sospensione condizionale è stata definita in dottrina come causa di desuetudine di altre misure in senso lato alternative alla detenzione, pur previste dal nostro ordinamento (i.e. le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi[11]).

4. La soluzione offerta dalle Sezioni Unite. – Tornando alla decisione in commento, nel risolvere il contrasto portato alla loro attenzione, le Sezioni Unite muovono dalla definizione della funzione del termine per l’adempimento degli obblighi cui sia stata subordinata la concessione della sospensione condizionale della pena.

L’evoluzione storica dell’istituto e l’interpretazione letterale dell’art. 165 c.p., inducono la Corte a ritenere che il termine giochi un ruolo essenziale all’interno della fattispecie. Gli obblighi imposti al condannato a pena sospesa, infatti, sono obblighi condizionanti, potendo essi incidere sulla revoca del beneficio, sia nel caso in cui costituiscano elemento accessorio della fattispecie, sia quando la completino.

Ne consegue la necessità che essi siano concretamente esigibili non prima che sia decorso un certo termine dal momento in cui sono imposti al condannato, in ossequio al principio di proporzionalità che orienta l’intero sistema penale.

Pertanto, il termine per l’adempimento non potrebbe coincidere con quello del passaggio in giudicato della sentenza, dal momento che ciò comporterebbe la sovrapposizione tra il dies a quo e il dies ad quem, così svalutando la lettera legis che impone invece la fissazione di un termine di adempimento diverso da quello iniziale, a meno di voler ammettere che tale termine possa iniziare a decorrere ante iudicatum, in chiaro contrasto con la presunzione assoluta di non colpevolezza.

La centralità del termine per l’adempimento degli obblighi condizionanti si ricava anche dalla circostanza che detti obblighi connotano in funzione special-preventiva la sospensione condizionale della pena, garantendo l’adesione del condannato ad un percorso di ravvedimento in cui si individua lo «scopo precipuo dell’istituto stesso» (cfr. Corte cost., sentenza n. 49//1975).

Il rapporto cui tali obblighi si collegano deve, pertanto, qualificarsi non già come rapporto di diritto privato, bensì come rapporto di diritto pubblico, intercorrente tra condannato e giustizia penale.

La concezione penalistica del termine di cui all’art. 165 c.p. giustifica, quindi, il rigetto dell’orientamento che ne sosteneva l’individuabilità in relazione alla natura e alla specie degli obblighi imposti, con conseguente affermazione dell’applicabilità delle regole civilistiche nel caso di coincidenza tra obblighi condizionanti e obbligazione civile derivante da reato.

Si osserva quindi che, se da un lato una lettura più attenta dell’art. 1183, co. 1, c.c. – interpretato alla luce del principio di buona fede e correttezza –, avrebbe comunque dovuto condurre a sostenere la concedibilità in favore del condannato di un termine di adempimento, ancorché esiguo, dall’altro, la natura penalistica di tale termine depone in sfavore dell’applicabilità della regola civilistica del quod sine die debetur, statim debetur, quale che sia la sua interpretazione più corretta.

D’altro canto, la Corte critica anche il secondo orientamento sopra richiamato secondo cui, in caso di mancata fissazione giudiziale, il termine di adempimento andrebbe a coincidere con quello di cui all’art. 163 c.p.

Difatti, detti termini rispondono a due distinte finalità. Quello di cui all’art. 163 c.p. è un termine legale ed indica il tempo concesso al condannato per confermare l’esito positivo del giudizio prognostico compiuto dal giudice al momento della concessione della misura. Diversamente, il termine di cui all’art. 165 c.p. è un termine giudiziale, utile a definire il trattamento special-preventivo riservato al condannato a pena sospesa così che possa tenere comportamenti sintomatici di una maggiore socialità.

L’affermazione della coincidenza dei due termini svaluta il ruolo che il termine di cui all’art. 165 c.p. assume nel sistema, data la sua rilevanza nel concorrere a definire la finalità special-preventiva che connota il beneficio.

Oltre a ciò, le Sezioni Unite osservano come il secondo indirizzo interpretativo si fondi su un erroneo presupposto: si postula la subordinazione dell’estinzione del reato all’adempimento degli obblighi condizionanti, nella specie dell’obbligo risarcitorio, mentre è la sospensione condizionale ad essere subordinata a detti obblighi, come se fosse ad essa apposta una clausola risolutiva.

Il termine di adempimento deve quindi essere espressamente individuato dal giudice in conformità al trattamento che si intende predisporre per il condannato al fine del miglior perseguimento della finalità del reinserimento sociale.

5. Le conseguenze dall’omessa fissazione giudiziale del termine di adempimento. – L’omessa fissazione del termine si traduce nell’omissione di una statuizione giudiziale obbligatoria a contenuto non predeterminato, che invero concorre a definire il trattamento rieducativo e quindi richiede l’apprezzamento di una serie di elementi non predefiniti, tra cui si annoverano senz’altro le reali condizioni economiche del condannato, quantomeno nel caso in cui l’obbligo abbia natura risarcitoria. La necessità di una valutazione di tal genere si impone al fine di verificare che il condannato possa effettivamente assolvere agli obblighi condizionanti, specie se di natura risarcitoria, ed evitare che il beneficio nasca già morto.

Deve quindi escludersi l’applicabilità della procedura di correzione dell’errore materiale, riservata alle omissioni di una statuizione giudiziale obbligatoria, di natura accessoria ma con contenuto predeterminato.

Piuttosto, le parti dovranno ricorrere agli ordinari mezzi di impugnazione per chiedere la riforma della sentenza che abbia omesso di statuire sul termine di adempimento.

In tal modo, il giudice d’appello potrà fissare detto termine e potrà farlo anche d’ufficio, in caso di mancata impugnazione della sentenza sul punto, senza che ciò si traduca nella violazione del divieto della reformatio in peius, essendo il termine elemento necessario ed ineliminabile del beneficio, concepito anche a vantaggio del condannato.

Laddove la sentenza sia divenuta irrevocabile senza che l’omissione sia stata riparata, spetterà al giudice dell’esecuzione provvedere alla fissazione del termine, su richiesta delle parti e anche a prescindere dalla presentazione di una domanda di revoca della sospensione condizionale della pena.

Qualora nemmeno il giudice dell’esecuzione sia investito della questione, il termine coincide con quello di cui all’art. 163 c.p., in ragione della lettura combinata delle norme di cui agli artt. 167 e 168 c.p. Se alla scadenza dei termini di cui all’art. 163 c.p. il condannato non ha adempiuto agli obblighi condizionanti, la sospensione della pena dovrà comunque essere revocata.

6. Riflessioni conclusive. Con la sentenza in commento le Sezioni Unite della Corte di Cassazione si esprimono su un contrasto interpretativo risalente nel tempo e relativo alle conseguenze della mancata fissazione giudiziale del termine di cui all’art. 165 c.p., così confermando, anzitutto, che nessuna nullità è prevista in tali casi e che l’obbligo di fissazione giudiziale si traduce in un obbligo privo di sanzione[12].

La soluzione adottata dalla Corte muove dal rilievo dell’autosufficienza della disciplina penalistica e risponde al principio del favor rei, posto che esclude che il termine per adempiere possa coincidere con quello del passaggio in giudicato della sentenza di condanna, che rappresenta invece soltanto il dies a quo. Rigettato, quindi, il primo orientamento interpretativo, le Sezioni Unite aderiscono al secondo soltanto in via residuale, ammettendo che il termine per l’adempimento possa coincidere con quello di cui all’art. 163 c.p. unicamente nei casi in cui né il giudice della cognizione né il giudice dell’esecuzione abbiano provveduto alla sua fissazione, considerato che, scaduto il termine di cui all’art. 163 c.p. senza che siano stati adempiuti gli obblighi condizionanti, dovrebbe comunque farsi luogo alla revoca del beneficio.

Un aspetto interessante della pronuncia in commento è offerto dalle affermazioni di principio che la Corte compie rispetto alla funzione del termine giudiziale di cui all’art. 165 c.p., definito come un termine che partecipa della finalità special-preventiva che la norma chiede essere perseguita nel caso concreto e che, invece, risulta sempre più attenuata nella prassi, ove si è maggiormente diffuso il modello di sospensione condizionale “secca”.

Se deve tendenzialmente escludersi la rispondenza della sospensione condizionale “secca” alle diverse funzioni della pena (prevenzione generale e speciale), alcuni rilievi critici possono invero essere mossi anche nei riguardi della sospensione condizionale c.d. “con prova”, specie relativamente ai casi di subordinazione obbligatoria che conseguono automaticamente all’affermazione di responsabilità per un determinato titolo di reato.

La valorizzazione del termine come elemento modulabile al fine del miglior perseguimento delle esigenze special-preventive in funzione della risocializzazione del condannato risponde pienamente al principio dell’individualizzazione della risposta sanzionatoria ed impone al contempo una riflessione sulla reale portata probatoria del beneficio della sospensione condizionale della pena.

Con la sentenza in commento si ribadisce quanto già espresso dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 49 del 1975, ovverosia che scopo precipuo dell’istituto della sospensione condizionale della pena è quello di garantire che il comportamento del reo si adegui ad un percorso di ravvedimento.  

Quest’affermazione di principio, unitamente alla rinnovata sensibilità espressa dalla Riforma Cartabia in materia di alternative alla detenzione, conduce a chiedersi se non sia giunto il tempo di provvedere alla valorizzazione dell’istituto della sospensione condizionale, tramite il ridimensionamento dell’area di operatività della sospensione “secca” e la contestuale ridefinizione dei connotati della sospensione “con prova”[13].

La sospensione condizionale “secca” andrebbe a ben vedere riservata ai casi in cui non siano ravvisabili bisogni risocializzativi, mentre la rivisitazione della sospensione condizionale “con prova” dovrebbe passare dal rafforzamento dei suoi contenuti e dall’assegnazione al giudice di una maggiore discrezionalità nella definizione del programma prescrizionale ma anche nella fase della revoca[14].

Si tratta di un processo che, nel quadro della Riforma Cartabia, ha già trovato spazio in relazione alle pene sostitutive di cui al nuovo art. 20 bis c.p. e che ben potrebbe essere riservato anche alla sospensione condizionale della pena, posto che la stessa continuerà ad essere applicabile e che le nuove pene sostitutive potranno trovare applicazione a condizione che il giudice non abbia ordinato la sospensione condizionale della pena[15]. Da un lato, ciò consentirebbe di recuperare la mancata inclusione dell’affidamento in prova tra le nuove pene sostitutive e di valorizzare la portata di misura di comunità della sospensione condizionale “con prova”, dall’altro, riservando la sospensione condizionale “secca” ai casi in cui non siano ravvisabili bisogni risocializzativi, tale scelta si tradurrebbe nella cristallizzazione di un’area in cui non si assiste ad un’impropria rinuncia alla risposta punitiva, bensì si realizza un consapevole arretramento dell’interesse pubblico alla punizione.

[1] In tal senso si esprimono ex multis Cass. pen., Sez. I, n. 47862/2017, Cass. pen., Sez. V, n. 36154/2018, nonché Cass. pen., Sez. I, nn. 10867/2020 e 6368/2020, muovendo dalla considerazione secondo cui l’adempimento degli obblighi risarcitori condizionanti consista nell’adempimento di un’obbligazione pecuniaria immediatamente esigibile. Diversi gli orientamenti espressi da Cass. pen., Sez. III, nn. 10581/2013 e 22658/2016, ove i giudici di legittimità avevano sostenuto che il termine di adempimento dovesse considerarsi scaduto decorsi novanta giorni dal passaggio in giudicato della sentenza, cfr. sul punto M. Sbezzi, Sospensione condizionale subordinata a obblighi risarcitori: la Cassazione fa chiarezza sul termine per adempiere, nota a Cass. pen., Sez. I, sentenza 16 gennaio 2020 (dep. 30 marzo 2020), n. 10867, in Il Penalista, 21 maggio 2020. A commento della sentenza n. 6368/2020 si veda, invece, A. Corbo, Questioni controverse nella giurisprudenza di legittimità, in Cassazione penale, 2020, 4, pp. 1424-1426.

[2] Si vedano ex multis Cass. pen., Sez. I, nn. 42109/2013 e 24642/2015, nonché Cass. pen., Sez. V, n. 9855/2018, ove diversamente si afferma che l’adempimento è esatto purché intervenga nel tempo di sospensione della pena.

[3] Sul punto si richiama anche M. Sbezzi, Sospensione condizionale subordinata a obblighi risarcitori: la Cassazione fa chiarezza sul termine per adempiere, op. cit., ove si ripercorre brevemente il percorso evolutivo dell’istituto de qua. Gli interventi normativi succedutisi possono così riassumersi: l. n. 689/1981 (introduzione della previsione relativa all’eliminazione delle conseguenze dannose e pericolose del reato; vincolo per il giudice a subordinare la concessione della sospensione ad almeno un adempimento, purché non inesigibile); l. n. 145/2004 (non più inesigibilità, ma in caso di condizioni economiche precarie, possibilità di prestare attività non retribuita in favore della collettività); l. n. 69/2015 (obbligo di condizioni in caso di sospensione pronunciata a favore di pubblici ufficiali, condannati per reati contro la p.a.; in particolare, necessario il pagamento di “una somma equivalente al profitto del reato ovvero all’ammontare di quanto indebitamente percepito”); l. n. 3/2019, c.d. “spazzacorrotti” (per i pubblici ufficiali, l’adempimento imposto deve corrispondere al “prezzo o profitto del reato”). Si aggiungono le modifiche intervenute ad opera della legge n. 36/2019, modificativa del regime della legittima difesa, e della legge n. 69/2019, recante disposizioni a tutela delle vittime di violenza domestica o di genere.

[4] G. Fiandaca, Art. 27 3° comma, in G. Branca (fondato da), A. Pizzorusso, Commentario della Costituzione. Rapporti civili. Art. 27 – 28, Bologna, Zanichelli Editore, 1991, p. 298. 

[5] C. Perini, Prospettive attuali dell’alternativa al carcere tra emergenza e rieducazione, in Diritto penale contemporaneo – Riv. Trim., 4/2017, p. 78.   

[6] F. Palazzo, R. Bartoli, Certezza o flessibilità della pena? Verso la riforma della sospensione condizionale, Torino, Giappichelli, 2007, p. 5. 

[7] Si riporta di seguito la formulazione attualmente vigente dell’art. 165, co. 1, c.p. recante la disciplina degli obblighi cui può essere sottoposto il condannato: «La sospensione condizionale della pena può essere subordinata all’adempimento dell’obbligo delle restituzioni, al pagamento della somma liquidata a titolo di risarcimento del danno o provvisoriamente assegnata sull’ammontare di esso e alla pubblicazione della sentenza a titolo di riparazione del danno; può altresì essere subordinata, salvo che la legge disponga altrimenti, all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato, ovvero, se il condannato non si oppone, alla prestazione di attività non retribuita a favore della collettività per un tempo determinato comunque non superiore alla durata della pena sospesa, secondo le modalità indicate dal giudice nella sentenza di condanna».

[8] Si vedano G. Fiandaca, Art. 27 3° comma, in G. Branca (fondato da), A. Pizzorusso, Commentario della Costituzione. Rapporti civili. Art. 27 – 28, op. cit., p. 299, D. Pulitanò, La sospensione condizionale della pena: problemi e prospettive, in A.A.V.V., Sistema sanzionatorio: effettività e certezza della penaAtti del Convegno di studio svoltosi a Casarano-Gallipoli, 27-29 ottobre 2000, Milano, Giuffrè, 2002, pp. 129 ss., M. Sbezzi, Sospensione condizionale subordinata a obblighi risarcitori: la Cassazione fa chiarezza sul termine per adempiere, op. cit., ove l’A. sottolinea come la sospensione condizionale «da abituale abito delle sentenze di condanna a pene contenute nei limiti di legge», stia sempre più rivestendosi di una funzione special-preventiva e rieducativa. Si veda pure A. Esposito, La sospensione condizionale della pena tra passato e presente, in M. Del Tufo (a cura di), La legge anticorruzione 9 gennaio 2019, n. 3, Giappichelli, Torino, 2019, pp. 43 ss.

[9] A. Della Bella, E. Dolcini, Per un riordino delle misure sospensivo-probatorie nell’ordinamento italiano, in A. Della Bella, E. Dolcini, Le misure sospensivo-probatorie. Itinerari verso una riforma,  Milano, Giuffrè, 2020, pp. 335 ss., in particolare pp. 338 ss.

[10] Si vedano in tal senso F. Giunta, L’effettività della pena nell’epoca del dissolvimento del sistema sanzionatorio, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1998, 2, p. 416; T. Padovani, Sospensione e sostituzione nella prospettiva d’un nuovo sistema sanzionatorio, ivi, 1985, 4, pp. 983 ss.; Id., Sanzioni sostitutive e sospensione condizionale della pena, ivi, 1982, 2, pp. 494 ss. 

[11] L’esigenza di razionalizzare i rapporti tra sospensione condizionale e sanzioni sostitutive è da tempo affermata, cfr. ex multis F. Palazzo, Le pene sostitutive: nuove sanzioni autonome o benefici con contenuto sanzionatorio?, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1983, 3, pp. 834 ss., E. Dolcini, Ancora una riforma della sospensione condizionale della pena?, ivi, 1985, 4, pp. 1012 ss.; E. Dolcini, C.E. Paliero, Il carcere ha alternative? Le sanzioni sostitutive della detenzione breve nell’esperienza europea, Milano, Giuffrè, 1989, p. 275 ss.; E. Dolcini, Principi costituzionali e diritto penale alle soglie del nuovo millennio, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1999, 1, p. 23; T. Padovani, Fuga dal carcere e ritorno alla sanzione. La questione delle pene sostitutive tra efficacia della sanzione ed efficienza dei meccanismi processuali, in A.A.V.V., Sistema sanzionatorio: effettività e certezza della pena, op. cit., pp. 73 ss. ove l’A. lamenta pure che l’esito italiano del ricorso alle misure sospensive e sostitutive ha finito con il determinare un’impropria rinuncia alla risposta punitiva, essendosi risolta in una abdicazione della pretesa punitiva in ragione della scarsa effettività ed efficacia di tali strumenti alternativi. 

[12] M. Sbezzi, Sospensione condizionale subordinata a obblighi risarcitori: la Cassazione fa chiarezza sul termine per adempiere, op. cit.

[13] Analoghe istanze sono state espresse in tempi recenti dal Gruppo di ricerca sulle misure sospensivo-probatorie coordinato dal Prof. E. Dolcini, i cui risultati sono raccolti nel volume A. Della Bella, E. Dolcini, Le misure sospensivo-probatorie. Itinerari verso una riforma,  op. cit., cfr. sul punto M. Donini, Le misure sospensivo-probatorie in fase decisoria, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2022, 1, pp. 235 ss.

[14] M. Donini, Le misure sospensivo-probatorie in fase decisoria, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, op. cit., p. 240.

[15] Art. 58, l. n. 689/1981.