SENTENZA CEDU CASO J.L. CONTRO ITALIA

(Ricorso CEDU- Corte Europea Diritti Uomo n. 5671/16) 

INTRODUZIONE 

Il parere requirente viene formulato dalla Corte in materia di art. 8 CEDU; di «obblighi positivi»; di secondaria persecuzione per la vittima, di un reato di abuso sessuale; di rispetto dell’integrità personale tutelata nel corso del processo inquirente; e di art. 44§2 della CEDU. 

SOMMARIO: 1.Il caso di specie; 2.La giurisprudenza di merito; 3.La pronuncia di diritto; 4.L’opinione dissidente del giudice WOJTYCZEK. 

1.Il caso di specie. 

Il ricorso in oggetto alla presente sede requirente della Suprema Corte di Strasburgo, coinvolge la Repubblica italiana, e la Signora J.L cittadina di tale Repubblica.
La Signora J.L. lamenta una violazione degli artt. 81 e 142 della CEDU, a fronte di un procedimento penale, adito, in occasione di un rilevato delitto di violenza sessuale ai danni di quest’ultima; un procedimento svoltosi in carenza di disposizioni cautelari a favore della vittima, quanto della sua vita privata e integrità personale. Nello specifico, così come reso evidente il 14 gennaio 2013 dal Tribunale di Firenze, venivano condannati in tale sede giudicante, sei dei sette accusati, per avere causato lesioni personali e psicologiche, a seguito di violenza carnale a danno della requirente, ciò ai sensi dell’art. 609bis §1 e 609octies. 

1 «Diritto al rispetto della vita privata e familiare». 2 «Divieto di discriminazione». 

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Tale Tribunale perveniva, di fatto, alla constatazione di profonde discrepanze, di carattere sostanziale, nella rilevazione di una reale partecipazione consensuale o meno da parte della vittima. Nell’accertamento della veridicità dei fatti contestati in sede giudicante, veniva rilevato dagli inquirenti, l’incoerenza quanto l’evidente carenza di requisiti logici nella ricostruzione del racconto, riportato dalla vittima, in specie della riproduzione iniziale dei fatti. Nella costruzione priva di sintagmi logici di interna coerenza sostanziale, il Tribunale di Firenze, si allinea a un costrutto giurisprudenziale maturato dalla Suprema Corte di Cassazione, nel poter fare propria una favorevole attestazione della predetta testimonianza fornita dalla Signora J.L. 

La Cassazione, difatti, utilizza quali parametri di percettibile credibilità, un procedimento di c.d. «valutazione frammentata» delle pervenute dichiarazioni della vittima in oggetto di procedimento di preliminari indagini per violenza carnale, e in assenza di rilevanza di contraddizioni nella ricostruzione dei fatti, o di nessi logici nella proposizione degli stessi. 

Un ulteriore elemento di evidente contraddizione viene, altresì, messo in luce, dalla certificazione medicale fornita dal centro antiviolenza, che rileva solo nelle successive 12 ore agli eventi riportati verbalmente dalla ricorrente, un riscontro di lesioni non compatibili con la violenza carnale paventata dalla vittima. 

Lo stesso Tribunale, rende nota, inoltre, l’effettiva insufficienza di prove, che possano, effettivamente, fare pensare a una serata trasgressiva trascorsa abusando di un’oggettiva inconsapevolezza della Signora J.L., in qualità di vittima dell’insana azione delittuosa. La ricostruzione avvenuta attraverso le prove testimoniali, conferisce elementi di reale constatazione dello stato di ebrezza della vittima, nello spazio temporale internamente al quale è collocabile l’efferato reato. 

Allo stato dei fatti, si è ritenuto di ipotizzare una volontà consenziente anche se non pienamente lucida.
Successivamente, il caso viene discusso in appello il 4 marzo 2015, per il quale appello ci si rifaceva, esclusivamente, alla valutazione 

della assuefatta precarietà di reazione da parte della vittima, poiché in evidente stato di stordimento da alcol, ai sensi del quale intorpidimento fosse da ipotizzarsi un’avvenuta grave lesione ai danni di quest’ultima, così come legislativamente sancito ai sensi dell’art. 609bis §2. 

La Corte d’Appello, stabilisce nel merito del suo discernimento, che la procedura di natura ispettiva posta in essere dal Tribunale di prima istanza, non concretizzasse in maniera soddisfacentemente corretta la tesi maturata dalla giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione, in materia di dichiarazioni rese da una vittima di violenza carnale. 

Il Tribunale di Firenze, aveva proceduto ad una valutazione frammentata delle diverse dichiarazioni della ricorrente, attestandone la relativa credibilità dando peso, esclusivamente, a una parte dei fatti da rilevarsi giudizialmente. 

La giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione, invece, segnala che un tale tipo di approccio è sostenibile solo se la testimonianza della vittima, faccia riferimento nella ricostruzione del suo racconto, a dei frammentati frangenti distinti e fra loro meramente indipendenti gli uni dagli altri, non riconducibili a un unico episodio di lesione. 

Sulla base di tale ricondotta analisi, la credibilità della vittima non è attestabile, e nemmeno testabile, statuisce la Corte.
Quest’ultima asserisce peraltro, che non è sostenibile la tesi di precarietà psicologica della Signora J.L., potendo la ricorrente lucidamente apportare il proprio personale consenso; e sottolineando altresì, a seguito di rilevate problematicità affettive esistenti internamente alla famiglia di provenienza, uno stato di personalità disinibita, specchio della fragilità familiare nella quale la vittima del reato è cresciuta. 

Una non inibizione comportamentale, tra l’altro, verbalmente riportata da più testimoni nel caso di specie.
Inoltre, tale giudizio di appello, viene suffragato in maniera concludente, dall’evidente assenza di graffi, o di segni, che sostengano l’avvenuta colluttazione. 

Il giudizio di tale Corte si esprime così a sfavore di una condanna stimabile penalmente; e che su tali basi, alle sei persone in stato di detenzione, debba accordarsi il dovuto rilascio in fatto e in diritto, poiché la testimoniata violenza carnale, non sussiste. 

Il 13 giugno 2015 la ricorrente decide di percorrere le vie giudiziali della Cassazione, e per tali addotti motivi, si rivolge al pubblico ministero.
Tale azione non si rende concretizzabile, e la pronuncia in appello assume le fattezze di un giudicato definitivo il 20 luglio 2015. 

2.La giurisprudenza di merito. 

Le profilazioni giuridiche e giurisprudenziali poste a fondamento del giudicato in oggetto di ricorso n. 5671/16, nel caso J.L. contro Italia, 

sono le seguenti:
il codice penale, per il diritto interno italiano, nella rappresentazione codicistica degli artt. 609bis, 609ter, 609octies;
il codice di procedura penale negli artt. 392, 472 comma 3bis, 572, 576; 

il decreto legislativo n. 212 del 15 dicembre 2015 che riprende le disposizioni della Direttiva 2012/29/UE;
la legge n. 119 del 15 ottobre 2013;
la legge n. 69 del 19 luglio 2019 o «codice rosso»; 

il Codice etico dei magistrati nell’art. 12 comma 3;
il diritto internazionale, e nello specifico la «Dichiarazione dei principi fondamentali di giustizia relativa alle vittime della criminalità e dell’abuso di potere»;
le osservazioni finali del Comitato delle Nazioni Unite nel suo settimo rapporto sull’Italia, segnatamente all’eliminazione della discriminazione nei confronti delle donne, pubblicato il 4 luglio 2017;
la Convenzione di Instabul, ratificata dall’Italia il 10 settembre 2013 e entrata in vigore il 1° agosto 2014 a cura del Consiglio d’Europa, negli artt. 3, 15, 36, 54, 56; 

  •  l’avviso n. 11 del 2008 del Consiglio consultivo dei giudici europei (CCJE);
  •  la direttiva 2012/29/UE adottata il 25 ottobre 2012 del Parlamento europeo e del Consiglio, nel Considerando n. 17, e negli artt. 18, 19, 21, 22, 23;
  •  l’art. 8 CEDU;
  •  l’art. 14 CEDU.


3.La pronuncia di diritto.


La Suprema Corte di Strasburgo, statuisce in oggetto di pronuncia che la richiesta della ricorrente non è da considerarsi inconsistente ai sensi dell’art. 35§3 CEDU, né sono da addursi motivi ulteriori di irricevibilità. Il ricorso è, altresì, ritenuto pienamente ricevibile ai sensi degli artt. 8 e 14 della medesima Convenzione.
4.L’opinione dissidente del giudice Wojtyczek.
Tale giudice ritiene in fatto e in diritto che l’accertata violazione del predetto art. 8 della Convenzione, non possa essere ritenuta ricevibile per le eccezioni agli obblighi di adempimento aventi natura positiva, contraddistinguenti il testo giuridico del medesimo, e al medesimo tempo a quelli di sensibile obbligo di astensione di natura negativa.
La ricevibilità non può per quest’ultimo fondarsi su un discorso di mera violazione del rispetto dell’integrità della vittima e della sua vita personale e familiare, o di una violazione ben più evidente, quanto al medesimo tempo importante, quale quella della mancata protezione da una vittimizzazione secondaria della ricorrente, nel corso dell’intera procedura giudiziale, in maniera allegata quanto linearmente compartecipata.
Le due parafrasi giudiziali sono ritenute dal magistrato tra loro logicamente contrapposte e contrastanti. Inoltre, le valutazioni del Tribunale di Firenze appaiono, sempre per quest’ultimo, piuttosto arbitrarie, quanto poco approfondite, nella loro estensione di analiticità argomentativa nei confronti della realtà più complessa, e maggiormente inglobante, i fatti testimoniati dalla teste in sede processuale. 

Non vengono poi, in punta di diritto, spiegati i motivi pregiudizievoli avversi al ruolo della donna internamente alla società civile italiana. Viene resa evidente, invece, una stigmatizzazione procedurale e morale della vittima, finalizzante a sfavore della medesima, e degli stessi organi giudicanti, la perdita di fiducia nell’autorità, e nell’espressione del bilanciamento dei diritti, da esercitarsi nell’amministrazione della giustizia. 

In maniera concludente il giudizio di incidentalità, viene a precisare in sede processuale, che le sanzioni penali rivestano un ruolo cruciale nel rispondere le istituzioni alla repressione della violenza di genere, e alla lotta alla ineguaglianza dei sessi. 

A tal proposito, il giudice Wojtyczek, esprime la sua posizione favorevole nei confronti della democrazia liberale, senza sovrastimare il ruolo esercitato dal diritto penale nella lotta alla violenza e alle diseguaglianze. 

Ed inoltre, riprendendo, ulteriormente, le sue affermazioni presenti a pedice di sentenza, vocarsi alla tutela e salvaguardia dei diritti e delle libertà dell’uomo, non deve, per lo stesso giudice Wojtyczek, nondimeno, alimentare un c.d. «vento illiberale», che ad oggi, soffia autonomamente, nelle aule della Suprema Corte. 

Dott.ssa Lucia D’Angelo

Studio Penale Scialla

L’«IRRETRATTABILITÀ» DELL’AZIONE PENALE E L’INTERRUZIONE DEL «NESSO DI CAUSALITÀ»

Sommario: 1.La sussistenza del rapporto di causalità nella fisiologia «debitoria» dell’interruzione del «nesso causale»; 2.L’«irretrattabilità» dell’azione penale; 3.Conclusioni.

1.La sussistenza del rapporto di causalità nella fisiologia «debitoria» dell’interruzione del «nesso causale».

La condotta illecita, implica, endemicamente all’esperibilità dell’azione penale da imputarsi all’evento dannoso o actio delicti da rilevarsi, l’individuazione della «genetica» orogenesi, chiarificatrice quest’ultima, delle connesse o sconnesse, proposizioni «causali» di relativa inerenza.

La genetica causale, si radicalizza, significativamente, nella estemporanea obiettiva o subiettiva «misura», pertinente, al materiale «effetto-conseguenza» dell’«azione» o «omissione» generata dal reo.

Tale c.d. «effetto-conseguenza», è definibile ai sensi dell’art. 40 c.p., quale «nesso causale».

Il «nesso causale», può essere, verosimilmente, soggetto, nei termini del predetto articolo, a una condizione di c.d. «interruzione», o, più propriamente, di sospensione o scollamento tra condotta ed evento, assimilante, come noto, e, perciò stesso, una sostanziale «interruzione causale».

Ciononostante, si potrebbe ipotizzare, dal punto di vista meramente teorico-applicativo, che una genesi causale, continui a persistere, e, a mantenere in sé, intrinsecamente «integra», l’identificazione di specie del suddetto «nesso causale» originario di prima facie.

Ovvero, la partenogenesi giuridica della «significanza causale» attribuibile alla fattispecie ivi rappresentabile, presente, incondizionatamente, endemicamente alla cognitività di valore, e di valutazione, di persistente presenza del proprio iniziale «nesso» caratteristico interiore o esteriore al fatto (o actio delittuosa) da oggettivare, formalmente, positivamente, e sostanzialmente, dichiarandone effetti propri, proprie conseguenze, prevalentemente sussistenti l’azione di sospensione o scollamento tra condotta ed evento in factum e in actio.

Ciò, potrebbe dare luogo, a più concreti risultati di «esperibilità» giudiziale, nei termini di una condizionalità «attiva» di ordine generale, riferibile alla

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cognitività causale, non genericamente intesa, svelante una più consistente positiva congruità e consistenza probatoria del nesso di esternalità, di interiore concezione, del pretermesso «nesso di causalità» al di là di una sua eventuale, attribuibile, attiva o passiva, interruzione o sospensione.

2.L’«irretrattabilità» dell’azione penale.

Una recente sentenza della seconda sezione penale della Cassazione, in ordine alla pronuncia n. 18653/2021, ha ribadito l’acquisizione giurisprudenziale, e la relativa applicazione di «diritto», da parte dei giudici di merito, e della stessa Suprema Corte, della tassatività del principio d’«irretrattabilità» dell’azione penale.

L’inerente applicazione, presenta caratteri di «universalità» nel perimetro di definizione dato dai pertinenti criteri procedurali e di «valore».

Eppure, secondo quanto affermato dalla stessa Corte (nel rapportarsi alla fattispecie argomentata internamente alla predetta sentenza), sussistono, nondimeno, delle plausibili «obiezioni» di natura procedimentale, in ragione delle quali, il giudice di competenza, può avanzare, un’attività di sospensione o di relativo annullamento, da porsi, eventualmente, in essere, unicamente in sede giudicante, segnatamente ai fatti, in maniera pregressa, rilevati ed evidenziati, dal PM:

«[…]con riferimento alla “ratio” della disciplina dettata dall’art. 39 D. Lg.vo 231 del 2001, inducono il collegio a condividere la tesi secondo cui deve ritenersi abnorme l’ordinanza con cui il giudice, previa declaratoria di nullità di atti concernenti la posizione di taluni imputati, disponga la restituzione degli atti al PM anche in relazione alle posizione soggettive non attinte dalle predette nullità, determinando così un’indebita regressione del procedimento, in contrasto con il principio di irretrattabilità dell’azione penale e con il principio logico che non consente di ripetere atti già validamente e utilmente compiuti. (cfr., in tale senso, Cass. Pen., 2, 10.9.2015 n. 46.640, PM in proc. Ferrari ed altro; Cass. Pen., 1, 2.2.2016 n. 20.111, conf., comp. in proc. Zilio).».

Sensibilmente, integrabile, in materia, e, parimenti stimabile in ragione di ciò, la seguente disposizione n. 25911, fornitaci dalla Suprema Corte di Cassazione Penale, terza sezione, risalente al 1° agosto 1990 (rintracciabile a

1 Si consulti, a tal proposito, il codice di procedura penale, 48esima edizione commentata, curato da P. CORSO, Piacenza, 2021, pag. 1280, in materia di «b) Irretrattabilità dell’azione penale.».page2image26468224

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chiusura della lettera «b)Irretrattabilità dell’azione penale», pag. 1280, Libro V – «Indagini e Udienza», Titolo VIII – «Chiusura delle indagini preliminari», art. 405 – «Inizio dell’azione penale. Forme e termini» con inerenza al c.p.p. e del Processo penale minorile, di P. Corso, ed. 2021) per la quale: «una volta che abbia chiesto il rinvio a giudizio, il P.M. nell’udienza preliminare, non può più chiedere l’archiviazione, ed il giudice di detta udienza, se non ritenga di disporre il giudizio, non può che emettere sentenza di non luogo a procedere.».

3.Conclusioni.

In nota alla presente breve riflessione, è nondimeno possibile, mettere teoricamente in rilievo, da un punto di vista finemente «relazionale» e «razionale» di genus a species, una possibile sostanzialità di «giuridica caducità», o «incongruità funzionale», sussistente tra evento e condotta, intrinsecamente alla sospensione o interruzione di un inerente «nesso di causalità».

Ciò si rivela potenziale forza creatrice di ordine normativo, intrinsecamente riconducibile, come noto, a una probabile previsione di una c.d. «inescusabilità dell’interruzione» del relativo nesso causale, interna a quell’«istintiva proporzionalità» presente tra movente ed effetto, che giuristi canonisti correlano, invero, alla causalità giuridica, giudiziaria e giudiziale.

Dott.ssa Lucia D’Angelo Roma 5.10.2021

Avv. Massimiliano Luigi Scialla

ANALISI GIURIPRUDENZIALE DELLA SENTENZA DELLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO NELLA PRONUNCIA DI LEGITTIMITÀ E NEL MERITO DEL CASO BUSUTTIL v. MALTA – (Ricorso n. 48431/18).

Roma, 21.06.2021

della: dr.ssa Lucia D’Angelo

PAROLE CHIAVE: illegittimità procedurale; presunzione di legalità; presunzione di innocenza; illecito; responsabilità «oggettiva» e «soggettiva» per inadempimento; equità; imparzialità; fondatezza; «diritto alla difesa».

Sommario: 1.La fattispecie «oggettiva». – 2.Il giudizio di legittimità «esecutiva» della sentenza e la giurisprudenza di merito. – 3. Conclusioni.

Abstract:

«L’analisi in oggetto di studio, argomenta in maniera analitica, una esigibilità di «giustiziabilità» e di «tutela», sensibilmente informata a un ricorso presentato ai sensi dell’art. 34 CEDU, da una persona fisica (nel caso di specie, il Sig. BUSUTTIL, ricorrente), nei confronti del governo maltese, in tema di violazione dell’art. 6§2 della medesima Convenzione.».

GIURISPRUDENZA: 

  • Art. 6§2 CEDU; art. 44§2 CEDU; art. 34 CEDU ; art. 35 CEDU ; art. 45§2 CEDU; art. 74§2 ai sensi delle disposizioni regolamentari della Corte di Strasburgo.
  • Income Tax Management Act.
  • Chapter 372 delle Laws di Malta.
  • Sezione n. 23 paragrafi 1, 2, 7, 13 del Chapter 372 delle Laws di Malta.

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1.La fattispecie «oggettiva».

Il 3 giugno 2021, la Corte di Strasburgo, si è pronunciata in materia di presupposta violazione dell’art. 6§2 della CEDU, a seguito di un ricorso avverso al governo maltese, presentato da una singola persona fisica (nel caso

di specie, il Sig. BUSUTTIL), nei termini posti in essere dall’art. 34 della suddetta «Convezione».

La Suprema Corte ha deliberato (in forma privata) il 20 Aprile 2021, in tema di ricorso n. 48431 risalente all’11 ottobre 2018.

La fattispecie «oggettiva», distinguente il predetto ricorso, argomenta una contestata illegittimità di «procedura» nei confronti del ricorrente, Sig. BUSUTTIL,nei termini di una dichiarazione di presunta colpevolezza, ascritta all’adempimento delle sue funzioni di direttore aziendale, segnatamente al mancato pagamento di dovuti contributi fiscali, in «presunzione di legalità». 

Secondo quanto reso noto in sentenza, tali contributi riguardavano, approssimativamente, il versamento della cifra di euro 323,500, il cui pagamento doveva avvenire, per ordine delle autorità competenti, nel 2011.

Tale cifra, rappresentava nel caso specifico, preso in considerazione dalla suddetta Corte, una provisional tax,in aggiunta a dei contributi assicurativi di carattere nazionale da versare per conto degli impiegati di tale impresa.

Un’impresa che però ha dichiarato fallimento nel periodo compreso tra il 2003-2006.

Il ricorrente, non ha adempiuto al pagamento di tali contribuzioni fiscali e assicurative, e, a fare data da Marzo 2011, è stato istruito un procedimento di natura penale, a suo carico, maturatosi ai sensi della Sezione n. 23, paragrafi 1 e 2 relativi al Capitolo 372 delle leggi maltesi, e, più propriamente dell’Income Tax Management Act, e, dei Regolamenti n. 15 e n. 20 del Legal Notice 88  risalente al 1998.

Il Sig. BUSUTTIL, rende nota la propria inconsapevolezza, con riguardo al soddisfacimento di una tale ottemperanza, attribuitagli, de plano, dagli ulteriori due direttori aziendali (in aggiunta alla sua persona), contraddistinguenti la gestione dell’attività dirigenziale dell’impresa di appartenenza, in quanto all’epoca dei fatti, egli aveva vivamente insistito, coi suoi colleghi funzionari, nel merito di un necessario affidamento a un controllore finanziario

dell’espletamento del su citato incarico, non avendo lui maturate, per simili rilievi e osservanze, le dovute competenze nel corso della carriera aziendale.

Nel marzo 2012, tuttavia, la Suprema Corte, gli intima un reato di colpevolezza, condannandolo al pagamento di una cifra pari a euro 400.

Il Procuratore Generale si appella a tale giudicato, attraverso un’azione di natura giudiziale, che potesse consentirne il riconoscimento, al Sig. BUSUTTIL, della «presunzione di innocenza», ritenendo, invero, la sua personale testimonianza «veritiera», e, piena, e, diligente, la sua buona fede nel prevenire la sostanza dell’«illecito» contestatogli, ai sensi della Sezione n. 13 dell’Interpretation Act.

Ciononostante, il 6 dicembre 2012, la Corte di Appello conferma il giudicato di prima istanza, condannando il ricorrente al pagamento di euro 400, integrando, altresì, una «multa» di importo giornaliero di euro 4, da addebitarsi fino al compiuto versamento della cifra di euro 323,500, ingiungendo a tale riguardo, che il direttore di un’azienda, è pienamente responsabile nell’espletamento delle sue diversificate attribuzioni professionali, nelle dispiegate finalità da perseguire, e i motivati pagamenti.

Per tali menzioni, il dipartimento delle imposte, rivendica in maniera stringente, l’adempimento degli oneri fiscali e assicurativi da parte del ricorrente, in giudizio di regolamento e di legalità.

Inoltre, il suddetto giudicato, contesta, il riferimento giuridico-documentale alla Sezione n. 13 dell’Interpretation Act da parte dell’appellante, considerato inidoneo, e, mancante dei requisiti obiettivi in tema di applicazione, poiché il reato di specie è, de iure condendo, ascrivibile a una c.d. special law.

Quest’ultima, si rivela avvolgente, inter alia,le misure fiscali formulate ad opera del governo maltese, e, segnatamente alle quali era dovuto l’adempimento così notificato.

Inoltre, nonostante, l’azienda alle cui dipendenze fosse il ricorrente risultasse avere problemi di natura finanziaria, la strutturazione degli incarichi dirigenziali del medesimo, era ancora in fase di pronto svolgimento.

L’appellante, ricorre, conseguenzialmente, a un giudizio di accertamento di costituzionalità, relativamente allo svolgimento di un equo processo in presunzione di accertabile innocenza e in accertamento di potenziale violazione dell’art. 6§2 della CEDU.

Tuttavia, tale stessa rivendicazione, viene rigettata il 26 aprile 2017 dalla Civil Court in ordine alle proprie competenze di natura «costituzionale», e di «tutela» in materia di violazione dei diritti dell’uomo.

La Corte sostiene la confutabilità di un potenziale ormeggio giuridico con quanto distinguente le disposizioni regolamentari risalenti all’art. 6§2 della

CEDU; in punta di diritto, subentra di fatto, la constatazione giudiziale, da parte della medesima, che la Sezione n. 23 del Capitolo 372, caratterizzante la produzione legislativa maltese, sigilli una mancata presunzione di similari fattezze argomentative, quali quelle rappresentate in fase di giudizio dal ricorrente.

Il Sig. BUSUTTIL, si appella a tale giudicato, novellando la messa in evidenza ai sensi del Capitolo 372 delle Laws of Malta,e, altresì, in virtù della Legal Notice 88 del 1998, di una aperta violazione del suo diritto alla «presunzione di innocenza».

Il 13 aprile 2018, anche tale ricorso in appello risulta essere insussistente. Il motivo della contestazione, da parte della Corte Costituzionale, è quello della mancanza di insufficiente responsabilità, in caso di declino dell’attività aziendale, per un direttore, o un direttore con incarichi non esecutivi, o comunque, avente una minoritaria partecipazione azionaria.

Invero, viene ritenuto in fatto e in diritto, che, in riferimento a una fattispecie così rappresentata, il ricorrente avesse i medesimi mandati degli altri direttori, doverosamente obbligandosi a prendere visione, e, a ottemperare, agli incarichi prepostigli per legge, oltreché, di interessarsi a tutti gli aspetti aziendali quanto a quelli di natura prettamente finanziaria. 

Ulteriormente, tale Corte, contesta che il ricorrente non abbia sollevato dubbi di legittimità in tema di mancato invio della modulistica fiscale, o, di avvenuto inadempimento del pagamento dell’imposta erariale da esigersi; egli permea, il proprio ricorso, concordemente, a una responsabilità penale lesivamente attribuitagli. Ciononostante, la Corte, sigilla la sua insindacabile pronuncia, affermando che, le leggi cui si appella il ricorrente, in oggetto di fattispecie ivi rappresentata, nei riguardi delle giurisdizioni costituzionali, non costituiscono violazione alcuna alla sua «presunzione di innocenza».  

2.Il giudizio di legittimità «esecutiva» della sentenza e la giurisprudenza di merito.

La Corte di Strasburgo, date le evidenze di carattere giudiziale, e altresì normativo, presentate dalle Parti, nello specifico il Sig. BUSUTTIL, come ricorrente, e, il governo di Malta, in qualità di convenuto, respinge il ricorso cui in oggetto, per appurata insussistenza di una dichiarabile violazione dell’art. 6§2 della CEDU.

La sentenza pronunciata il 3 giugno 2021, viene vidimata dal Presidente della Corte e dal cancelliere, rispettivamente Ksenija Turković, e Renata Degener.

La giurisprudenza di merito, contestualmente, alla fattispecie in oggetto di analisi argomentativa, perviene a una soluzione giudiziale di comparato discernimento normativo ruotante intorno alla:

  • giurisprudenza di Strasburgo;
  • alle special laws maltesi;
  • all’Income Tax Management Act;
  • al Chapter 372 delle Laws di Malta;
  • alla Sezione n. 23 paragrafi nn. 1, 2, 7, 13 del Chapter 372 delle Laws di Malta;
  • alla Sezione n. 13 dell’Interpretation Act del 1975;
  • al Chapter 249 delle Laws di Malta;
  • alla legislazione supplementare (subsidiary legislation) n. 372.14 del Final Settlement System Rules (o, «Sistema di regolamentazione normativa finale»)all’Incom Tax Act,nei dispositivi 2, 15, 20, 29, e 30;
  • alla Domestic Practice (o, «precedente giuridico interno») con riferimento al caso: «Police vs Carmela Agius», nel giudizio di legittimità della Court of Criminal Appeal, judgement del 29 gennaio 2015.

Ai sensi della legge di ratifica del governo maltese, risalente (con inerenza al suo deposito) al 23 gennaio 1967, l’interpretazione, e, quindi, la relativa interna applicazione, dell’art. 6§2 della CEDU, deve, in maniera cogente, armonizzarsi, nel suo inquadramento normativo, con le altre leggi proprie dell’ordinamento giuridico della Repubblica di Malta.

L’addotta violazione di tale suddetto articolo, ai sensi del menzionato paragrafo di stretta inerenza al medesimo, viene dichiarata irricevibile, dalla

Corte di Strasburgo, ai sensi dell’art. 35 CEDU, e, dell’art. 44§2 in materia di Convenzione.

Tale Corte, rivendica, in sede di pronuncia giudiziale, il diritto alla difesa del ricorrente, sottolineando, però, che diviene a tal proposito, paradigma di esigente appellabilità, la misura stessa della giusta proporzionalità della proposizione difensiva, in argomento di legittimabilità dei propri fini.

Rende, altresì, evidente, che essa, valuta la correttezza della «procedibilità» e della «sostanzialità» delle cause portate a oggetto di sua valutazione; una valutazione, la quale, nel momento in cui viene posta in essere, non va a sostituire, bensì, a precedere, la spendibilità di «esperibilità» e di «risultato», di natura «formale» e «sostanziale», quanto di grado meramente procedurale, delle Corti, o, dei Tribunali interni ai Paesi siglanti la predetta Convenzione. 

A ciò, aggiunge, sensibilmente che, la Corte Costituzionale maltese, di fatto, non ha ritenuto inapplicabile la Sezione n. 13 dell’Interpretation Act, nel caso di specie, piuttosto, ha ritenuto, che gli elementi risultanti in favore di un costrutto difensivo del ricorrente, Sig. BUSUTTIL, non esistano, de iure condito, segnatamente al valore testuale di tale rilevante giuridico documento. 

E, sebbene, la funzione giurisdizionale della Corte Costituzionale, non si allinei con presunzioni di «colpevolezza» o di «innocenza», tuttavia, i propri rilievi o constatazioni, in oggetto alla presente costituente difesa del Sig. BUSUTTIL, supportano i relativi rilievi concernenti i tribunali appartenenti alle giurisdizioni penali maltesi.

A tal proposito, viene rilevato sempre dalla stessa Corte di Strasburgo, che non sussistono elementi, i quali, possano lasciare intendere che, il sistema giurisdizionale maltese, debitamente adito, abbia reso l’applicazione della normativa in materia di onere probatorio incompatibile con la presunzione di innocenza del Sig. BUSUTTIL.

3. Conclusioni

La presunzione di innocenza (o, «presunzione di non colpevolezza»), viene formulata nelle analisi dottrinarie italiane, come una c.d. «immunità degli innocenti».

Ai sensi della siglata «Convezione», in oggetto di dibattimento, in materia di art. 6§2, e, di designazione di «presunzione di non colpevolezza», paventata su

ricorso dell’appellante Sig. BUSUTTIL, si ritiene, che la giurisdizione maltese, abbia tenuto conto, concordemente con le disposizioni regolamentari di natura «costituzionale», e, «penale», distinguenti la propria struttura legislativa ordinamentale, altresì, di quanto disposto in tema di art. 1 CEDU, ovvero, di obblighi nel rispettare i diritti dell’uomo, e, nel caso di specie, dell’imputato Sig.  BUSUTTIL, internamente a una processabilità di natura penale.

In punta di diritto il predetto art. 1, decreta che:

«La Alte Parti contraenti riconoscono a ogni persona sottoposta alla loro giurisdizione i diritti e le libertà enunciati nel Titolo primo della presente Convenzione.».

Ai sensi di ciò, il principio di presunzione di innocenza, terminologicamente, e, sostanzialmente, rappresentato, dalla c.d. teoretica della «immunità degli innocenti», affinché addivenga a una prefigurazione processuale cui al ricorso n. 48431/18, deve necessariamente essere assimilabile, segnatamente, a una tale congetturata corretta procedibilità, a un giudicato di non lesività nei «diritti» e nelle «libertà», così come enunciati nella presente «Convenzione».

L’art. 6§1 della CEDU, richiama i principi di equità, di imparzialità e indipendenza delle sedi giudicanti, quanto della fondatezza nella formulazione dell’accusa penale, i quali si presentano per sé stessi, connaturati, con quanto di pertinenza del paragrafo 2 del medesimo articolo, cui il ricorrente segnatamente si appella, ovvero:

«Ogni persona accusata di un reato è presunta innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata.».

Come noto, tale spirito normativo-disciplinare, è ripreso parimenti dall’art. 11 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, così come reso evidente da studi in materia, ai sensi del quale:

«Ogni individuo accusato di un reato è presunto innocente sino a che la sua colpevolezza non sia stata provata legalmente in un pubblico processo nel quale egli abbia avuto tutte le garanzie necessarie per la sua difesa.». 

Gli stessi studi si appellano, inter alia, altresì, allo Statuto della Corte penale internazionale, e con specifico riferimento al co. 3 del suo art. 66, per il quale:

«Per condannare l’imputato, la Corte deve accertare la colpevolezza dell’imputato al di là di ogni ragionevole dubbio.».

Inoltre, essi, sottolineano come, ad esempio, per quanto di competenza della Grundgesetz, e, nello specifico, dell’art. 28, il principio di presunzione di innocenza,nerappresenti sostanzialmente un precipuo corollario dello Stato di diritto, e quindi, dello stesso principio di legalità.  

Ciò supposto, preesiste in termini «dottrinari», quanto tipicamente «esecutivi», a una endemica istanza di eguaglianza «formale» e «sostanziale» cui il giudice de quo, deve necessariamente soggiacere, al di là dell’individuazione di qualsivoglia giurisdizione interna, o, sovranazionale, adita, da parte di colui, su cui grava una potenziale imputazione di colpa, ovvero, di responsabilità

dolosa, segnatamente a una prassi di natura meramente giudiziale quanto procedurale.

In qualche modo, ciò, s’impone, agli occhi attenti degli studiosi in materia, quale necessario anello di complemento, tendente a soppesare tutti i dovuti  elementi di «cognizione», «valutazione» ed «esperibilità», conferenti il rispetto, altresì, della legalità di procedura di carattere meramente penale.

Il reato contestato in seno a tale pronuncia, porta in dovuta attenzione degli inquirenti, la violazione degli interessi finanziari e tributari dello Stato maltese.

Una lesività di legalità, che comporta una sostanziale inadempienza, a danno di quei principi democratici di effettività, cogenza e certezza giuridica di uno Stato di diritto, rappresentanti la resilienza e la stessa esistenza di quest’ultimo.

Inoltre, la registrata inadempienza, da collocarsi a carico della responsabilità omissiva e negligente del ricorrente, comporta uno squarcio internamente al sistema organizzativo dei sussidi, o benefici sociali, quanto della stessa assistenza sanitaria pubblica garantititi da tale medesimo Stato di diritto.

Concludendo, la concorrente opinione, poi, del giudice Wojtyczek, posta a pedice di pronuncia, in materia di responsabilità imputabile al ricorrente, Sig. BUSUTTIL, contesta in maniera non celata, l’opinione espressa dalla Corte di Strasburgo ai sensi del paragrafo n. 46 della presente pronuncia.

In fatto, e, in diritto, secondo tale giudice, non è condivisibile (o, stimabile) ai sensi di un’attenta analisi di tipo ricognitivo, posta in rispetto dell’art. 6§2 della CEDU, affermare che:

«La Corte, ha presunto che, gli Stati contraenti, possano, in linea di principio, e, a rigore di determinate condizioni, penalizzare un semplice o obiettivo fatto, indipendentemente dal modo in cui esso risulti da intenti criminosi o da effettiva negligenza.».

Ciò diviene certamente, additabile e ricorribile in termini di procedibilità e di analiticità sostanziale discrezionale della stessa Corte, lesiva, quest’ultima, attraverso tale affermazione, dei non residuali principi di legalità, certezza di diritto e di legittimata presunzione di innocenza del ricorrente.

La sospensione condizionale erroneamente concessa non è revocabile dal giudice dell’esecuzione

La sospensione condizionale erroneamente concessa non è revocabile dal giudice dell’esecuzione penale. Recependo un’importante pronuncia della Corte Costituzionale il giudice dell’esecuzione si è visto negare dalla Corte si Cassazione il diritto di revocare la concessione erronea di una sospensione condizionale della pena.

Nel caso di specie il Tribunale di Torre Annunziata, in qualità di giudice dell’esecuzione, aveva sollevato infatti questione di legittimità costituzionale dell’art. 168 c.p.p., al fine di vedersi attribuito il potere di revocare la sospensione condizionale erroneamente concessa all’imputato, la Corte Costituzionale adita ha chiarito come “il remittente”, ovvero il giudice dell’esecuzione, “mediante la dedotta questione di costituzionalità, vorrebbe in sostanza essere legittimato ad esercitare, nella sua qualità di giudice dell’esecuzione, un controllo sul contenuto di una sentenza passata in giudicato, correggendo un errore del giudice di cognizione asseritamente dovuto all’inconveniente di fatto del tardivo aggiornamento del casellario giudiziale” e che pertanto, osta all’intervento additivo richiesto “il principio dell’intangibilità del giudicato, in ossequio al quale la problematica dell’errore di fatto, in iudicando o in procedendo in cui sia incorso il giudice della cognizione in una sentenza divenuta irrevocabile, è estranea alla competenza del giudice dell’esecuzione”(cfr. sentenza n. 294/1995; n.28/1969; ordinanza n.413/1999). Analogamente anche nel caso di specie si ritiene che il Pubblico Ministero abbia errato nel presentare una tale richiesta di revoca al giudice dell’esecuzione, in quanto le questioni oggetto dell’istanza esorbiterebbero dalla competenza di questo giudice, in quanto andrebbero ad infierire sul giudicato.

Con l’ordinanza nr. 413/1999 della Corte Costituzionale si è chiaramente sancito il principio di diritto per cui è estraneo ai poteri del giudice dell’esecuzione la revoca della sospensione condizionale della pena concesso erroneamente per errori in diritto o fatto.

Ne consegue pertanto un importante conseguenza in termini pratici ovvero il principio dell’intangibilità della pronuncia, anche se erronea, che ha concesso il beneficio della sospensione condizionale anche laddove il beneficiario della stessa non ne risultava sostanzialmente meritevole.
Al passaggio in giudicato di quella decisione, contenente l’errore, consegue pertanto l’intangibilità del provvedimento di sospensione della pena anche se emesso in ragione delle lungaggini di aggiornamento del Casellario Nazionale.

L’affidamento in prova ai servizi sociali può essere svolto all’estero In UE

L’affidamento in prova ai servizi sociali è può essere svolto all’estero In UE. Con una recentissima pronuncia infatti la Suprema Corte di Cassazione Penale, ovvero la nr. 15091/2019, ha finalmente sancito un decisivo chiarimento in merito alla possibilità per il condannato non detenuto di svolgere presso un diverso stato dell’Unione Europea l’affidamento in prova ai servizi sociali o la detenzione domiciliare.

L’esecuzione di una misura restrittiva di carattere penale, come l’affidamento in prova, comporta l’esercizio di poteri autoritativi per il controllo sull’osservanza delle prescrizioni imposte, sotto la vigilanza del magistrato di sorveglianza, e con informazione dell’autorità di pubblica sicurezza, poteri che non potrebbero essere esercitati al di fuori del territorio nazionale in mancanza di accordi con le autorità di altro Stato: può peraltro essere una misura alernativa sussunta sub art 2 (e) del d.lgs. 15 febbraio 2016, n. 38 (Disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2008/947/GAI del Consiglio, del 27 novembre 2008, relativa all’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sentenze e alle decisioni di sospensione condizionale in vista della
sorveglianza delle misure di sospensione condizionale e delle
sanzioni sostitutive).

Con l’ordinanza in epigrafe il Tribunale di sorveglianza di Catania ha concesso a L.G. la misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale in relazione all’esecuzione della pena di mesi otto di reclusione, inflitta con sentenza del Tribunale di Catania in data 31.01.2014 per il reato di cui all’art. 646 c.p., subordinando il beneficio al rientro in Italia del condannato nel termine di un anno dalla notifica del provvedimento.

Il L., residente da tempo in Germania con il suo nucleo fa- miliare e titolare di un regolare contratto di lavoro, si è presentato per consentire l’indagine sociale presso L’UEPE di Catania e ha espresso la volontà di eseguire la misura alternativa, eventualmente concedibile, nel luogo di resi- denza, richiesta ribadita dal suo difensore che ha invocato l’applicazione del D.Lgs. 15 febbraio 2016, n. 38, contenen- te disposizioni per conformare il diritto interno alla deci- sione quadro n. 2008/947/GAI del Consiglio Europeo, 27 novembre 2008, “relativa all’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sentenze e alle decisioni di so- spensione condizionale in vista della sorveglianza delle misure di sospensione condizionale e delle sanzioni sostitutive”

. A ragione, il Tribunale ha osservato che, nel caso in esame, non poteva trovare applicazione la richiamata disciplina, atteso che “non risulta che il reo si sia adoperato in alcun modo prima della definitività della sentenza di con- danna per esprimere la propria intenzione di scontare la pena in altro paese dell’UE”. Avverso l’indicato provvedimento propone ricorso per cassazione l’interessato, a mezzo del difensore, denunziando, con un motivo sostanzialmente unico, violazione di legge (in relazione al D.Lgs. n. 38 del 2016) e vizio di motivazione.Afferma che, diversamente da quanto sostenuto dal Tribu- nale, le disposizioni di attuazione della decisione quadro non fanno menzione di un obbligo dell’interessato di ma- nifestare prima della irrevocabilità della sentenza di con- danna l’intenzione di scontare la pena in altro Stato mem- bro dell’Unione.L’art. 6 del D.Lgs. citato prevede, infatti, che sia il Pubblico ministero a disporre la trasmissione della sentenza o della decisione all’autorità competente dello Stato di esecuzio- ne, ma, quand’anche si volesse ritenere, pur senza alcun fondamento normativo, la necessità di una preventiva ri- chiesta dell’interessato nei termini indicati dal Tribunale, evidenzia che, nel caso in esame, siffatta comunicazione non era nè dovuta nè possibile, essendo la sentenza dive- nuta irrevocabile ben prima della data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 38 del 2016.

Motivi della decisione
Il ricorso appare fondato.

  1. l’esecuzione penale di una condanna a pena detentiva, quando il condannato sia stato ammesso alla misura alter- nativa dell’affidamento in prova ai servizi sociali, possa svolgersi stabilmente e in via continuativa non all’interno del territorio nazionale ma in un paese estero, è stata più volte affrontata dalla giurisprudenza di questa Corte che, come ha rammentato il Procuratore generale nella sua re- quisitoria, ha escluso tassativamente tale possibilità, evi- denziando come i centri di servizio sociale per adulti siano deputati a svolgere solo in ambito nazionale la loro attività che, per le sue peculiarità e la sua specifica natura, non è ricompresa tra le funzioni statali esercitabili da parte di uffici consolari (tra le molte: Sez. 1, n. 45585 del 24/11/2010, Scozzari, Rv. 249172 ed in senso conforme Sez.7 n. 34747 dell’11/12/2014 – dep. 10/08/2015, Calanna, Rv. 264445; adde: Sez. 1, n. 18862 del 27/3/2007, Magnani, Rv. 237363; Sez. 1, n. 46022 del 29/10/2004, Bravo, Rv. 230160; Sez. 1, n. 3278 del 28/4/1999, Di Taranto, Rv. 213724; Sez. 1, n. 5895 del 26/10/1999, Ceruti, Rv. 215027).
  2. Si è, difatti, osservato che, per quanto la formulazione testuale della norma di cui all’art. 47 ord. pen. non contenga la previsione della necessità che l’affidato in prova permanga nel territorio italiano, tuttavia l’ese- cuzione della misura alternativa deve necessariamen- te svolgersi nel territorio dello Stato, non essendo pos- sibile, nell’ipotesi in cui il condannato risieda ed operi in territorio estero, alcun serio controllo da parte degli organi competenti in ordine alla puntuale osservanza delle prescrizioni imposte all’atto della concessione del beneficio penitenziario, alla corretta esecuzione della misura medesima e al suo progressivo reinseri- mento, da uomo libero, nel contesto sociale.
  3. L’istituto penitenziario ha, infatti, una duplice funzione che è quella di condurre alla rieducazione del condannato ed al contempo di prevenire la commissione di altri reati (art. 47 cit., comma 2); art. 47 ord. pen., i commi 5 e 6 prevedono che all’affidato possano essere imposte prescrizio- ni limitative della libertà di stabilire la propria dimora e di soggiornare in un luogo piuttosto che in altro, di frequen- tare determinati locali, di svolgere determinate attività, così come di intrattenere rapporti con determinati soggetti.
  4. Sicchè, se tale facoltà è accordata in riferimento all’impo- sizione di specifiche regole di condotta e di restrizioni alla libertà di movimento e di soggiorno nell’ambito del terri- torio nazionale, la medesima finalità che le giustifica risulta ancora più cogente in caso di permanenza all’estero, rispetto alla quale non possono costituire presidi sufficienti nè l’imposizione di forme di controllo con strumenti telematici o comunque diversi da quelli operabili dalle forze dell’ordine, nè dell’obbligo di presentazione a caden-ze periodiche ai servizi sociali, ai quali in ogni caso sarebbe inibito di condurre di iniziativa o a richiesta dell’autori- tà giudiziaria verifiche in ambiti spaziali estranei alle pro prie competenze (Sez. 1, n. 10788 del 19/02/2013, n. m.). E il ruolo svolto dal servizio sociale per adulti è, per come delineato dalla normativa di riferimento, centrale nell’ese- cuzione della misura, ad esso spettando compiti di con- trollo e di assistenza dell’affidato (art. 47, comma 9), l’ob- bligo di riferire periodicamente (almeno con cadenza tri- mestrale ex art. 97, comma 9, regolamento di esecuzione) al magistrato di sorveglianza (art. 47, comma 10, ord. pen.), anche ai fini di un’eventuale modifica delle prescri- zioni, l’attività di sostegno dovuto all’affidato nel corso del trattamento nella prospettiva di un reinserimento sociale compiuto e duraturo (art. 118 reg. esec., comma 8)
  5. 1.1. E tale consolidato indirizzo esegetico ha ricevuto l’au- torevole avallo del Giudice delle leggi – ordinanza n. 146 del 2001- chiamato a pronunciarsi sulla legittimità dell’art. 47 ord. pen., nella parte in cui non prevede che l’esecuzio- ne della misura possa aver luogo anche nel territorio di al- tro Stato appartenente all’Unione Europea. Nel dichiarare manifestamente infondata l’eccezione, la Corte ha riconosciuto non contrastante con la Costituzio- ne la limitazione dell’esecuzione di misure penali nazionali nell’ambito territoriale dello Stato italiano, in assenza di pur auspicabili sviluppi della normativa comunitaria e degli accordi di cooperazione con altri Stati, evidenziando che l’esecuzione di una misura restrittiva, come l’affida- mento in prova, comportante l’esercizio di poteri autorita- tivi per il controllo sull’osservanza delle prescrizioni im- poste, implica poteri che non potrebbero essere esercitati al di fuori del territorio nazionale in mancanza di accordo con le autorità di altro Stato e che la possibilità di espiare le pene nel territorio di Stati diversi da quello che ha emesso la condanna, prevista da strumenti convenzionali internazionali, comporta l’esecuzione della stessa o di al- tra analoga misura ad opera delle autorità di altro Stato, che è cosa diversa dall’esecuzione di una misura penale, ad opera delle autorità italiane, sul territorio di altro Stato.
  6. . Il D.Lgs. n. 38 del 2016 ha dato attuazione alla decisione quadro n. 2008/947/Gai del Consiglio Europeo, 27 novem- bre 2008, volta ad estendere tra gli Sati dell’Unione il prin- cipio del reciproco riconoscimento delle decisioni giudi- ziarie relative all’esecuzione delle pene non restrittive del- la libertà personale, in vista della sorveglianza di misure di sospensione condizionale e di sanzioni sostitutive, così completando il quadro delle disposizioni che hanno dato attuazione al principio del reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie nei paesi dell’Unione, con riferimen- to alla disciplina del mandato di arresto Europeo e delle procedure di consegna tra Stati (L. 22 aprile 2005, n. 69); delle sentenze penali che irrogano pene detentive o misu- re privative della libertà personale ai fini della loro esecu- zione nell’Unione Europea (D.Lgs. 7 settembre 2010, n. 161); delle decisioni relative a misure alternative alla de- tenzione cautelare (D.Lgs. 15 febbraio 2016, n. 36). Nel preambolo della decisione quadro (così come nella relazione illustrativa dello schema del decreto legislativo di adeguamento alla decisione) sono puntualmente espli- citati gli obiettivi perseguiti: lo scopo è quello di garantire l’esecuzione di sanzioni sostitutive e misure di sospensio- ne condizionale nel luogo di residenza, di fatto o di elezio- ne, favorendo, al contempo, non solo il rafforzamento del la possibilità di reinserimento sociale della persona con- dannata, consentendole il mantenimento dei legami fami- liari, linguistici, culturali con il paese di abituale dimora dove è posto il suo centro di interessi, la sua attività lavo- rativa, il suo nucleo familiare, ma anche il superamento delle difficoltà di espletamento dell’attività di sorveglian- za di obblighi e prescrizioni impartite dai singoli Stati membri, al fine di impedire la recidiva, tenendo così in de- bita considerazione la protezione delle vittime e della col- lettività in generale (Considerando n. 8).
  7. Oggetto di riconoscimento può essere una decisione definitiva emessa da un organo giurisdizionale con la quale è applicata, in luogo di una pena detentiva o restrittiva, una sanzione che non esclude ma limita la libertà, me- diante imposizioni di ordini o di prescrizioni e, nell’im- possibilità di procedere ad una elencazione compiuta de- gli istituti interessati, sono stati individuati criteri genera- li che delimitano la categoria (l’art. 2, D.Lgs. replica le defi- nizioni dell’art. 2 della decisione quadro), in essa rientran- do istituti che importano: (a) una sospensione condiziona- le, concessa al momento della condanna, di una pena de- tentiva o di una misura restrittiva della libertà personale, con una corrispondente imposizione di obblighi e prescri- zioni; (b) una condanna ad una pena condizionalmente differita con l’imposizione di uno o più obblighi e prescri- zioni o in cui detti obblighi e prescrizioni siano disposti in luogo della pena detentiva o della misura restrittiva della libertà personale; (c) una sanzione sostitutiva, diversa da una pena detentiva, da una misura restrittiva della libertà, da una pena pecuniaria, che impone obblighi ed imparti- sce prescrizioni; (d) una liberazione condizionale, che pre- vede la liberazione anticipata di persona condannata, dopo che abbia scontato parte della pena detentiva, anche attraverso l’imposizione di obblighi e prescrizioni; tutte decisioni che rispondono alla condizione di una condanna a pena detentiva o restrittiva della libertà personale, so- spesa, differita o sostituita con sottoposizione ad uno o più tra obblighi e prescrizioni, ovvero una sanzione che impone obblighi e impartisce prescrizioni.
  8. Gli obblighi e prescrizioni che danno contenuto alla san- zione sono elencati nell’art. 4 del decreto e comprendono: l’obbligo di comunicare i cambiamenti di residenza o di posto di lavoro; il divieto di frequentare determinati locali, posti o zone del territorio dello Stato di emissione o dello Stato di esecuzione; le restrizioni del diritto di lasciare il territorio dello Stato di esecuzione; le istruzioni riguar- danti il comportamento, la residenza, l’istruzione e la for- mazione, le attività ricreative, o contenenti limitazioni o modalità di esercizio di un’attività professionale; l’obbligo di presentarsi nelle ore fissate presso una determinata au- torità; l’obbligo di evitare contatti con determinate perso- ne; l’obbligo di evitare contatti con determinati oggetti che sono stati usati o che potrebbero essere usati dalla persona condannata a fini di reato; l’obbligo di risarcire finanzia- riamente i danni causati dal reato; l’obbligo di svolgere un lavoro o una prestazione socialmente utile; l’obbligo di cooperare con un addetto alla sorveglianza della persona o con un rappresentante di un servizio sociale; l’obbligo di assoggettarsi a trattamento terapeutico o di disintossicazione.
  9. 0ra, ricorrendo, da un lato, ai criteri generali che deli- neano la categoria degli istituti interessati e, dall’altro, agli obblighi e alle prescrizioni che possono importare, l’affi- damento in prova, che si prospetta quale trattamento in libertà alternativo alla detenzione, pare assimilabile, al di là del dato letterale, a una “sanzione sostitutiva”, per come tale categoria è descritta dall’art. 2, lett. e), ossia una san- zione (misura) che impone obblighi e impartisce prescri- zioni, implicando esso, per l’appunto, obblighi e prescri- zioni del tutto compatibili con quelli elencati nel successi- vo art. 4, e che costituiscono di norma il contenuto del trattamento alternativo, volti, da un lato, a incentivare la rieducazione e la risocializzazione del condannato – regole di condotta, rapporti con i servizi sociali, attività lavorati- va, prescrizioni di solidarietà (art. 4, lett. d, i, l) – e, dall’al- tro, a neutralizzare fattori di recidiva (prescrizioni circa la dimora, la libertà di movimento, di svolgimento di attività, divieto di frequentazione di determinati soggetti che possono favorire l’occasione di commissione di altri reati, divieto di frequentazione di locali, divieto di detenere armi, obblighi di comunicazione: e art. 4, lett. a, b, c, e, f, g).
  10. Sicchè, per come ne sono strutturati i contenuti, non vi sa- rebbero effettivi impedimenti alla sua esecuzione nel pae- se che aderisce alla decisione quadro, quando obblighi e prescrizioni imposti debbano essere adempiuti e osservati per un periodo di tempo non inferiore ai sei mesi (art. 6, comma 1), risultando superabili tutti gli argomenti addotti a sostegno della soluzione negativa: restando assicurato il controllo in ordine alla puntuale osservanza delle prescri- zioni imposte e alla corretta esecuzione della misura, così come l’attività di sostegno e di assistenza del servizio so- ciale (art. 4, lett. l), restando garantito il reinserimento del condannato ed anzi implementato dal mantenimento dei legami familiari, dei rapporti sociali con la comunità del paese di abituale dimora, dell’attività lavorativa, delle oc- casioni di studio; nè essendo più di ostacolo l’esercizio di poteri autoritativi al di fuori del territorio nazionale, a ra- gione del trasferimento di competenza dell’attività di sor- veglianza degli obblighi e delle prescrizioni impartite alle competenti autorità dello stato di esecuzione, salvo a rias- sumere l’esercizio del potere di sorveglianza nei casi previ- sti dall’art. 8, comma 2, tra cui è prevista la valutazione, ai fini della decisione da assumere, della durata e del grado di osservanza delle prescrizioni e degli obblighi impartiti durante il periodo in cui la persona condannata è stata sorvegliata all’estero.
  1. Tanto precisato, dalla lettura del provvedimento, emer ge con chiarezza che la richiesta del condannato di esegui re la misura alternativa in Germania, ove risiede con il suo nucleo familiare e lavora, non è stata respinta dal Tribunale per avere ritenuto preclusa la possibilità di esecuzione all’estero del concesso affidamento, ma perchè l’interessa- to non avrebbe manifestato tempestivamente (prima del- l’irrevocabilità della sentenza di condanna) la sua inten- zione di scontare la pena nello Stato membro.

Tale affermazione non trova, però, nessun riscontro nel dato normativo evocato. Come giustamente osserva il ri- corrente, l’art. 6 pone a carico del Pubblico ministero, qua- le promotore dell’esecuzione, l’iniziativa (che non esclude un’attività sollecitatoria dell’interessato) di trasmettere la sentenza o la decisione all’autorità competente dello Stato in cui la persona condannata ha la residenza legale o abi- tuale, mentre la richiesta dell’interessato è prevista nel solo caso in cui la trasmissione sia disposta all’autorità competente di uno Stato membro diverso da quello di resi- denza legale o abituale, necessitando in tal caso anche il previo assenso dello Stato di elezione.

  1. Alla luce delle superiori considerazioni il provvedimen to impugnato, viziato da erronea interpretazione ed applicazione del dato normativo, deve essere annullato con rin- vio per nuovo esame al Tribunale di sorveglianza di Catania P.Q.M. Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al Tribunale di Catania.

conseguenze denuncia omissione di soccorso

Conseguenze denuncia per Omissione di soccorso
Le conseguenze di una denuncia per omissione di soccorso spesso vengono rapportate al caso tipico ed intuitivo del soggetto che non si fermi a prestare soccorso a seguito di un incidente stradale.

In realtà il reato di omissione di soccorso è una figura più ampia, che ha come elemento fondamentale e costitutivo la condizione di pericolo in cui versa un soggetto al quale, per tale ragione, debba essere prestata assistenza ed immediato aiuto.

Pertanto può trattasi di un bambino minore di anni dieci; di un soggetto che per vecchiaia o infermità non sia capace di provvedere a sé stesso; di una persona che sia ferita oppure sembri inanimata o comunque si trovi in una condizione di pericolo: in tutti questi casi, qualora si ometta di prestare soccorso o di avvisare immediatamente le Autorità, si potrà essere chiamati a rispondere del reato di omissione di soccorso.

Una denuncia per omissione di soccorso avrà come prima conseguenza l’apertura di un procedimento penale a carico del denunciato, trattandosi di reato procedibile d’ufficio.

All’esito del successivo processo penale, che si svolgerà innanzi al Tribunale penale in composizione monocratica, i rischi che il soggetto denunciato per omissione di soccorso potrà correre in caso di condanna saranno diversi a seconda delle conseguenze che abbia prodotto il reato compiuto.

Se infatti nel caso base la conseguenza, in termini sanzionatori, di una denuncia per omissione di soccorso sarà la pena della reclusione fino ad un anno o della multa fino ad Euro 2.500,00, qualora dal reato sia derivata una lesione personale in danno della vittima la pena sarà aumentata; qualora invece dal reato di omissione di soccorso sia derivata la morte del soggetto che si trovava nella condizione di pericolo la pena prevista per l’ipotesi base sarà raddoppiata.

Inoltre se la vittima del reato si dovesse costituire parte civile nel procedimento penale, e solo nel caso in cui il denunciato venga riconosciuto colpevole, quale ulteriore rischio di una denuncia per omissione di soccorso vi sarà la possibilità di essere condannati al risarcimento del danno cagionato, attraverso la condotta illecita, alla persona offesa dal reato