Continuazione tra pena italiana e straniera

L’ordinamento esprime il principio secondo il quale la pena che ha titolo nel medesimo provvedimento giurisdizionale non può essere eseguita due volte, neppure in diversi Stati.
L’avvenuta espiazione, in tutto o in parte, all’estero di pena avente titolo in una decisione dell’autorità giudiziaria italiana va computata ai fini della esecuzione della relativa condanna, a prescindere dalla legittimità o meno del provvedimento dell’autorità giudiziaria straniera che ha di- sposto l’esecuzione. Di conseguenza, nel caso in cui il condannato dedu- ca l’avvenuta espiazione all’estero della pena, il giudice dell’esecuzione è tenuto ad accertare, anche mediante richieste di informazioni all’autori- tà giudiziaria straniera, la storicità del dato dedotto dalla parte, senza poter sindacare la legittimità del provvedimento straniero che aveva di- sposto l’esecuzione

Corte di Cassazione
sez. I Penale, sentenza 30 marzo – 29 aprile 2021, n. 16462
Presidente Di Tomassi – Relatore Bianchi
Ritenuto in fatto

  1. Con istanza depositata in data 23.1.2020 S.L. , tramite il difensore di fiducia, aveva chiesto al Tribunale di Pavia l’annullamento dell’ordine di esecuzione emesso in data 8.1.2018 dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Pavia nella parte in cui aveva determinato la pena da espiare considerando anche la pena inflitta con sentenza n. 344 pro- nunciata in data 18.7.2012 dal Tribunale di Busto Arsizio (erroneamente, più volte, indicata in atti come sentenza pronunciata in data 26.10.2011), pena che, invece, era stata già scontata.
    La parte esponeva:
  • che con l’indicata sentenza, divenuta irrevocabile in data 7.10.2015, era stato condannato alla pena di anni due, mesi due e giorni 20 di reclusio- ne e di mesi uno di arresto, e di aver sofferto, per questo titolo, custodia cautelare dal 5.3.2012 al 14.9.2012 (mesi sei e giorni undici);
  • di essere stato tratto in arresto in data 28.11.2014 a seguito dell’emissio- ne di ordine di esecuzione in data 27.5.2013 relativo all’espiazione della pena di anni uno e mesi quattro di reclusione inflitta con sentenze pro- nunciate, in data 25.3.2009 e 15.4.2009, dal Tribunale di Milano;
  • che erano stati emessi nuovi ordini di esecuzione in relazione alla so- pravvenienza di nuove condanne, e in particolare di quelle pronunciate, in data 18.7.2012, dal Tribunale di Busto Arsizio – divenuta irrevocabile in data 7.10.2015 -, in data 13.2.2015 dalla Corte di appello di Milano – dive- nuta irrevocabile in data 2.11.2016 -, e in data 17.1.2017 dal Tribunale di Pavia divenuta irrevocabile in data 12.5.2017 -, e quindi era stato rideter- minato, di volta in volta, il cumulo delle pene da eseguire;
  • di essere stato, infine, rimesso in libertà per fine pena in data

23.10.2018.
Peraltro, l’istante, nel periodo tra il 23.10.2012 e il 24.6.2014, era stato de- tenuto in Romania.
In particolare, l’autorità giudiziaria rumena (Tribunale di Targu Jiu) ave- va provveduto a unificare nella continuazione diverse condanne pro- nunciate nei confronti dello S. , fra le quali anche la condanna pronun- ciata in data 18.7.2012 dal Tribunale di Busto Arsizio, e la relativa pena complessiva di anni tre di reclusione era stata espiata dallo S. in Roma- nia.
Di conseguenza, i successivi ordini di esecuzioni emessi dalla autorità giudiziaria italiana, di cui l’ultimo era stato quello emesso in data 8.1.2018 dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Pavia, nella parte in cui avevano posto in esecuzione la pena di anni uno, mesi otto e giorni nove di reclusione quale residuo di quella inflitta con sen- tenza 18.7.2012 del Tribunale di Busto Arsizio, erano illegittimi, essendo quella pena precedentemente espiata in Romania.
Infine, la parte deduceva di avere interesse all’annullamento richiesto al fine di ottenere indennizzo a titolo di riparazione per ingiusta detenzione.

  1. Con ordinanza depositata in data 25.9.2020 il Tribunale di Pavia, quale giudice dell’esecuzione, ha respinto la istanza proposta da S.L. , osser- vando che il provvedimento del Tribunale di Targu Jiu, in data 6.9.2013, aveva unificato nella continuazione, rideterminando in melius la pena complessiva, diverse condanne tra le quali anche quella n. 344/2012 del Tribunale di Busto Arsizio, all’epoca non ancora divenuta irrevocabile.
    Il provvedimento rumeno, dunque, era illegittimo in quanto il riconosci- mento di sentenze straniere al fine dell’esecuzione nello Stato della rela- tiva condanna è consentito solo con riguardo a sentenze divenute irrevocabili.
    Di conseguenza, illegittima era stata anche la esecuzione penale sofferta dallo S. in Romania nella parte riferibile alla condanna italiana, all’epoca
  2. non ancora definitiva, mentre legittima era stata la successiva esecuzio- ne ordinata dall’autorità giudiziaria italiana.
  3. Infine, non aveva rilievo la documentazione, depositata dalla difesa, at- testante le richieste inviate, nell’anno 2016, dalla Procura della Repub- blica presso il Tribunale di Busto Arsizio all’autorità giudiziaria rumena per il riconoscimento, ai fini dell’esecuzione, di condanne italiane, fra le quali anche quella n. 344/2012 del Tribunale di Busto Arsizio.
  4. Ha proposto ricorso per cassazione il difensore di S.L. , chiedendo l’an- nullamento dell’ordinanza impugnata.
    Con l’unico motivo, riproposti i dati della vicenda processuale descritti nell’originaria istanza, viene denunciata la violazione dell’art. 733 c.p.p..
    Le considerazioni sulla illegittimità del provvedimento con il quale l’au- torità giudiziaria rumena aveva unificato nel vincolo della continuazio- ne diverse condanne, fra le quali anche quella del Tribunale di Busto Ar- sizio, non erano rilevanti, dato che quel provvedimento era divenuto de- finitivo ed era stato anche messo in esecuzione.
  5. Il Procuratore generale ha chiesto il rigetto del ricorso, evidenziando che la normativa non consentiva il riconoscimento della continuazione con reati giudicati da sentenza straniera e che il riconoscimento delle sentenze straniere ai fini dell’esecuzione presuppone la irrevocabilità della sentenza oggetto del riconoscimento.
    Considerato in diritto
    Il ricorso è fondato e va perciò pronunciato annullamento, con rinvio, dell’ordinanza impugnata.
    Il giudice dell’esecuzione, dato atto che effettivamente l’autorità giudi- ziaria rumena aveva, con provvedimento in data 6.9.2013 del Tribunale di Targu Jiu, riconosciuto la continuazione tra diversi reati giudicati con sentenze dell’autorità giudiziaria rumena e anche dalla sentenza n.
  6. 344/2012 del Tribunale di Busto Arsizio e quindi rideterminato la pena complessiva, ha rilevato che detto provvedimento era illegittimo, dato che la condanna italiana, all’epoca, non era ancora definitiva, e quindi illegittimo era il conseguente provvedimento esecutivo nella parte in cui aveva disposto l’esecuzione di pena avente titolo nella sentenza italiana non ancora irrevocabile.
  7. Nella presente vicenda processuale vengono in rilievo due provvedimen- ti giurisdizionali, l’uno pronunciato dal Tribunale di Busto Arsizio e l’al- tro dal Tribunale di Targu Jiu, autorità giudiziarie di due Stati dell’Unio- ne Europea, relativi, a quanto prospettato dalla parte istante, al medesi- mo fatto, sia pure sotto diversi profili, avendo la sentenza italiana pro- nunciato sulla responsabilità e quella rumena sulla continuazione con altri reati.
  8. L’ordinamento, nella materia, ha visto una significativa evoluzione, dalla impostazione originaria, espressa dall’art. 12 c.p., che limitava i casi in cui una sentenza straniera poteva essere riconosciuta nello Stato italia- no, alla possibilità, riconosciuta dalla Convenzione sul trasferimento delle persone condannate firma a Strasburgo il 21 marzo 1983, che il cit- tadino di uno Stato aderente alla convenzione che sia stato condannato in uno Stato diverso possa eseguire la condanna nello Stato di origine (L. 3 luglio 1989, n. 257), sino alla disciplina del principio del reciproco rico- noscimento, nell’ambito dell’Unione Europea, delle sentenze penali ai fini della loro esecuzione, di cui alla decisione quadro 2008/909/GAI del 27.11.2008 attuata in Italia con D.Lgs. 7 settembre 2010, n. 161.
  9. Il codice di rito (art. 738 c.p.p.) prevede espressamente che nel caso di ri- conoscimento in Italia di sentenza straniera ai fini dell’esecuzione il provvedimento che determina la pena da eseguire deve tener conto della pena espiata nello Stato di condanna, e, d’altra parte, nel caso di richie- sta di esecuzione all’estero di condanna pronunciata nello Stato (art. 746 c.p.p.) “La pena non può più essere eseguita nello Stato, quando, secondo le leggi dello Stato richiesto, essa è stata interamente espiata”.
  10. In ambito comunitario vige la norma (D.Lgs. n. 161 del 2010, art. 16) che “La pena espiata nello Stato di emissione è computata ai fini dell’esecuzione”.
  11. Anche con riguardo alla custodia cautelare vige il principio del computo, ai fini della decorrenza dei relativi termini, del periodo di custodia sof- ferto all’estero in conseguenza di una domanda di estradizione (art. 722 c.p.p.) o in esecuzione di mandato di arresto Europeo (L. n. 69 del 2005, art. 33).
  12. Dunque, l’ordinamento esprime il principio secondo il quale la pena che ha titolo nel medesimo provvedimento giurisdizionale non può essere eseguita due volte, neppure in diversi Stati.
  13. L’ordinanza impugnata ha vagliato la legittimità del provvedimento del Tribunale di Targu Jiu, ritenendo che non lo fosse e che, di conseguenza, fosse stato legittimo il successivo provvedimento esecutivo della autori- tà giudiziaria italiana.
  14. Ora, nel caso in esame la prospettazione della parte è finalizzata unica- mente ad ottenere un accertamento dichiarativo della illegittimità, tota- le o parziale, dell’ordine di esecuzione emesso in data 8.1.2018 dal Procu- ratore della Repubblica presso il Tribunale di Pavia in quanto relativo al- l’esecuzione di una pena già espiata.
  15. Dunque, non ha rilievo la valutazione di legittimità del provvedimento giurisdizionale, nella specie quello della autorità giudiziaria rumena, che aveva, secondo la tesi del ricorrente, determinato la prima esecuzio- ne della pena, bensì unicamente il dato di fatto se l’esecuzione attivata dalla autorità giudiziaria italiana fosse relativa, anche solo in parte, a pena già espiata in Romania.
  16. Il principio del ne bis in idem con riguardo all’esecuzione penale consi- dera unicamente il dato storico dell’avvenuta esecuzione penale con ri- ferimento a un determinato titolo esecutivo, e non è condizionato dalla
  17. legittimità o meno del relativo provvedimento esecutivo.
  18. Il Procuratore generale, nelle sue conclusioni, ha evidenziato, tra i profi- li di illegittimità del provvedimento della autorità giudiziaria rumena, il fatto che fosse stata riconosciuta la continuazione tra reati giudicati in Stati diversi, con conseguente rideterminazione in melius della pena in- flitta dalla sentenza straniera.
  19. Tale rilievo, che il collegio non considera decisivo in quanto comunque relativo ad un profilo di legittimità del provvedimento straniero che non può essere in questa sede sindacato, evidenzia la complessità della valu- tazione che dovrà essere compiuta al fine di comprendere quale porzio- ne di pena, della originaria condanna inflitta dal Tribunale di Busto Ar- sizio, il Tribunale di Targu Jiu aveva posto in esecuzione ed era stata, poi, effettivamente espiata in Romania.
  20. Va chiarito, infatti, che, comunque, il provvedimento straniero – nel caso di specie, di riconoscimento della continuazione – non è efficace nell’or- dinamento italiano e quindi non incide sul giudicato “italiano” rideter- minando la pena inflitta, ma va considerato al fine di accertare se e in quale misura il condannato ha espiato all’estero pena che ha titolo nella condanna italiana.
  21. Il collegio, dunque, ritiene che debba essere affermato il principio secon- do cui “L’avvenuta espiazione, in tutto o in parte, all’estero di pena avente titolo in una decisione dell’autorità giudiziaria italiana va computata ai fini della esecuzione della relativa condanna, a prescindere dalla legitti- mità o meno del provvedimento dell’autorità giudiziaria straniera che ha disposto l’esecuzione.
  22. Di conseguenza, nel caso in cui il condannato deduca l’avvenuta espiazio- ne all’estero della pena, il giudice dell’esecuzione è tenuto ad accertare, anche mediante richieste di informazioni all’autorità giudiziaria stranie- ra, la storicità del dato dedotto dalla parte, senza poter sindacare la legit- timità del provvedimento straniero che aveva disposto l’esecuzione”.
  23. Dunque, va pronunciato annullamento dell’ordinanza impugnata con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di Pavia.
  24. In sede di rinvio, il giudice dell’esecuzione dovrà, applicando il principio di diritto affermato, accertare, per il tramite del Ministero della Giusti- zia, se, e in quale porzione, S.L. ha espiato in Romania la pena relativa alla condanna pronunciata in data 18.7.2012 dal Tribunale di Busto Arsi- zio, divenuta irrevocabile il 7.10.2015.
  25. P.Q.M.
  26. Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al Tribunale di Pavia.
  27. https://canestrinilex.com/risorse/pena-rideterminata-allestero-e-scontata-vincola-giudice-italiano-cass-1646221
La demolizione nell’abuso edilizio NON estingue SEMPRE il reato

La demolizione nell’abuso edilizio NON estingue SEMPRE il reato

Beni Ambientali.Spontanea rimessione in pristino

 DettagliCategoria principale: Beni AmbientaliCategoria: Cassazione PenalePubblicato: 19 Ottobre 2020Visite: 748

Cass. Sez. III n.26325 del 21 settembre 2020 (UP 3 lug 2020)
Pres.Andreazza Est. Semeraro Ric. Stallone
Beni Ambientali.Spontanea rimessione in pristino

La speciale causa estintiva, prevista dall’art. 181 comma 1-quinquies d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 opera a condizione che l’autore dell’abuso si attivi spontaneamente alla rimessione in pristino delle aree o degli immobili soggetti a vincolo paesaggistico, anticipando l’emissione del provvedimento amministrativo ripristinatorio. L’applicabilità di tale causa estintiva è subordinata al fatto che la rimessione in pristino da parte dell’autore dell’abuso sia spontanea e non eseguita su impulso dell’autorità amministrativa.  L’estinzione si ha, pertanto, solo quando non sia stata ancora disposta d’ufficio dalla P.A.; è necessario cioè che l’autore dell’abuso si attivi spontaneamente alla rimessione in pristino e, quindi, prima che la P.A. la disponga, perché l’effetto premiale può realizzarsi solo in presenza di una condotta che anticipi l’emissione del provvedimento amministrativo ripristinatorio.

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza del 26 giugno 2019 la Corte di appello di Palermo ha confermato la condanna inflitta a Gaetano Stallone ed Agata Indelicato dal Tribunale di Marsala alla pena di un mese di arresto ed € 57.000 di ammenda per i reati di cui agli artt. 95 d.P.R. 380/2001 (capo B), 181 comma 1-bis d.lgs. 42/2004 (capo C), 734 cod. pen. (capo D) per la costruzione di una sopraelevazione di 59 mq. e di una tettoria, alle spalle della sopraelevazione, di circa mq. 18, in zona sismica, senza il necessario preavviso e senza la necessaria autorizzazione, in zona vincolata senza autorizzazione paesistica, in zona di notevole interesse pubblico alterando le bellezze naturali. In Campobello di Mazara fino al 18 gennaio 2016.

2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore degli imputati.
2.1. Con il primo motivo si deduce il vizio della motivazione; la Corte di appello avrebbe erroneamente ritenuto che i ricorrenti abbiano demolito le opere per le quali hanno ottenuto la concessione in sanatoria del 17 marzo 2017; con tale concessione sarebbero stati sanati gli abusi commessi dal precedente proprietario dell’immobile e parte degli illeciti commessi dai ricorrenti, tra cui una scala in cemento armato. La corte territoriale avrebbe ritenuto erroneamente che i motivi di appello siano contraddittori. Vi sarebbe una evidente illogicità o contraddittorietà della motivazione della sentenza.
2.2. Con il secondo motivo si deduce il vizio della motivazione con riferimento al capo c), ex art. 181 comma 1-bis d.lgs. 42/2004. Sarebbe stata omessa la risposta al primo motivo di appello su tale capo.
2.3. Con il terzo motivo si deducono i vizi di violazione di legge e della motivazione in relazione al reato ex art. 734 cod. pen. 
La Corte di appello avrebbe erroneamente ritenuto che la concessione in sanatoria non abbia estinto il reato ex art. 734 cod. pen., in contrasto con quanto previsto dall’art. 39 comma 7 della legge 724/1994.
Mancherebbe poi la motivazione con riferimento al quarto motivo di appello relativo alla mancanza di motivazione della sentenza di primo grado sulla sussistenza di una permanente menomazione della bellezza del luogo e sulla concreta idoneità della condotta di deturpamento.
2.4. Con il quarto motivo si deduce la violazione dell’art. 181 comma 1- quinquies d.lgs. 42/2004. La Corte di appello avrebbe erroneamente ritenuto che, per aversi l’estinzione del reato, la demolizione avrebbe dovuto precedere la sentenza di condanna e l’emissione del provvedimento di demolizione da parte dell’autorità amministrativa. Invece, l’art. 181 comma 1-quinquies consentirebbe l’effetto estintivo, in caso di demolizione prima della sentenza di condanna, anche nel caso di demolizione successiva all’ingiunzione amministrativa.
La demolizione sarebbe avvenuta prima della citazione a giudizio e ciò emergerebbe dalla richiesta di dissequestro dell’immobile, presentata alla Procura della Repubblica di Marsala, per procedere alla demolizione delle opere.
2.5. Con il quinto motivo si deducono i vizi di violazione di legge e della motivazione sul rigetto della richiesta di applicazione dell’art. 131-bis cod. pen.; il rigetto sarebbe fondato sull’abitualità delle condotte.
I ricorrenti avrebbero invece dimostrato che le opere abusive realizzate al primo piano furono realizzate dal precedente proprietario (Antonino Bono) che il 30 giugno 1986 presentò l’istanza per la sanatoria.
Nessun procedimento per illeciti edilizi sarebbe sorto a carico degli imputati.
Inoltre, l’applicabilità dell’art. 131-bis cod. pen. deriverebbe dalla scarsa consistenza delle opere abusive con minima lesione dell’interesse protetto, anche a seguito della demolizione delle opere.
2.6. Con il sesto motivo si deduce il vizio della motivazione in relazione all’art. 95 d.P.R. 380/2001; la Corte di appello ha ritenuto che il reato ex art. 95 non possa essere dichiarato estinto poiché le opere abusive non sarebbero state sanate ma demolite. Invece, parte delle opere abusive sarebbero state sanate dal permesso di costruire n. 27 del 17 marzo 2017.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il primo motivo è manifestamente infondato.
Nella sentenza non vi è alcuna contraddittorietà: la corte territoriale ha chiaramente distinto le opere oggetto della concessione in sanatoria del marzo del 2017 – che non riguardano quelle oggetto del capo di imputazione (come invece ritenuto erroneamente dal Tribunale di Marsala, in relazione al capo a, ma confermato dai ricorrenti) – e quelle demolite, oggetto dell’imputazione (cfr. pagina 5 punto 5). Né l’eventuale erronea qualificazione dei motivi di appello come contraddittori inciderebbe sulla ratio decidendi.

2. Manifestamente infondati sono il secondo ed il quarto motivo: la Corte di appello ha esplicitamente motivato sulla sussistenza del reato di cui al capo c), ex art. 181 comma 1-bis d.lgs. 42/2004, valutando non solo la realizzazione delle opere in zona vincolata, senza il preventivo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, ma anche l’irrilevanza della demolizione eseguita non spontaneamente dagli imputati.
2.1. La demolizione è stata effettuata a seguito dell’emissione dell’ingiunzione alla demolizione, il 22 febbraio 2016, da parte del comune di Campobello di Mazara.
Orbene, va rilevato che è contestato agli imputati il reato di cui all’art. 181 comma 1-bis d.lgs. 42/2004, poiché l’opera è stata realizzata in area sottoposta a vincolo di notevole interesse pubblico con apposito provvedimento emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori, per cui non opera la causa estintiva di cui al comma 1-quinquies.
2.2. Va ribadito il principio per cui la rimessione in pristino delle aree o degli immobili assoggettati a vincolo paesaggistico, spontaneamente eseguita dal trasgressore, per la sua natura eccezionale, estingue solo il reato previsto dal comma primo e non dal comma 1-bis, dell’art. 181 del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (Sez. 3, n. 33542 del 19/06/2012, Cavaletto, Rv. 253139-01).
2.3. In ogni caso, anche ove si volesse ritenere che la condanna sia avvenuta per il comma 1 dell’art. 181 d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, la decisione della Corte di appello è corretta.
Infatti, la speciale causa estintiva, prevista dall’art. 181 comma 1-quinquies d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 – «La rimessione in pristino delle aree o degli immobili soggetti a vincoli paesaggistici da parte del trasgressore, prima che venga disposta d’ufficio dall’autorità amministrativa, e comunque prima che intervenga la condanna, estingue il reato di cui al comma 1» – opera a condizione che l’autore dell’abuso si attivi spontaneamente alla rimessione in pristino delle aree o degli immobili soggetti a vincolo paesaggistico, anticipando l’emissione del provvedimento amministrativo ripristinatorio: cfr. in tal senso Sez. 3, n. 37822 del 12/06/2013, Battistelli, Rv. 25651801.
Come osservato dalla sentenza Battistelli, l’applicabilità della speciale causa estintiva di cui all’art. 181 comma 1-quinquies è subordinata al fatto che la rimessione in pristino da parte dell’autore dell’abuso sia spontanea e non eseguita su impulso dell’autorità amministrativa. 
L’estinzione si ha, pertanto, solo quando non sia stata ancora disposta d’ufficio dalla P.A.; è necessario cioè che l’autore dell’abuso si attivi spontaneamente alla rimessione in pristino e, quindi, prima che la P.A. la disponga, perché l’effetto premiale può realizzarsi solo in presenza di una condotta che anticipi l’emissione del provvedimento amministrativo ripristinatorio. 
Se si fosse voluto far riferimento solo alla sentenza di condanna non avrebbe avuto alcun senso richiamare il provvedimento disposto d’ufficio dalla P.A.; il legislatore ha voluto porre l’accento sul carattere (necessariamente) spontaneo della rimessione in pristino per farne derivare l’effetto estintivo del reato.

3. Manifestamente infondato è il terzo motivo relativo al reato ex art. 734 cod. pen.: come chiaramente rilevato dalla Corte di appello, la concessione in sanatoria non si riferisce alle opere oggetto dell’imputazione sicché gli effetti non sono minimamente invocabili nel processo.
Contrariamente a quanto si afferma nel ricorso, vi è poi una esplicita motivazione da parte della Corte di appello sulla sussistenza del reato ex art. 734 cod. pen. per le dimensioni dell’opera, realizzata in sopraelevazione di altra abusiva, e non ancora condonata al momento della costruzione, in zona sottoposta a vincolo ambientale, a 500 metri dal mare.

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Delitto di calunnia ex art. 368 c.p., quale è l’elemento soggettivo richiesto per la punibilità?

Cassazione penale sez. VI, 27/04/2022, n.21632

L’accertamento del dolo nel reato di calunnia si attua mediante un processo logico deduttivo che, partendo dalle modalità esecutive dell’azione, risale alla sfera intellettiva e volitiva del soggetto

In tema di calunnia, l’elemento soggettivo, che deve estendersi alla consapevolezza di esporre al rischio di un procedimento penale l’accusato che si sa innocente, è evidenziato dalle concrete circostanze e dalle modalità esecutive che definiscono l’azione criminosa, dalle quali, con processo logico deduttivo, è possibile risalire alla sfera intellettiva e volitiva del soggetto ai fini dell’accertamento del dolo.

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza impugnata la Corte di appello di Lecce, in parziale riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Lecce, ha assolto T.G. dal reato di calunnia, limitatamente all’episodio del (OMISSIS) perché il fatto non sussiste, confermandone la condanna alla pena di anni due di reclusione, con il beneficio della sospensione condizionale, per gli altri episodi ascritti.

2. Propone ricorso per cassazione il difensore di fiducia di T.G., avv. Giovanni Ladisi, articolando quattro motivi di ricorso.

2.1 Con il primo motivo deduce i vizi di violazione di legge, di mancanza della motivazione in merito alla applicabilità dell’art. 49 c.p., ed alla configurabilità del reato in relazione all’episodio del (OMISSIS), nonché di contraddittorietà della motivazione nella parte in cui, da un lato, ha escluso la sussistenza del reato con riferimento allo scritto del (OMISSIS) e, dall’altro, ne ha ravvisato la sussistenza con riferimento agli altri scritti, pur essendo questi tra loro sovrapponibili in quanto relativi al medesimo fatto storico e rappresentanti identiche doglianze. La Corte territoriale ha omesso, inoltre, di valutare il fine perseguito dall’imputato (la valutazione della condotta del D.C.) ed il movente della sua condotta (l’avere subito un’ingiustizia) ed avrebbe dovuto, sulla base della connotazione di tale condotta, escluderne l’inidoneità, ravvisando un reato impossibile.

2.2 Con il secondo motivo deduce vizi cumulativi di violazione dell’art. 43 c.p. e di motivazione con riferimento all’elemento psicologico del reato avendo il T. agito nell’intima convinzione di avere subito un torto a nulla rilevando la sua qualifica professionale di dottore commercialista.

2.3 Con il terzo motivo deduce il vizio di violazione dell’art. 81 c.p., in relazione all’omessa rideterminazione del trattamento sanzionatorio a seguito dell’assoluzione dal reato commesso il (OMISSIS) non essendo rilevante, in difetto di impugnazione del Pubblico ministero, che il Giudice di primo grado abbia omesso di applicare l’aumento a titolo di continuazione.

2.4 Con il quarto motivo deduce i vizi cumulativi di violazione di legge e di motivazione in merito alla omessa concessione delle circostanze attenuanti generiche, non avendo i Giudici di merito considerato le dichiarazioni di rinuncia alle azioni giudiziali sottoscritte dalla persona offesa. 

DirittoCONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è inammissibile in quanto fondato su motivi, in parte, non consentiti e, in parte, generici e manifestamente infondati.

2. Ciò premesso, i primi due motivi, da esaminare congiuntamente in quanto tra loro logicamente connessi, sono inammissibili perché generici, meramente reiterativi dei medesimi motivi di appello e volti a sollecitare una diversa lettura delle risultanze processuali, estranea al perimetro del giudizio di legittimità.

Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, la calunnia è un reato di pericolo che si realizza con una condotta tale da creare il concreto rischio di inizio di un’indagine, sia che venga realizzata con una falsa denunzia che con la simulazione di tracce del reato. Non e’, quindi, necessario che vi sia l’effettivo avvio di un’indagine ma, laddove ciò non avvenga, occorre valutare se, nel caso concreto, la condotta fosse del tutto inidonea a creare il rischio di inizio di un procedimento penale come, ad esempio, allorché la falsa accusa abbia ad oggetto fatti manifestamente e a prima vista inverosimili o incredibili per le circostanze in cui è effettuata, per i modi in cui è espressa e per l’assoluta inattendibilità del suo contenuto, sì che l’accertamento della sua infondatezza non abbisogni di alcuna indagine. In tali casi l’azione si rivela sostanzialmente priva dell’attitudine a ledere gli interessi protetti, a norma dell’art. 49 c.p. (Sez. 6, n. 26177 del 17/03/2009, Vassura, Rv. 244357).

Ai fini della configurabilità del reato di calunnia non e’, dunque, necessario l’inizio di un procedimento penale a carico del calunniato, occorrendo soltanto che la falsa incolpazione contenga in sé gli elementi necessari e sufficienti per l’esercizio dell’azione penale nei confronti di una persona univocamente e agevolmente individuabile; cosicché soltanto nel caso di addebito che non rivesta i caratteri della serietà, ma si compendi in circostanze assurde, inverosimili o grottesche, tali da non poter ragionevolmente adombrare – perché in contrasto con i più elementari principi della logica e del buon senso – la concreta ipotizzabilità del reato denunciato, è da ritenere insussistente l’elemento materiale del delitto di calunnia (Sez. 2, n. 14761 del 19/12/2017, dep. 2018, Lusi, Rv. 272754; Sez. 6, n. 10282 del 22/01/2014, Romeo, Rv. 259268).

2.1 La sentenza impugnata ha fatto buon governo di tali coordinate ermeneutiche e, con motivazione immune da vizi logici o giuridici, ha chiarito la portata calunniosa degli esposti e della querela presentati dall’imputato in cui lo stesso ipotizzava diverse condotte criminose di cui si sarebbe reso responsabile il D.C., anche in concorso con il Giudice P., quali ad esempio, le false dichiarazioni a verbale rese con il “beneplacito del magistrato Pasculli”, l’abuso d’ufficio di quest’ultimo, ovvero le condotte di estorsione, atti persecutori e truffa di cui si sarebbe reso responsabile il D.C..

Esclusa, inoltre, l’inverosimiglianza o il carattere grottesco o assurdo del contenuto delle accuse, in quanto formulate in termini dettagliati e con richiami alla giurisprudenza di legittimità, la sentenza impugnata, con motivazione parimenti adeguata ed immune da vizi ha posto l’accento sulle competenze tecniche del ricorrente e sul contenuto delle accuse per ritenere sussistente la consapevolezza del T. della loro falsità e dell’innocenza della persona offesa.

Così facendo, ha fatto buon governo del principio di diritto già affermato da questa Corte, dal Collegio pienamente condiviso e ribadito, secondo cui in tema di calunnia, l’elemento soggettivo, che deve estendersi alla consapevolezza di esporre al rischio di un procedimento penale l’accusato che si sa innocente, è evidenziato dalle concrete circostanze e dalle modalità esecutive che definiscono l’azione criminosa, dalle quali, con processo logico deduttivo, è possibile risalire alla sfera intellettiva e volitiva del soggetto ai fini dell’accertamento del dolo (Sez. 6, n. 21204 del 03/04/2013, Cristofami, Rv. 255670).

E’ stato, infatti, chiarito che la consapevolezza del denunciante in merito all’innocenza dell’accusato è esclusa nel caso non ricorrente nella fattispecie in esame di cui la supposta illiceità del fatto denunziato sia ragionevolmente fondata su elementi oggettivi e seri tali da ingenerare dubbi condivisibili da parte di una persona, di normale cultura e capacità di discernimento, che si trovi nella medesima situazione di conoscenza (Sez. 6, n. 12209 del 18/02/2020, Abbondanza, Rv. 278753).

2.2 In considerazione della pluralità di denunce presentate in tempi diversi e presso diverse Autorità, nonché del loro contenuto, è stata, inoltre, legittimamente ravvisata una pluralità di reati. Va, al riguardo, ribadito, che la proposizione di plurime denunce contenenti false accuse depositate presso più autorità ed in luoghi distinti dà luogo ad una pluralità di reati, dovendosi escludere l’identità del fatto nel caso in cui la reiterazione della condotta avvenga con modalità spazio-temporali diverse (Sez. 6, n. 13416 del 08/03/2016, Pasquinelli, Rv. 267269).

2.3 Va, inoltre, aggiunto che, quanto allo scritto del 19 settembre, non sussiste un interesse concreto del ricorrente a dolersi della sua omessa valutazione posto che, pur essendo stata riconosciuta la continuazione tra i diversi episodi di calunnia, in concreto è stata applicata solo la pena base nel minimo edittale previsto dall’art. 368 c.p., cosicché, in caso di accoglimento della doglianza, potrebbero conseguire effetti in malam partem per il ricorrente con l’eventuale applicazione dell’aumento ai sensi dell’art. 81 c.p. per tale episodio criminoso.

3. Il terzo motivo è inammissibile in quanto manifestamente infondato. La Corte territoriale ha, infatti, correttamente giustificato la mancata riduzione del trattamento sanzionatorio in considerazione del fatto che il Giudice di primo grado aveva calcolato la sola pena base per il reato di calunnia, nel minimo edittale, senza operare alcun aumento a titolo di continuazione.

4. Anche il quarto motivo non supera il vaglio di ammissibilità in quanto aspecifico e privo di adeguato confronto con le argomentazioni della sentenza impugnata che ha escluso la sussistenza di elementi di segno positivo, ponendo, di contro, l’accento sull’assenza di alcuna forma di resipiscenza da parte del ricorrente.

Va, al riguardo, ribadito che il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche può essere legittimamente motivato dal giudice con l’assenza di elementi o circostanze di segno positivo, a maggior ragione dopo la riforma dell’art. 62-bis c.p., disposta con il D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito con modifiche nella L. 24 luglio 2008, n. 125, per effetto della quale, ai fini della concessione della diminuente, non è più sufficiente il solo stato di incensuratezza dell’imputato (Sez. 1, n. 39566 del 16/02/2017, Starace, Rv. 270986).

Le circostanze attenuanti generiche hanno, infatti, lo scopo di estendere le possibilità di adeguamento della pena in senso favorevole all’imputato, in considerazione di situazioni e circostanze che effettivamente incidano sull’apprezzamento dell’entità del reato e della capacità a delinquere del reo, sicché il riconoscimento di esse richiede la dimostrazione di elementi di segno positivo (cfr. Sez. 2, n. 9299 del 07/11/2018, dep. 2019, Villani, Rv. 275640).

5. L’inammissibilità dei motivi di ricorso, non consentendo il formarsi di un valido rapporto di impugnazione, preclude la possibilità di rilevare e dichiarare la prescrizione del reato maturata successivamente alla sentenza impugnata (Sez. U., n. 32 del 22/11/2000, Rv. 217266).

All’inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. Inoltre, il ricorrente va condannato al pagamento della somma di Euro tremila da versare in favore della Cassa delle Ammende, non potendosi ritenere che lo stesso abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. n. 186 del 2000). 

PQMP.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, il 27 aprile 2022.

Depositato in Cancelleria il 3 giugno 2022

Confisca diretta del denaro sul conto corrente e prova della sua derivazione da un titolo lecito: depositata la sentenza delle Sezioni Unite (42415/2021)

Confisca diretta del denaro sul conto corrente e prova della sua derivazione da un titolo lecito: depositata la sentenza delle Sezioni Unite (42415/2021)

Confisca conto corrente Sezioni Unite di Cassazione

Cassazione Penale, Sezioni Unite, 18 novembre 2021 (ud. 27 maggio 2021), n. 42415
Presidente Cassano, Relatore Mogini

Con ordinanza n. 7021/2021 era stata rimessa alle Sezioni unite la seguente questione di diritto: «se il sequestro delle somme di denaro giacenti su conto corrente bancario debba sempre qualificarsi finalizzato alla confisca diretta del prezzo del profitto derivante dal reato anche nel caso in cui la parte interessata fornisca la prova della derivazione del denaro da un titolo lecito».

Con sentenza numero 42415, depositata il 18 novembre 2011, le Sezioni Unite hanno affermato il seguente principio di diritto: «qualora il prezzo o il profitto derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca viene eseguita, in ragione della natura del bene, mediante l‘ablazione del denarocomunque rinvenuto nel patrimonio del soggetto, che rappresenti l’effettivo accrescimento patrimoniale monetario da quest’ultimo conseguito per effetto del reato; tale confisca deve essere qualificata come confisca diretta, e non per equivalente, e non è ostativa alla sua adozione l’allegazione o la prova dell’origine lecita del numerario oggetto di ablazione».

La questione rimessa all’esame delle Sezioni Unite è la seguente: “se il sequestro delle somme di denaro giacenti su conto corrente bancario debba sempre qualificarsi come finalizzato alla confisca diretta del prezzo o profitto derivante dal reato anche nel caso in cui la parte interessata fornisca la “prova” della derivazione del denaro da titolo lecito”.

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conseguenze denuncia omissione di soccorso

Conseguenze denuncia per Omissione di soccorso
Le conseguenze di una denuncia per omissione di soccorso spesso vengono rapportate al caso tipico ed intuitivo del soggetto che non si fermi a prestare soccorso a seguito di un incidente stradale.

In realtà il reato di omissione di soccorso è una figura più ampia, che ha come elemento fondamentale e costitutivo la condizione di pericolo in cui versa un soggetto al quale, per tale ragione, debba essere prestata assistenza ed immediato aiuto.

Pertanto può trattasi di un bambino minore di anni dieci; di un soggetto che per vecchiaia o infermità non sia capace di provvedere a sé stesso; di una persona che sia ferita oppure sembri inanimata o comunque si trovi in una condizione di pericolo: in tutti questi casi, qualora si ometta di prestare soccorso o di avvisare immediatamente le Autorità, si potrà essere chiamati a rispondere del reato di omissione di soccorso.

Una denuncia per omissione di soccorso avrà come prima conseguenza l’apertura di un procedimento penale a carico del denunciato, trattandosi di reato procedibile d’ufficio.

All’esito del successivo processo penale, che si svolgerà innanzi al Tribunale penale in composizione monocratica, i rischi che il soggetto denunciato per omissione di soccorso potrà correre in caso di condanna saranno diversi a seconda delle conseguenze che abbia prodotto il reato compiuto.

Se infatti nel caso base la conseguenza, in termini sanzionatori, di una denuncia per omissione di soccorso sarà la pena della reclusione fino ad un anno o della multa fino ad Euro 2.500,00, qualora dal reato sia derivata una lesione personale in danno della vittima la pena sarà aumentata; qualora invece dal reato di omissione di soccorso sia derivata la morte del soggetto che si trovava nella condizione di pericolo la pena prevista per l’ipotesi base sarà raddoppiata.

Inoltre se la vittima del reato si dovesse costituire parte civile nel procedimento penale, e solo nel caso in cui il denunciato venga riconosciuto colpevole, quale ulteriore rischio di una denuncia per omissione di soccorso vi sarà la possibilità di essere condannati al risarcimento del danno cagionato, attraverso la condotta illecita, alla persona offesa dal reato

conseguenze denuncia per truffa

Conseguenze denuncia per Truffa
La Truffa è tra i reati maggiormente conosciuti anche da coloro che nella vita non si occupano di questioni di giustizia, e di frequente nelle Aule di Tribunale si assiste alla celebrazione di processi per tale reato: ma quali sono le conseguenze e i rischi di una denuncia per il reato di Truffa ?

Con il delitto di Truffa viene punito il soggetto che, con artifici e raggiri, abbia ingannato la vittima del reato, inducendola in errore al fine di procurare per sé o altri un ingiusto profitto (solitamente un atto di disposizione patrimoniale indebito da parte della persona offesa).

E’ bene premettere che il reato di Truffa “semplice” (ovvero senza la presenza di circostanze aggravanti) è procedibile a querela di parte, motivo per cui una semplice denuncia (atto ben differente dalla querela) non porterà neanche all’instaurazione di un procedimento penale.

Qualora invece il reato di Truffa si presenti in forma aggravata (da una circostanza specificamente dettata per tale reato dall’art. 640 del Codice penale o da una circostanza cosiddetta “comune”) sarà procedibile d’ufficio, e quindi la denuncia per Truffa avrà come conseguenza l’apertura di un procedimento penale a carico dell’accusato.

Terminate le indagini preliminari il Pubblico Ministero potrà citare a giudizio il responsabile per rispondere del reato in oggetto: il processo penale si svolgerà innanzi al Giudice monocratico del Tribunale penale competente in relazione al luogo di commissione del reato.

Anche a livello di pena applicabile al colpevole le conseguenze e i rischi di una denuncia per Truffa variano in relazione alla presenza o meno delle aggravanti speciali previste dall’art. 640 del Codice penale; per il caso di Truffa “semplice” (non aggravata) o aggravata da circostanze di natura comune (quelle dettate dall’art. 61 del Codice penale per tutti i reati), la pena applicabile sarà la reclusione da sei mesi a tre anni e la multa da Euro 51 a Euro 1.032.

Invece, per le ipotesi di truffa aggravata dalle specifiche circostanze di cui al capoverso dell’art. 640 del Codice penale, la pena prevista è quella della reclusione da uno a cinque anni e della multa da Euro 309 a Euro 1.549.

Tra le possibili conseguenze di una denuncia per il reato di Truffa vi è la possibilità di essere condannati (solo nel caso in cui la vittima del reato di costituisca parte civile nel processo penale e l’imputato venga riconosciuto colpevole del delitto di Truffa) al risarcimento dei danni cagionati alla persona offesa con il reato commesso.

Nella maggior parte dei casi si tratta quanto meno della restituzione delle somme indebitamente erogate a causa del reato di truffa (ovvero l’ingiusto profitto conseguito dal reo) oltre alla liquidazione di una somma a titolo di ristoro dei danni di natura non patrimoniale (cosiddetto danno morale) subito dalla vittima del reato.