Cass. Sez. III n.26325 del 21 settembre 2020 (UP 3 lug 2020) Pres.Andreazza Est. Semeraro Ric. Stallone Beni Ambientali.Spontanea rimessione in pristino
La speciale causa estintiva, prevista dall’art. 181 comma 1-quinquies d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 opera a condizione che l’autore dell’abuso si attivi spontaneamente alla rimessione in pristino delle aree o degli immobili soggetti a vincolo paesaggistico, anticipando l’emissione del provvedimento amministrativo ripristinatorio. L’applicabilità di tale causa estintiva è subordinata al fatto che la rimessione in pristino da parte dell’autore dell’abuso sia spontanea e non eseguita su impulso dell’autorità amministrativa. L’estinzione si ha, pertanto, solo quando non sia stata ancora disposta d’ufficio dalla P.A.; è necessario cioè che l’autore dell’abuso si attivi spontaneamente alla rimessione in pristino e, quindi, prima che la P.A. la disponga, perché l’effetto premiale può realizzarsi solo in presenza di una condotta che anticipi l’emissione del provvedimento amministrativo ripristinatorio.
RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza del 26 giugno 2019 la Corte di appello di Palermo ha confermato la condanna inflitta a Gaetano Stallone ed Agata Indelicato dal Tribunale di Marsala alla pena di un mese di arresto ed € 57.000 di ammenda per i reati di cui agli artt. 95 d.P.R. 380/2001 (capo B), 181 comma 1-bis d.lgs. 42/2004 (capo C), 734 cod. pen. (capo D) per la costruzione di una sopraelevazione di 59 mq. e di una tettoria, alle spalle della sopraelevazione, di circa mq. 18, in zona sismica, senza il necessario preavviso e senza la necessaria autorizzazione, in zona vincolata senza autorizzazione paesistica, in zona di notevole interesse pubblico alterando le bellezze naturali. In Campobello di Mazara fino al 18 gennaio 2016.
2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore degli imputati. 2.1. Con il primo motivo si deduce il vizio della motivazione; la Corte di appello avrebbe erroneamente ritenuto che i ricorrenti abbiano demolito le opere per le quali hanno ottenuto la concessione in sanatoria del 17 marzo 2017; con tale concessione sarebbero stati sanati gli abusi commessi dal precedente proprietario dell’immobile e parte degli illeciti commessi dai ricorrenti, tra cui una scala in cemento armato. La corte territoriale avrebbe ritenuto erroneamente che i motivi di appello siano contraddittori. Vi sarebbe una evidente illogicità o contraddittorietà della motivazione della sentenza. 2.2. Con il secondo motivo si deduce il vizio della motivazione con riferimento al capo c), ex art. 181 comma 1-bis d.lgs. 42/2004. Sarebbe stata omessa la risposta al primo motivo di appello su tale capo. 2.3. Con il terzo motivo si deducono i vizi di violazione di legge e della motivazione in relazione al reato ex art. 734 cod. pen. La Corte di appello avrebbe erroneamente ritenuto che la concessione in sanatoria non abbia estinto il reato ex art. 734 cod. pen., in contrasto con quanto previsto dall’art. 39 comma 7 della legge 724/1994. Mancherebbe poi la motivazione con riferimento al quarto motivo di appello relativo alla mancanza di motivazione della sentenza di primo grado sulla sussistenza di una permanente menomazione della bellezza del luogo e sulla concreta idoneità della condotta di deturpamento. 2.4. Con il quarto motivo si deduce la violazione dell’art. 181 comma 1- quinquies d.lgs. 42/2004. La Corte di appello avrebbe erroneamente ritenuto che, per aversi l’estinzione del reato, la demolizione avrebbe dovuto precedere la sentenza di condanna e l’emissione del provvedimento di demolizione da parte dell’autorità amministrativa. Invece, l’art. 181 comma 1-quinquies consentirebbe l’effetto estintivo, in caso di demolizione prima della sentenza di condanna, anche nel caso di demolizione successiva all’ingiunzione amministrativa. La demolizione sarebbe avvenuta prima della citazione a giudizio e ciò emergerebbe dalla richiesta di dissequestro dell’immobile, presentata alla Procura della Repubblica di Marsala, per procedere alla demolizione delle opere. 2.5. Con il quinto motivo si deducono i vizi di violazione di legge e della motivazione sul rigetto della richiesta di applicazione dell’art. 131-bis cod. pen.; il rigetto sarebbe fondato sull’abitualità delle condotte. I ricorrenti avrebbero invece dimostrato che le opere abusive realizzate al primo piano furono realizzate dal precedente proprietario (Antonino Bono) che il 30 giugno 1986 presentò l’istanza per la sanatoria. Nessun procedimento per illeciti edilizi sarebbe sorto a carico degli imputati. Inoltre, l’applicabilità dell’art. 131-bis cod. pen. deriverebbe dalla scarsa consistenza delle opere abusive con minima lesione dell’interesse protetto, anche a seguito della demolizione delle opere. 2.6. Con il sesto motivo si deduce il vizio della motivazione in relazione all’art. 95 d.P.R. 380/2001; la Corte di appello ha ritenuto che il reato ex art. 95 non possa essere dichiarato estinto poiché le opere abusive non sarebbero state sanate ma demolite. Invece, parte delle opere abusive sarebbero state sanate dal permesso di costruire n. 27 del 17 marzo 2017.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo è manifestamente infondato. Nella sentenza non vi è alcuna contraddittorietà: la corte territoriale ha chiaramente distinto le opere oggetto della concessione in sanatoria del marzo del 2017 – che non riguardano quelle oggetto del capo di imputazione (come invece ritenuto erroneamente dal Tribunale di Marsala, in relazione al capo a, ma confermato dai ricorrenti) – e quelle demolite, oggetto dell’imputazione (cfr. pagina 5 punto 5). Né l’eventuale erronea qualificazione dei motivi di appello come contraddittori inciderebbe sulla ratio decidendi.
2. Manifestamente infondati sono il secondo ed il quarto motivo: la Corte di appello ha esplicitamente motivato sulla sussistenza del reato di cui al capo c), ex art. 181 comma 1-bis d.lgs. 42/2004, valutando non solo la realizzazione delle opere in zona vincolata, senza il preventivo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, ma anche l’irrilevanza della demolizione eseguita non spontaneamente dagli imputati. 2.1. La demolizione è stata effettuata a seguito dell’emissione dell’ingiunzione alla demolizione, il 22 febbraio 2016, da parte del comune di Campobello di Mazara. Orbene, va rilevato che è contestato agli imputati il reato di cui all’art. 181 comma 1-bis d.lgs. 42/2004, poiché l’opera è stata realizzata in area sottoposta a vincolo di notevole interesse pubblico con apposito provvedimento emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori, per cui non opera la causa estintiva di cui al comma 1-quinquies. 2.2. Va ribadito il principio per cui la rimessione in pristino delle aree o degli immobili assoggettati a vincolo paesaggistico, spontaneamente eseguita dal trasgressore, per la sua natura eccezionale, estingue solo il reato previsto dal comma primo e non dal comma 1-bis, dell’art. 181 del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (Sez. 3, n. 33542 del 19/06/2012, Cavaletto, Rv. 253139-01). 2.3. In ogni caso, anche ove si volesse ritenere che la condanna sia avvenuta per il comma 1 dell’art. 181 d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, la decisione della Corte di appello è corretta. Infatti, la speciale causa estintiva, prevista dall’art. 181 comma 1-quinquies d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 – «La rimessione in pristino delle aree o degli immobili soggetti a vincoli paesaggistici da parte del trasgressore, prima che venga disposta d’ufficio dall’autorità amministrativa, e comunque prima che intervenga la condanna, estingue il reato di cui al comma 1» – opera a condizione che l’autore dell’abuso si attivi spontaneamente alla rimessione in pristino delle aree o degli immobili soggetti a vincolo paesaggistico, anticipando l’emissione del provvedimento amministrativo ripristinatorio: cfr. in tal senso Sez. 3, n. 37822 del 12/06/2013, Battistelli, Rv. 25651801. Come osservato dalla sentenza Battistelli, l’applicabilità della speciale causa estintiva di cui all’art. 181 comma 1-quinquies è subordinata al fatto che la rimessione in pristino da parte dell’autore dell’abuso sia spontanea e non eseguita su impulso dell’autorità amministrativa. L’estinzione si ha, pertanto, solo quando non sia stata ancora disposta d’ufficio dalla P.A.; è necessario cioè che l’autore dell’abuso si attivi spontaneamente alla rimessione in pristino e, quindi, prima che la P.A. la disponga, perché l’effetto premiale può realizzarsi solo in presenza di una condotta che anticipi l’emissione del provvedimento amministrativo ripristinatorio. Se si fosse voluto far riferimento solo alla sentenza di condanna non avrebbe avuto alcun senso richiamare il provvedimento disposto d’ufficio dalla P.A.; il legislatore ha voluto porre l’accento sul carattere (necessariamente) spontaneo della rimessione in pristino per farne derivare l’effetto estintivo del reato.
3. Manifestamente infondato è il terzo motivo relativo al reato ex art. 734 cod. pen.: come chiaramente rilevato dalla Corte di appello, la concessione in sanatoria non si riferisce alle opere oggetto dell’imputazione sicché gli effetti non sono minimamente invocabili nel processo. Contrariamente a quanto si afferma nel ricorso, vi è poi una esplicita motivazione da parte della Corte di appello sulla sussistenza del reato ex art. 734 cod. pen. per le dimensioni dell’opera, realizzata in sopraelevazione di altra abusiva, e non ancora condonata al momento della costruzione, in zona sottoposta a vincolo ambientale, a 500 metri dal mare.
L’accertamento del dolo nel reato di calunnia si attua mediante un processo logico deduttivo che, partendo dalle modalità esecutive dell’azione, risale alla sfera intellettiva e volitiva del soggetto
In tema di calunnia, l’elemento soggettivo, che deve estendersi alla consapevolezza di esporre al rischio di un procedimento penale l’accusato che si sa innocente, è evidenziato dalle concrete circostanze e dalle modalità esecutive che definiscono l’azione criminosa, dalle quali, con processo logico deduttivo, è possibile risalire alla sfera intellettiva e volitiva del soggetto ai fini dell’accertamento del dolo.
RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza impugnata la Corte di appello di Lecce, in parziale riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Lecce, ha assolto T.G. dal reato di calunnia, limitatamente all’episodio del (OMISSIS) perché il fatto non sussiste, confermandone la condanna alla pena di anni due di reclusione, con il beneficio della sospensione condizionale, per gli altri episodi ascritti.
2. Propone ricorso per cassazione il difensore di fiducia di T.G., avv. Giovanni Ladisi, articolando quattro motivi di ricorso.
2.1 Con il primo motivo deduce i vizi di violazione di legge, di mancanza della motivazione in merito alla applicabilità dell’art. 49 c.p., ed alla configurabilità del reato in relazione all’episodio del (OMISSIS), nonché di contraddittorietà della motivazione nella parte in cui, da un lato, ha escluso la sussistenza del reato con riferimento allo scritto del (OMISSIS) e, dall’altro, ne ha ravvisato la sussistenza con riferimento agli altri scritti, pur essendo questi tra loro sovrapponibili in quanto relativi al medesimo fatto storico e rappresentanti identiche doglianze. La Corte territoriale ha omesso, inoltre, di valutare il fine perseguito dall’imputato (la valutazione della condotta del D.C.) ed il movente della sua condotta (l’avere subito un’ingiustizia) ed avrebbe dovuto, sulla base della connotazione di tale condotta, escluderne l’inidoneità, ravvisando un reato impossibile.
2.2 Con il secondo motivo deduce vizi cumulativi di violazione dell’art. 43 c.p. e di motivazione con riferimento all’elemento psicologico del reato avendo il T. agito nell’intima convinzione di avere subito un torto a nulla rilevando la sua qualifica professionale di dottore commercialista.
2.3 Con il terzo motivo deduce il vizio di violazione dell’art. 81 c.p., in relazione all’omessa rideterminazione del trattamento sanzionatorio a seguito dell’assoluzione dal reato commesso il (OMISSIS) non essendo rilevante, in difetto di impugnazione del Pubblico ministero, che il Giudice di primo grado abbia omesso di applicare l’aumento a titolo di continuazione.
2.4 Con il quarto motivo deduce i vizi cumulativi di violazione di legge e di motivazione in merito alla omessa concessione delle circostanze attenuanti generiche, non avendo i Giudici di merito considerato le dichiarazioni di rinuncia alle azioni giudiziali sottoscritte dalla persona offesa.
DirittoCONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile in quanto fondato su motivi, in parte, non consentiti e, in parte, generici e manifestamente infondati.
2. Ciò premesso, i primi due motivi, da esaminare congiuntamente in quanto tra loro logicamente connessi, sono inammissibili perché generici, meramente reiterativi dei medesimi motivi di appello e volti a sollecitare una diversa lettura delle risultanze processuali, estranea al perimetro del giudizio di legittimità.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, la calunnia è un reato di pericolo che si realizza con una condotta tale da creare il concreto rischio di inizio di un’indagine, sia che venga realizzata con una falsa denunzia che con la simulazione di tracce del reato. Non e’, quindi, necessario che vi sia l’effettivo avvio di un’indagine ma, laddove ciò non avvenga, occorre valutare se, nel caso concreto, la condotta fosse del tutto inidonea a creare il rischio di inizio di un procedimento penale come, ad esempio, allorché la falsa accusa abbia ad oggetto fatti manifestamente e a prima vista inverosimili o incredibili per le circostanze in cui è effettuata, per i modi in cui è espressa e per l’assoluta inattendibilità del suo contenuto, sì che l’accertamento della sua infondatezza non abbisogni di alcuna indagine. In tali casi l’azione si rivela sostanzialmente priva dell’attitudine a ledere gli interessi protetti, a norma dell’art. 49 c.p. (Sez. 6, n. 26177 del 17/03/2009, Vassura, Rv. 244357).
Ai fini della configurabilità del reato di calunnia non e’, dunque, necessario l’inizio di un procedimento penale a carico del calunniato, occorrendo soltanto che la falsa incolpazione contenga in sé gli elementi necessari e sufficienti per l’esercizio dell’azione penale nei confronti di una persona univocamente e agevolmente individuabile; cosicché soltanto nel caso di addebito che non rivesta i caratteri della serietà, ma si compendi in circostanze assurde, inverosimili o grottesche, tali da non poter ragionevolmente adombrare – perché in contrasto con i più elementari principi della logica e del buon senso – la concreta ipotizzabilità del reato denunciato, è da ritenere insussistente l’elemento materiale del delitto di calunnia (Sez. 2, n. 14761 del 19/12/2017, dep. 2018, Lusi, Rv. 272754; Sez. 6, n. 10282 del 22/01/2014, Romeo, Rv. 259268).
2.1 La sentenza impugnata ha fatto buon governo di tali coordinate ermeneutiche e, con motivazione immune da vizi logici o giuridici, ha chiarito la portata calunniosa degli esposti e della querela presentati dall’imputato in cui lo stesso ipotizzava diverse condotte criminose di cui si sarebbe reso responsabile il D.C., anche in concorso con il Giudice P., quali ad esempio, le false dichiarazioni a verbale rese con il “beneplacito del magistrato Pasculli”, l’abuso d’ufficio di quest’ultimo, ovvero le condotte di estorsione, atti persecutori e truffa di cui si sarebbe reso responsabile il D.C..
Esclusa, inoltre, l’inverosimiglianza o il carattere grottesco o assurdo del contenuto delle accuse, in quanto formulate in termini dettagliati e con richiami alla giurisprudenza di legittimità, la sentenza impugnata, con motivazione parimenti adeguata ed immune da vizi ha posto l’accento sulle competenze tecniche del ricorrente e sul contenuto delle accuse per ritenere sussistente la consapevolezza del T. della loro falsità e dell’innocenza della persona offesa.
Così facendo, ha fatto buon governo del principio di diritto già affermato da questa Corte, dal Collegio pienamente condiviso e ribadito, secondo cui in tema di calunnia, l’elemento soggettivo, che deve estendersi alla consapevolezza di esporre al rischio di un procedimento penale l’accusato che si sa innocente, è evidenziato dalle concrete circostanze e dalle modalità esecutive che definiscono l’azione criminosa, dalle quali, con processo logico deduttivo, è possibile risalire alla sfera intellettiva e volitiva del soggetto ai fini dell’accertamento del dolo (Sez. 6, n. 21204 del 03/04/2013, Cristofami, Rv. 255670).
E’ stato, infatti, chiarito che la consapevolezza del denunciante in merito all’innocenza dell’accusato è esclusa nel caso non ricorrente nella fattispecie in esame di cui la supposta illiceità del fatto denunziato sia ragionevolmente fondata su elementi oggettivi e seri tali da ingenerare dubbi condivisibili da parte di una persona, di normale cultura e capacità di discernimento, che si trovi nella medesima situazione di conoscenza (Sez. 6, n. 12209 del 18/02/2020, Abbondanza, Rv. 278753).
2.2 In considerazione della pluralità di denunce presentate in tempi diversi e presso diverse Autorità, nonché del loro contenuto, è stata, inoltre, legittimamente ravvisata una pluralità di reati. Va, al riguardo, ribadito, che la proposizione di plurime denunce contenenti false accuse depositate presso più autorità ed in luoghi distinti dà luogo ad una pluralità di reati, dovendosi escludere l’identità del fatto nel caso in cui la reiterazione della condotta avvenga con modalità spazio-temporali diverse (Sez. 6, n. 13416 del 08/03/2016, Pasquinelli, Rv. 267269).
2.3 Va, inoltre, aggiunto che, quanto allo scritto del 19 settembre, non sussiste un interesse concreto del ricorrente a dolersi della sua omessa valutazione posto che, pur essendo stata riconosciuta la continuazione tra i diversi episodi di calunnia, in concreto è stata applicata solo la pena base nel minimo edittale previsto dall’art. 368 c.p., cosicché, in caso di accoglimento della doglianza, potrebbero conseguire effetti in malam partem per il ricorrente con l’eventuale applicazione dell’aumento ai sensi dell’art. 81 c.p. per tale episodio criminoso.
3. Il terzo motivo è inammissibile in quanto manifestamente infondato. La Corte territoriale ha, infatti, correttamente giustificato la mancata riduzione del trattamento sanzionatorio in considerazione del fatto che il Giudice di primo grado aveva calcolato la sola pena base per il reato di calunnia, nel minimo edittale, senza operare alcun aumento a titolo di continuazione.
4. Anche il quarto motivo non supera il vaglio di ammissibilità in quanto aspecifico e privo di adeguato confronto con le argomentazioni della sentenza impugnata che ha escluso la sussistenza di elementi di segno positivo, ponendo, di contro, l’accento sull’assenza di alcuna forma di resipiscenza da parte del ricorrente.
Va, al riguardo, ribadito che il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche può essere legittimamente motivato dal giudice con l’assenza di elementi o circostanze di segno positivo, a maggior ragione dopo la riforma dell’art. 62-bis c.p., disposta con il D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito con modifiche nella L. 24 luglio 2008, n. 125, per effetto della quale, ai fini della concessione della diminuente, non è più sufficiente il solo stato di incensuratezza dell’imputato (Sez. 1, n. 39566 del 16/02/2017, Starace, Rv. 270986).
Le circostanze attenuanti generiche hanno, infatti, lo scopo di estendere le possibilità di adeguamento della pena in senso favorevole all’imputato, in considerazione di situazioni e circostanze che effettivamente incidano sull’apprezzamento dell’entità del reato e della capacità a delinquere del reo, sicché il riconoscimento di esse richiede la dimostrazione di elementi di segno positivo (cfr. Sez. 2, n. 9299 del 07/11/2018, dep. 2019, Villani, Rv. 275640).
5. L’inammissibilità dei motivi di ricorso, non consentendo il formarsi di un valido rapporto di impugnazione, preclude la possibilità di rilevare e dichiarare la prescrizione del reato maturata successivamente alla sentenza impugnata (Sez. U., n. 32 del 22/11/2000, Rv. 217266).
All’inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. Inoltre, il ricorrente va condannato al pagamento della somma di Euro tremila da versare in favore della Cassa delle Ammende, non potendosi ritenere che lo stesso abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. n. 186 del 2000).
PQMP.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.
Confisca conto corrente Sezioni Unite di Cassazione
Cassazione Penale, Sezioni Unite, 18 novembre 2021 (ud. 27 maggio 2021), n. 42415 Presidente Cassano, Relatore Mogini
Con ordinanza n. 7021/2021 era stata rimessa alle Sezioni unite la seguente questione di diritto: «se il sequestro delle somme di denaro giacenti su conto corrente bancario debba sempre qualificarsi finalizzato alla confisca diretta del prezzo del profitto derivante dal reato anche nel caso in cui la parte interessata fornisca la prova della derivazione del denaro da un titolo lecito».
Con sentenza numero 42415, depositata il 18 novembre 2011, le Sezioni Unite hanno affermato il seguente principio di diritto: «qualora il prezzo o il profitto derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca viene eseguita, in ragione della natura del bene, mediante l‘ablazione del denaro, comunque rinvenuto nel patrimonio del soggetto, che rappresenti l’effettivo accrescimento patrimoniale monetario da quest’ultimo conseguito per effetto del reato; tale confisca deve essere qualificata come confisca diretta, e non per equivalente, e non è ostativa alla sua adozione l’allegazione o la prova dell’origine lecita del numerario oggetto di ablazione».
La questione rimessa all’esame delle Sezioni Unite è la seguente: “se il sequestro delle somme di denaro giacenti su conto corrente bancario debba sempre qualificarsi come finalizzato alla confisca diretta del prezzo o profitto derivante dal reato anche nel caso in cui la parte interessata fornisca la “prova” della derivazione del denaro da titolo lecito”.
Conseguenze denuncia per Omissione di soccorso
Le conseguenze di una denuncia per omissione di soccorso spesso vengono rapportate al caso tipico ed intuitivo del soggetto che non si fermi a prestare soccorso a seguito di un incidente stradale.
In realtà il reato di omissione di soccorso è una figura più ampia, che ha come elemento fondamentale e costitutivo la condizione di pericolo in cui versa un soggetto al quale, per tale ragione, debba essere prestata assistenza ed immediato aiuto.
Pertanto può trattasi di un bambino minore di anni dieci; di un soggetto che per vecchiaia o infermità non sia capace di provvedere a sé stesso; di una persona che sia ferita oppure sembri inanimata o comunque si trovi in una condizione di pericolo: in tutti questi casi, qualora si ometta di prestare soccorso o di avvisare immediatamente le Autorità, si potrà essere chiamati a rispondere del reato di omissione di soccorso.
Una denuncia per omissione di soccorso avrà come prima conseguenza l’apertura di un procedimento penale a carico del denunciato, trattandosi di reato procedibile d’ufficio.
All’esito del successivo processo penale, che si svolgerà innanzi al Tribunale penale in composizione monocratica, i rischi che il soggetto denunciato per omissione di soccorso potrà correre in caso di condanna saranno diversi a seconda delle conseguenze che abbia prodotto il reato compiuto.
Se infatti nel caso base la conseguenza, in termini sanzionatori, di una denuncia per omissione di soccorso sarà la pena della reclusione fino ad un anno o della multa fino ad Euro 2.500,00, qualora dal reato sia derivata una lesione personale in danno della vittima la pena sarà aumentata; qualora invece dal reato di omissione di soccorso sia derivata la morte del soggetto che si trovava nella condizione di pericolo la pena prevista per l’ipotesi base sarà raddoppiata.
Inoltre se la vittima del reato si dovesse costituire parte civile nel procedimento penale, e solo nel caso in cui il denunciato venga riconosciuto colpevole, quale ulteriore rischio di una denuncia per omissione di soccorso vi sarà la possibilità di essere condannati al risarcimento del danno cagionato, attraverso la condotta illecita, alla persona offesa dal reato
Conseguenze denuncia per Truffa
La Truffa è tra i reati maggiormente conosciuti anche da coloro che nella vita non si occupano di questioni di giustizia, e di frequente nelle Aule di Tribunale si assiste alla celebrazione di processi per tale reato: ma quali sono le conseguenze e i rischi di una denuncia per il reato di Truffa ?
Con il delitto di Truffa viene punito il soggetto che, con artifici e raggiri, abbia ingannato la vittima del reato, inducendola in errore al fine di procurare per sé o altri un ingiusto profitto (solitamente un atto di disposizione patrimoniale indebito da parte della persona offesa).
E’ bene premettere che il reato di Truffa “semplice” (ovvero senza la presenza di circostanze aggravanti) è procedibile a querela di parte, motivo per cui una semplice denuncia (atto ben differente dalla querela) non porterà neanche all’instaurazione di un procedimento penale.
Qualora invece il reato di Truffa si presenti in forma aggravata (da una circostanza specificamente dettata per tale reato dall’art. 640 del Codice penale o da una circostanza cosiddetta “comune”) sarà procedibile d’ufficio, e quindi la denuncia per Truffa avrà come conseguenza l’apertura di un procedimento penale a carico dell’accusato.
Terminate le indagini preliminari il Pubblico Ministero potrà citare a giudizio il responsabile per rispondere del reato in oggetto: il processo penale si svolgerà innanzi al Giudice monocratico del Tribunale penale competente in relazione al luogo di commissione del reato.
Anche a livello di pena applicabile al colpevole le conseguenze e i rischi di una denuncia per Truffa variano in relazione alla presenza o meno delle aggravanti speciali previste dall’art. 640 del Codice penale; per il caso di Truffa “semplice” (non aggravata) o aggravata da circostanze di natura comune (quelle dettate dall’art. 61 del Codice penale per tutti i reati), la pena applicabile sarà la reclusione da sei mesi a tre anni e la multa da Euro 51 a Euro 1.032.
Invece, per le ipotesi di truffa aggravata dalle specifiche circostanze di cui al capoverso dell’art. 640 del Codice penale, la pena prevista è quella della reclusione da uno a cinque anni e della multa da Euro 309 a Euro 1.549.
Tra le possibili conseguenze di una denuncia per il reato di Truffa vi è la possibilità di essere condannati (solo nel caso in cui la vittima del reato di costituisca parte civile nel processo penale e l’imputato venga riconosciuto colpevole del delitto di Truffa) al risarcimento dei danni cagionati alla persona offesa con il reato commesso.
Nella maggior parte dei casi si tratta quanto meno della restituzione delle somme indebitamente erogate a causa del reato di truffa (ovvero l’ingiusto profitto conseguito dal reo) oltre alla liquidazione di una somma a titolo di ristoro dei danni di natura non patrimoniale (cosiddetto danno morale) subito dalla vittima del reato.
In via preliminare, si osserva che la fattispecie penale incriminatrice della resistenza a pubblico ufficiale è da considerare come un delitto di medio allarme sociale. Tuttavia, l’allarme sociale generato e prodotto dal predetto reato può, talvolta, crescere ulteriormente ed essere, quindi, il presupposto, l’antefatto per la realizzazione di più gravi reati quali ad esempio l’omicidio.
Il legislatore penale colloca la resistenza a un pubblico ufficiale nel libro II del codice penale, nel titolo II (Dei delitti contro la pubblica amministrazione), nel Capo II (Dei delitti dei privati contro la pubblica amministrazione). Pertanto, l’articolo 337 del vigente codice penale stabilisce che: “Chiunque usa violenza o minaccia per opporsi a un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio, mentre compie un atto di ufficio o di servizio, o a coloro che, richiesti, gli prestano assistenza, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni”.
Si tratta di un reato comune, giacché può essere commesso da una qualsiasi persona fisica, di danno , in quanto richiede l’offesa in senso naturalistico del bene protetto, di mera condotta ed a forma libera, poiché può essere realizzato con qualsiasi condotta idonea al raggiungimento dello scopo. Inoltre, il tentativo è pienamente configurabile.
Il soggetto passivo del reato in commento può essere un pubblico ufficiale[1], un incaricato di un pubblico servizio ovvero chiunque, da questi richiesto, presti loro assistenza. Tuttavia, si deve correttamente rilevare che non rientrano fra i soggetti passivi gli esercenti un servizio di pubblica necessità (ad esempio gli avvocati).
In tema di resistenza a pubblico ufficiale il bene giuridico protetto è quello della sicurezza e della libertà di azione, di movimento del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio contro specifici fatti di opposizione violenta. In particolare, per la configurabilità dell’elemento materiale della violenza nel reato di resistenza a pubblico ufficiale non è necessario che la condotta violenta ponga in pericolo l’integrità fisica del soggetto passivo, poiché il delitto di cui all’articolo 337 c.p. è un reato contro la Pubblica Amministrazione e non contro la persona. Infatti, è sufficiente l’esistenza di una condotta idonea ad impedire l’esecuzione dell’atto di ufficio. Si ritiene che la materialità del delitto di resistenza al pubblico ufficiale sia integrata pure dalla violenza cosiddetta impropria, la quale, pur non aggredendo direttamente il predetto soggetto, si ripercuote sfavorevolmente nell’esplicazione della relativa funzione pubblica, impedendola o semplicemente ostacolandola.
Inoltre, la condotta penalmente rilevante deve intendersi rappresentata da qualunque attività commissiva od omissiva che si trasponga in un atteggiamento, anche talora implicito, purché percepibile “ex adverso”, che impedisca, ostacoli, intralci ed valga a compromettere, anche solo parzialmente e temporaneamente la regolarità del compimento dell’atto di ufficio o di servizio da parte del pubblico ufficiale o dell’ incaricato di un pubblico servizio. Dalla lettura della norma viene in evidenza che l’atto dell’ufficio o del servizio deve aver avuto almeno un principio di esecuzione. Infatti, l’utilizzazione normativa dell’avverbio “mentre” determina la necessaria contestualità tra la resistenza e l’attività del pubblico funzionario.
Tuttavia, non ogni reazione minacciosa è valida ad integrare il reato in commento. Infatti, non integra il reato di cui all’art. 337 codice penale la reazione minacciosa posta in essere nei confronti del pubblico ufficiale dopo che questi abbia già svolto l’atto del proprio ufficio e senza, dunque, la finalità di opporvisi. (Cassazione penale, sezione VI, sentenza 2 marzo 2011, n. 8340) Inoltre, estranea ai confini della condotta violenta o minacciosa è la cosiddetta resistenza passiva consistente in comportamenti meramente difensivi quali buttarsi a terra o rifiutarsi di obbedire, anche nel caso in cui il pubblico ufficiale sia costretto ad adoperare violenza per vincerla (si veda in tal senso la Cassazione penale, Sezione VI sentenza 06 novembre 2012 n. 10136).
Il coefficiente psicologico[2] ricercato è il dolo specifico[3], in quanto oltre alla coscienza e volontà della violenza o minaccia è richiesta l’ulteriore finalità di impedire che l’agente pubblico esegua l’atto del suo ufficio. Tuttavia, si deve osservare che nel reato in commento sono estranei, per l’individuazione dell’elemento soggettivo, la causa ed il fine del soggetto del reato.
Secondo un importante insegnamento del Supremo Collegio, l’elemento intenzionale del delitto di resistenza a pubblico ufficiale si concreta nella coscienza e volontà dell’agente di usare violenza o minaccia per opporsi al soggetto tutelato mentre sta compiendo o si sta adoperando per compiere il proprio atto d’ufficio o di servizio, senza che abbia rilevanza il fatto che la violenza o minaccia cada su cose anziché sulle persone, quando essa sia idonea ad impedire o, comunque, turbare od ostacolare l’attività funzionale del pubblico ufficiale. (Cassazione penale, sezione VI, sentenza del 27 maggio 1986 nr. 4325) In sostanza, il predetto principio di diritto, correttamente enucleato dalla Cassazione, chiarisce che per la realizzazione ed il perfezionamento del reato in commento è indifferente che la condotta antigiuridica della violenza o della minaccia avvenga ed cada su cose piuttosto che sulle persone.
Nel reato di resistenza a pubblico ufficiale l’elemento psicologico consiste nella coscienza e volontà di precludere al pubblico ufficiale con una condotta minacciosa e violenta l’atto d’ufficio ritenuto pregiudizievole per i propri interessi. Ne consegue che risponde del reato su indicato colui il quale abbia nei confronti di un vigile urbano in servizio e che gli richieda dei documenti per l’identificazione una condotta tanto violenta da produrgli delle lesioni personali. (Cassazione penale, sezione VI, sentenza 14 marzo 1986, n. 2089)
La resistenza a pubblico ufficiale è, purtroppo, un reato molto diffuso e di frequente verificazione nell’attuale società civile. Si pensi, solo per fare un esempio, alla condotta del conducente di un automezzo che, senza fermarsi all’alt degli agenti di un organo di polizia stradale, decida di speronare violentemente ed a forte velocità l’autovettura di servizio degli agenti di polizia proprio al fine di non consentire loro l’espletamento di un atto d’ufficio.
Inoltre, desta particolare interesse per la sua portata chiarificatrice una sentenza della Corte di Cassazione che affronta la problematica del reato continuato , del concorso formale di reati ed anche quella del rapporto fra il tentato omicidio e la resistenza a pubblico ufficiale. Il giudice delle leggi, in riferimento a quanto esposto in precedenza, ha stabilito che : “Il reato di resistenza a pubblico ufficiale assorbe soltanto quel minimo di violenza necessario per impedire al pubblico ufficiale il compimento di un atto del suo ufficio, mentre l’omicidio, travalicando detto limite, attenta direttamente alla vita od all’incolumità del soggetto passivo; i due reati possono concorrere, stante la diversità dei beni giuridici tutelati e le differenze qualitative e quantitative della violenza esercitata contro il pubblico ufficiale”. Nella predetta fattispecie la Suprema Corte ha opportunamente ed correttamente ravvisato il concorso formale tra i reati di resistenza a pubblico ufficiale e tentato omicidio nella condotta dell’indagato che, in fuga a bordo di un’autovettura appena rapinata, aveva a più riprese tentato di investire la motocicletta a bordo della quale due agenti di P.G. lo inseguivano. (Cassazione penale, sezione II, sentenza 18 ottobre 2007, n. 38620).
Si osserva, nuovamente, che nella resistenza a pubblico ufficiale può essere applicato anche l’istituto giuridico del reato continuato (art. 81 c.p.). Infatti, la plurima violazione della legge penale può avere ad oggetto la stessa norma prevista dall’articolo 337 c.p. Pertanto, solo per fare un esempio, qualora la pubblica funzione sia esercitata da una pluralità di pubblici ufficiali o incaricati di un pubblico servizio attraverso singole azioni che si integrano a vicenda, la pluralità delle contrapposte reazioni minacciose o violente con cui l’autore della resistenza intenda bloccare le predette complesse funzioni rientra nel paradigma del reato continuato.
Inoltre, merita di essere brevemente trattato anche il profilo del concorso di persone nel reato. Proprio in riferimento a quest’ultimo punto, si osserva che la mancanza del previo concerto non condiziona la configurabilità del concorso di persone nel reato, essendo sufficiente l’intesa anche spontanea intervenuta nel corso dell’esecuzione del fatto criminoso.
In riferimento ai rapporti che intercorrono con altre fattispecie penali incriminatrici molto interessante ed articolato si presente il seguente principio di diritto: “Quando la violenza esercitata, per assicurarsi il possesso della cosa oggetto del reato di rapina o l’impunità, nei confronti del pubblico ufficiale, al fine di opporsi mentre compie un atto dell’ufficio, eccede il fatto di percosse e volontariamente provoca lesioni personali, si determina il concorso tra i delitti di rapina e resistenza e quello di lesioni, e per quest’ultimo sussiste l’aggravante della connessione teleologica, a nulla rilevando che reato – mezzo e reato – fine siano integrati dalla stessa condotta materiale”. (Cassazione penale, sezione II, sentenza 18 luglio 2005 nr. 26435)
Sempre in riferimento ai rapporti con altri reati la giurisprudenza di legittimità ha enucleato il seguente principio di diritto : “È configurabile il reato di resistenza a pubblico ufficiale, e non quello previsto dall’art. 336 c.p., nella condotta di colui che minaccia un agente di polizia per opporsi all’esecuzione di un sequestro, quando dopo l’apprensione materiale della res sia ancora necessario provvedere alla compilazione degli atti conseguenti al sequestro”. (Cassazione penale, sezione VI, 10 ottobre 2008, n. 38566)
Orbene, sulla base della precedente riflessione e considerazione, si osserva che è proprio il criterio cronologico che differenzia la resistenza a p.u. dalla violenza o minaccia a p.u. Infatti quando l’atto attende ancora di essere compiuto (prima dell’inizio della sua esecuzione) è possibile il delitto di violenza o minaccia mentre, invece, quando l’atto è iniziato (in via di compimento) e sino al termine della sua esecuzione è possibile il delitto di resistenza.
Restano ancora da analizzare alcune brevi note procedurali per il reato in commento. Si tratta di un reato procedibile d’ufficio che è di competenza del Tribunale in composizione monocratica (art. 33 – ter c.p.p.) ; la misura pre-cautelare dell’arresto[4] è facoltativa mentre, invece, il fermo di persona indiziata di delitto non è consentito. Inoltre, la misura cautelare della custodia cautelare in carcere è consentita al pari di tutte le altre misure cautelari personali. L’azione penale si esercita con il decreto di citazione diretta a giudizio e l’udienza preliminare non è prevista. Il reato si prescrive nel termine di sei anni e la declaratoria di non punibilità per tenuità del fatto risulta essere possibile.
Al delitto di resistenza a pubblico ufficiale si applica, altresì, l’esimente di cui all’articolo 393-bis c.p. (Causa di non punibilità). Infatti, secondo l’insegnamento della Cassazione Penale, sezione VI, sentenza 14 aprile 2011, n. 18841, è configurabile l’esimente della reazione ad atti arbitrari del pubblico ufficiale qualora il privato opponga resistenza al pubblico ufficiale che pretenda di sottoporlo a perquisizione personale finalizzata alla ricerca di armi e munizioni in assenza di elementi obiettivi idonei a giustificare l’atto, e dopo averlo accompagnato coattivamente in caserma in ragione del precedente rifiuto non già di declinare le generalità, ma di esibire i documenti di identità. In sintesi, la causa di non punibilità, di cui all’articolo 393 bis c.p., deve essere applicata ogni qual volta il pubblico ufficiale, l’incaricato di un pubblico servizio ovvero il pubblico impiegato abbiano dato causa al fatto previsto dall’articolo 337 c.p., eccedendo con degli atti arbitrari i limiti delle loro proprie attribuzioni di legge.
In ultima analisi, si osserva come sussiste l’elemento soggettivo del delitto di resistenza a pubblico ufficiale allorchè l’autore del fatto sia consapevole che il soggetto contro il quale è diretta la violenza o la minaccia rivesta la qualità di pubblico ufficiale e stia svolgendo un’attività del proprio ufficio. (Cassazione penale, sezione VI, sentenza 16 aprile 2004, n. 17701)
(A cura del Dott. Alessandro Amaolo, Specializzato nelle Professioni Legali con indirizzo Giudiziario – Foresnse ed abilitato all’esercizio della professione di avvocato presso la Corte di Appello di Ancona)
[1] Le guardie giurate, ancorché in servizio presso pubbliche amministrazioni, svolgono esclusivamente compiti di tutela delle entità patrimoniali affidate alla loro sorveglianza e non possono assumere, pertanto, la qualità di pubblici ufficiali o di incaricati di pubblico servizio quando intervengano, al di fuori delle loro attribuzioni istituzionali, per sedare una lite insorta fra un privato ed un pubblico dipendente. Infatti, nella predetta fattispecie la Suprema Corte ha escluso la configurabilità del reato di cui all’art. 337 c.p. (Cassazione penale, sezione VI, sentenza 05 dicembre 2008, n. 45444)
[2] Nel delitto di resistenza a pubblico ufficiale, l’elemento psicologico consiste nella coscienza e volontà di precludere, con la propria condotta minacciosa o violenta, la possibilità di compiere l’atto di ufficio ritenuto pregiudizievole ai propri interessi. (Cassazione penale, sezione VI, sentenza 5 febbraio 1988, n. 1506)
[3] In tema di resistenza a pubblico ufficiale il dolo specifico si concreta nella coscienza e volontà di usare violenza o minaccia al fine di opporsi al compimento di un atto dell’ufficio, mentre del tutto estranei sono lo scopo mediato ed i motivi di fatto avuti di mira dall’agente. (Cassazione penale, sezione VI, sentenza 25 agosto 1995, n. 9119)
[4] In tema di arresto facoltativo in flagranza, il controllo, che il giudice che procede alla convalida dell’arresto è tenuto a compiere ai sensi dell’art. 391 c.p.p., deve limitarsi all’accertamento delle condizioni di legittimità dell’arresto stesso (quali la flagranza del reato e i presupposti indicati dagli artt. 385 e 386 cod. proc. pen.), non potendosi estendere alla verifica dei presupposti per l’affermazione di responsabilità, che, per la complessità dei canoni di riferimento, deve ritenersi riservata al giudice della cognizione. (Cassazione penale, sezione VI, sentenza 17 febbraio 2009, n. 6878)