DELITTI CONTRO LA P.A.: RESISTENZA A PUBBLICO UFFICIALE

In via preliminare, si osserva che la fattispecie penale incriminatrice della resistenza a pubblico ufficiale è da considerare come un delitto di medio allarme sociale. Tuttavia, l’allarme sociale generato e prodotto dal predetto reato può, talvolta, crescere ulteriormente ed essere, quindi, il presupposto, l’antefatto per la realizzazione di più gravi reati quali ad esempio l’omicidio.

Il legislatore penale colloca la resistenza a un pubblico ufficiale nel libro II del codice penale, nel titolo II (Dei delitti contro la pubblica amministrazione), nel Capo II (Dei delitti dei privati contro la pubblica amministrazione). Pertanto, l’articolo 337 del vigente codice penale stabilisce che: “Chiunque usa violenza o minaccia per opporsi a un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio, mentre compie un atto di ufficio o di servizio, o a coloro che, richiesti, gli prestano assistenza, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni”.

Si tratta di un reato comune, giacché può essere commesso da una qualsiasi persona fisica, di danno , in quanto richiede l’offesa in senso naturalistico del bene protetto, di mera condotta ed a forma libera, poiché può essere realizzato con qualsiasi condotta idonea al raggiungimento dello scopo. Inoltre, il tentativo è pienamente configurabile.

Il soggetto passivo del reato in commento può essere un pubblico ufficiale[1], un incaricato di un pubblico servizio ovvero chiunque, da questi richiesto, presti loro assistenza. Tuttavia, si deve correttamente rilevare che non rientrano fra i soggetti passivi gli esercenti un servizio di pubblica necessità (ad esempio gli avvocati).

In tema di resistenza a pubblico ufficiale il bene giuridico protetto è quello della sicurezza e della libertà di azione, di movimento del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio contro specifici fatti di opposizione violenta. In particolare, per la configurabilità dell’elemento materiale della violenza nel reato di resistenza a pubblico ufficiale non è necessario che la condotta violenta ponga in pericolo l’integrità fisica del soggetto passivo, poiché il delitto di cui all’articolo 337 c.p. è un reato contro la Pubblica Amministrazione e non contro la persona. Infatti, è sufficiente l’esistenza di una condotta idonea ad impedire l’esecuzione dell’atto di ufficio. Si ritiene che la materialità del delitto di resistenza al pubblico ufficiale sia integrata pure dalla violenza cosiddetta impropria, la quale, pur non aggredendo direttamente il predetto soggetto, si ripercuote sfavorevolmente nell’esplicazione della relativa funzione pubblica, impedendola o semplicemente ostacolandola.

Inoltre, la condotta penalmente rilevante deve intendersi rappresentata da qualunque attività commissiva od omissiva che si trasponga in un atteggiamento, anche talora implicito, purché percepibile “ex adverso”, che impedisca, ostacoli, intralci ed valga a compromettere, anche solo parzialmente e temporaneamente la regolarità del compimento dell’atto di ufficio o di servizio da parte del pubblico ufficiale o dell’ incaricato di un pubblico servizio. Dalla lettura della norma viene in evidenza che l’atto dell’ufficio o del servizio deve aver avuto almeno un principio di esecuzione. Infatti, l’utilizzazione normativa dell’avverbio “mentre” determina la necessaria contestualità tra la resistenza e l’attività del pubblico funzionario.

Tuttavia, non ogni reazione minacciosa è valida ad integrare il reato in commento. Infatti, non integra il reato di cui all’art. 337 codice penale la reazione minacciosa posta in essere nei confronti del pubblico ufficiale dopo che questi abbia già svolto l’atto del proprio ufficio e senza, dunque, la finalità di opporvisi. (Cassazione penale, sezione VI, sentenza 2 marzo 2011, n. 8340) Inoltre, estranea ai confini della condotta violenta o minacciosa è la cosiddetta resistenza passiva consistente in comportamenti meramente difensivi quali buttarsi a terra o rifiutarsi di obbedire, anche nel caso in cui il pubblico ufficiale sia costretto ad adoperare violenza per vincerla (si veda in tal senso la Cassazione penale, Sezione VI sentenza 06 novembre 2012 n. 10136).

Il coefficiente psicologico[2] ricercato è il dolo specifico[3], in quanto oltre alla coscienza e volontà della violenza o minaccia è richiesta l’ulteriore finalità di impedire che l’agente pubblico esegua l’atto del suo ufficio. Tuttavia, si deve osservare che nel reato in commento sono estranei, per l’individuazione dell’elemento soggettivo, la causa ed il fine del soggetto del reato.

Secondo un importante insegnamento del Supremo Collegio, l’elemento intenzionale del delitto di resistenza a pubblico ufficiale si concreta nella coscienza e volontà dell’agente di usare violenza o minaccia per opporsi al soggetto tutelato mentre sta compiendo o si sta adoperando per compiere il proprio atto d’ufficio o di servizio, senza che abbia rilevanza il fatto che la violenza o minaccia cada su cose anziché sulle persone, quando essa sia idonea ad impedire o, comunque, turbare od ostacolare l’attività funzionale del pubblico ufficiale. (Cassazione penale, sezione VI, sentenza del 27 maggio 1986 nr. 4325) In sostanza, il predetto principio di diritto, correttamente enucleato dalla Cassazione, chiarisce che per la realizzazione ed il perfezionamento del reato in commento è indifferente che la condotta antigiuridica della violenza o della minaccia avvenga ed cada su cose piuttosto che sulle persone.

Nel reato di resistenza a pubblico ufficiale l’elemento psicologico consiste nella coscienza e volontà di precludere al pubblico ufficiale con una condotta minacciosa e violenta l’atto d’ufficio ritenuto pregiudizievole per i propri interessi. Ne consegue che risponde del reato su indicato colui il quale abbia nei confronti di un vigile urbano in servizio e che gli richieda dei documenti per l’identificazione una condotta tanto violenta da produrgli delle lesioni personali. (Cassazione penale, sezione VI, sentenza 14 marzo 1986, n. 2089)

La resistenza a pubblico ufficiale è, purtroppo, un reato molto diffuso e di frequente verificazione nell’attuale società civile. Si pensi, solo per fare un esempio, alla condotta del conducente di un automezzo che, senza fermarsi all’alt degli agenti di un organo di polizia stradale, decida di speronare violentemente ed a forte velocità l’autovettura di servizio degli agenti di polizia proprio al fine di non consentire loro l’espletamento di un atto d’ufficio.

Inoltre, desta particolare interesse per la sua portata chiarificatrice una sentenza della Corte di Cassazione che affronta la problematica del reato continuato , del concorso formale di reati ed anche quella del rapporto fra il tentato omicidio e la resistenza a pubblico ufficiale. Il giudice delle leggi, in riferimento a quanto esposto in precedenza, ha stabilito che : “Il reato di resistenza a pubblico ufficiale assorbe soltanto quel minimo di violenza necessario per impedire al pubblico ufficiale il compimento di un atto del suo ufficio, mentre l’omicidio, travalicando detto limite, attenta direttamente alla vita od all’incolumità del soggetto passivo; i due reati possono concorrere, stante la diversità dei beni giuridici tutelati e le differenze qualitative e quantitative della violenza esercitata contro il pubblico ufficiale”. Nella predetta fattispecie la Suprema Corte ha opportunamente ed correttamente ravvisato il concorso formale tra i reati di resistenza a pubblico ufficiale e tentato omicidio nella condotta dell’indagato che, in fuga a bordo di un’autovettura appena rapinata, aveva a più riprese tentato di investire la motocicletta a bordo della quale due agenti di P.G. lo inseguivano. (Cassazione penale, sezione II, sentenza 18 ottobre 2007, n. 38620).

Si osserva, nuovamente, che nella resistenza a pubblico ufficiale può essere applicato anche l’istituto giuridico del reato continuato (art. 81 c.p.). Infatti, la plurima violazione della legge penale può avere ad oggetto la stessa norma prevista dall’articolo 337 c.p. Pertanto, solo per fare un esempio, qualora la pubblica funzione sia esercitata da una pluralità di pubblici ufficiali o incaricati di un pubblico servizio attraverso singole azioni che si integrano a vicenda, la pluralità delle contrapposte reazioni minacciose o violente con cui l’autore della resistenza intenda bloccare le predette complesse funzioni rientra nel paradigma del reato continuato.

Inoltre, merita di essere brevemente trattato anche il profilo del concorso di persone nel reato. Proprio in riferimento a quest’ultimo punto, si osserva che la mancanza del previo concerto non condiziona la configurabilità del concorso di persone nel reato, essendo sufficiente l’intesa anche spontanea intervenuta nel corso dell’esecuzione del fatto criminoso.

In riferimento ai rapporti che intercorrono con altre fattispecie penali incriminatrici molto interessante ed articolato si presente il seguente principio di diritto: “Quando la violenza esercitata, per assicurarsi il possesso della cosa oggetto del reato di rapina o l’impunità, nei confronti del pubblico ufficiale, al fine di opporsi mentre compie un atto dell’ufficio, eccede il fatto di percosse e volontariamente provoca lesioni personali, si determina il concorso tra i delitti di rapina e resistenza e quello di lesioni, e per quest’ultimo sussiste l’aggravante della connessione teleologica, a nulla rilevando che reato – mezzo e reato – fine siano integrati dalla stessa condotta materiale”. (Cassazione penale, sezione II, sentenza 18 luglio 2005 nr. 26435)

Sempre in riferimento ai rapporti con altri reati la giurisprudenza di legittimità ha enucleato il seguente principio di diritto : “È configurabile il reato di resistenza a pubblico ufficiale, e non quello previsto dall’art. 336 c.p., nella condotta di colui che minaccia un agente di polizia per opporsi all’esecuzione di un sequestro, quando dopo l’apprensione materiale della res sia ancora necessario provvedere alla compilazione degli atti conseguenti al sequestro”. (Cassazione penale, sezione VI, 10 ottobre 2008, n. 38566)

Orbene, sulla base della precedente riflessione e considerazione, si osserva che è proprio il criterio cronologico che differenzia la resistenza a p.u. dalla violenza o minaccia a p.u. Infatti quando l’atto attende ancora di essere compiuto (prima dell’inizio della sua esecuzione) è possibile il delitto di violenza o minaccia mentre, invece, quando l’atto è iniziato (in via di compimento) e sino al termine della sua esecuzione è possibile il delitto di resistenza.

Restano ancora da analizzare alcune brevi note procedurali per il reato in commento. Si tratta di un reato procedibile d’ufficio che è di competenza del Tribunale in composizione monocratica (art. 33 – ter c.p.p.) ; la misura pre-cautelare dell’arresto[4] è facoltativa mentre, invece, il fermo di persona indiziata di delitto non è consentito. Inoltre, la misura cautelare della custodia cautelare in carcere è consentita al pari di tutte le altre misure cautelari personali. L’azione penale si esercita con il decreto di citazione diretta a giudizio e l’udienza preliminare non è prevista. Il reato si prescrive nel termine di sei anni e la declaratoria di non punibilità per tenuità del fatto risulta essere possibile.

Al delitto di resistenza a pubblico ufficiale si applica, altresì, l’esimente di cui all’articolo 393-bis c.p. (Causa di non punibilità). Infatti, secondo l’insegnamento della Cassazione Penale, sezione VI, sentenza 14 aprile 2011, n. 18841, è configurabile l’esimente della reazione ad atti arbitrari del pubblico ufficiale qualora il privato opponga resistenza al pubblico ufficiale che pretenda di sottoporlo a perquisizione personale finalizzata alla ricerca di armi e munizioni in assenza di elementi obiettivi idonei a giustificare l’atto, e dopo averlo accompagnato coattivamente in caserma in ragione del precedente rifiuto non già di declinare le generalità, ma di esibire i documenti di identità. In sintesi, la causa di non punibilità, di cui all’articolo 393 bis c.p., deve essere applicata ogni qual volta il pubblico ufficiale, l’incaricato di un pubblico servizio ovvero il pubblico impiegato abbiano dato causa al fatto previsto dall’articolo 337 c.p., eccedendo con degli atti arbitrari i limiti delle loro proprie attribuzioni di legge.

In ultima analisi, si osserva come sussiste l’elemento soggettivo del delitto di resistenza a pubblico ufficiale allorchè l’autore del fatto sia consapevole che il soggetto contro il quale è diretta la violenza o la minaccia rivesta la qualità di pubblico ufficiale e stia svolgendo un’attività del proprio ufficio. (Cassazione penale, sezione VI, sentenza 16 aprile 2004, n. 17701)

(A cura del Dott. Alessandro Amaolo, Specializzato nelle Professioni Legali con indirizzo Giudiziario – Foresnse ed abilitato all’esercizio della professione di avvocato presso la Corte di Appello di Ancona)

[1] Le guardie giurate, ancorché in servizio presso pubbliche amministrazioni, svolgono esclusivamente compiti di tutela delle entità patrimoniali affidate alla loro sorveglianza e non possono assumere, pertanto, la qualità di pubblici ufficiali o di incaricati di pubblico servizio quando intervengano, al di fuori delle loro attribuzioni istituzionali, per sedare una lite insorta fra un privato ed un pubblico dipendente. Infatti, nella predetta fattispecie la Suprema Corte ha escluso la configurabilità del reato di cui all’art. 337 c.p. (Cassazione penale, sezione VI, sentenza 05 dicembre 2008, n. 45444)

[2] Nel delitto di resistenza a pubblico ufficiale, l’elemento psicologico consiste nella coscienza e volontà di precludere, con la propria condotta minacciosa o violenta, la possibilità di compiere l’atto di ufficio ritenuto pregiudizievole ai propri interessi. (Cassazione penale, sezione VI, sentenza 5 febbraio 1988, n. 1506)

[3] In tema di resistenza a pubblico ufficiale il dolo specifico si concreta nella coscienza e volontà di usare violenza o minaccia al fine di opporsi al compimento di un atto dell’ufficio, mentre del tutto estranei sono lo scopo mediato ed i motivi di fatto avuti di mira dall’agente. (Cassazione penale, sezione VI, sentenza 25 agosto 1995, n. 9119)

[4] In tema di arresto facoltativo in flagranza, il controllo, che il giudice che procede alla convalida dell’arresto è tenuto a compiere ai sensi dell’art. 391 c.p.p., deve limitarsi all’accertamento delle condizioni di legittimità dell’arresto stesso (quali la flagranza del reato e i presupposti indicati dagli artt. 385 e 386 cod. proc. pen.), non potendosi estendere alla verifica dei presupposti per l’affermazione di responsabilità, che, per la complessità dei canoni di riferimento, deve ritenersi riservata al giudice della cognizione. (Cassazione penale, sezione VI, sentenza 17 febbraio 2009, n. 6878)

Un precedente non basta per negare la messa alla prova

Corte di cassazione – Sezione IV – Sentenza 3 febbraio 2016 n. 4526. Il giudice non può negare la sospensione del processo con messa alla prova solo sulla base di un precedente penale. La Cassazione, con la sentenza 4526 depositata ieri, accoglie un ricorso contro l’ordinanza con la quale il Tribunale, anche il virtù del parere contrario del Pubblico ministero, rigettava la richiesta di messa alla prova (legge 67/2014). Un no motivato dall’esistenza di “una recidiva specifica infra-quinquennale” che, secondo i giudici di primo grado, rendeva impossibile dare il via libera all’utilizzo del nuovo istituto.
La Suprema corte però la pensa diversamente. La Cassazione ricorda i tratti salienti della norma che, ai sensi dell’articolo 167 bis del codice penale, si può applicare ai reati con un tetto di pena di 4 anni, o ai delitti citati dall’articolo 550 del codice di rito:?dalla rissa aggravata al furto aggravato, dalla resistenza al pubblico ufficiale alla violazione di sigilli. Il via libera alla sospensione del procedimento, in vista dell’affidamento al servizio sociale e dello svolgimento di un lavoro di pubblica utilità, è disposto dal giudice che “in base ai parametri dettati dall’articolo 133 del codice civile, reputa idoneo il programma di trattamento presentato e ritiene che l’imputato si asterrà dal commettere altri reati”.
L’articolo 133 del codice penale elenca gli indici rivelatori della gravità del reato che il giudice deve valutare per aprire o meno alla messa alla prova. Fra questi ci sono la natura del crimine commesso, la gravità del danno arrecato alla vittima, il grado di colpa o l’intensità del dolo. Sempre lo stesso articolo sposta poi l’attenzione sulla capacità di delinquere, che va desunta: dal carattere del reo, dai motivi che lo hanno spinto a “trasgredire”, dalle sue condizioni di vita familiare e sociale e dai precedenti penali e giudiziari. Nel caso esaminato il Tribunale – sottolinea la Cassazione – ha respinto la richiesta dell’imputato prendendo in considerazione solo il precedente penale. Ma il riferimento ad uno solo dei molteplici indici previsti dal codice non basta a legittimare il no.

Reati fallimentari: nessun obbligo di consegna al curatore delle scritture contabili da parte dell’ex amministratore della società fallita. Necessaria la prova dell’intenzionalità del liquidatore di omettere la consegna della contabilità al curatore

Tribunale di Milano, Sez. I, 11 gennaio 2018
Presidente Fazio, Estensore Rizzi

Con la sentenza in commento, la prima sezione penale del Tribunale di Milano affronta due delicati temi in relazione alla tenuta delle scritture contabili della società fallita e all’obbligo di consegna delle stesse al curatore.

Si tratta in particolare: i) dell’insussistenza, in capo all’amministratore cessato in epoca precedente la declaratoria di insolvenza, dell’obbligo di consegna dei libri contabili al curatore; ii) della necessità di provare la volontà – in capo al liquidatore in carica all’atto del fallimento – di non consegnare la contabilità al curatore.

Il Tribunale di Milano, accogliendo le richieste delle difese, ha assolto tutti gli imputati dal reato di bancarotta fraudolenta documentale, in particolare – per l’amministratore delegato cessato – per non aver commesso il fatto, per il liquidatore in carica alla data della dichiarazione di fallimento perché il fatto non costituisce reato.

Con riguardo all’imputazione formulata a carico di tali imputati, l’accusa contestava la mancata consegna di tutta la contabilità sociale al curatore fallimentare ritenendo gravante tale obbligo sia sul liquidatore in carica al momento della dichiarazione di fallimento sia sull’amministratore da tempo cessato.

Più nello specifico uno degli amministratori, cessato dalla carica oltre un anno prima rispetto alla dichiarazione di fallimento, è risultato comunque imputato del reato di bancarotta fraudolenta documentale posto che, secondo la tesi dell’accusa, gravava anche su di esso l’obbligo di consegna delle scritture contabili al curatore nonostante la società fosse stata dichiarata fallita dal Tribunale di Milano oltre un anno dopo la cessazione del medesimo da ogni incarico.

Quanto, invece, alla posizione del liquidatore in carica al momento della declaratoria di insolvenza, l’accusa ne ha richiesto la condanna per non avere, anch’esso, provveduto alla consegna delle scritture contabili al curatore pur essendone obbligato.

Per la posizione dell’amministratore cessato prima della dichiarazione di fallimento i giudici meneghini, con la sentenza in commento, osservano che “…quanto al contestato delitto di bancarotta fraudolenta documentale, giova, innanzitutto, evidenziare che non è ravvisabile alcun obbligo di consegna al curatore delle scritture contabili in capo all’ex amministratore della società (cfr. Cass. 21818/2017).

Pertanto, la condotta penalmente rilevante può essere addebitata esclusivamente a colui che ricopre la carica di amministratore della società al momento della dichiarazione di fallimento della stessa, mentre per poter ritenere sussistente una responsabilità per bancarotta documentale di colui che ha formalmente rivestito la condotta di amministratore in una fase precedente, è necessario che sia contestato e provato che lo stesso fosse anche amministratore di fatto nell’ultima fase di vita della società o che abbia concorso, in qualità di extraneus, nel fatto dell’intraneus (amministratore della società al momento del fallimento) con la consapevolezza di determinare un depauperamento del patrimonio sociale ai danni dei creditori (cfr. Cass. 21818/2017 cit.)

Secondo il Tribunale, confortato dal precedente giurisprudenziale della Suprema Corte richiamato, non può dunque invocarsi alcun obbligo di consegna delle scritture contabili a carico dell’amministratore cessato, fatto salvo che non si provi che il soggetto in questione, al di là della perdita formale della qualifica di amministratore di diritto, né abbia assunto, sino alla data del fallimento, quella di fatto piuttosto che concorso nel reato in qualità di extraneus.

Pertanto in capo all’amministratore di una società che sia “effettivamente” cessato da tale carica e che non abbia successivamente concorso nel reato come “extraneus” non grava alcun dovere di conservazione della documentazione contabile né un obbligo di consegna della stessa al curatore, in quanto la relativa posizione di garanzia incombe – in via esclusiva – sul soggetto che rivesta la carica di amministratore (piuttosto che di liquidatore) al momento della dichiarazione di fallimento.

Per quanto concerne la posizione del liquidatore, poi, il Tribunale, pur avendo accertato che il medesimo avesse ricevuto almeno parte della documentazione contabile della società, ha ritenuto del tutto insussistente il dolo specifico previsto dalla norma, in quanto assente la prova che il medesimo fosse animato dall’intenzione di nascondere la contabilità “al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto”.

E ciò per due motivi: innanzitutto perché non era emerso nel corso del dibattimento che il liquidatore avesse intrattenuto prima della sua nomina rapporti con la società fallita; secondariamente in quanto, nella fattispecie, il liquidatore era stato nominato quando ormai la liquidazione era pressoché completata, per cui era evidente che non potesse avere alcun interesse a non consegnare o ad occultare i documenti contabili.

Ne conseguiva un’assoluzione dell’amministratore cessato per non aver commesso il fatto e del liquidatore perché il fatto non costituisce reato.

La pronunzia in esame assume interesse con riguardo alla posizione del liquidatore essendo pacifico che all’amministratore “realmente” cessato prima della dichiarazione di fallimento (fatte salve le eccezioni formulate dal Tribunale di Milano con riferimento all’amministratore di fatto o al concorso dell’extraneus nel reato proprio) non competa alcun obbligo di consegna dei documenti al curatore gravando, in capo al medesimo, unicamente il passaggio di consegne a favore del nuovo amministratore o liquidatore.

Correttamente affermano i giudici milanesi che la garanzia di consegna delle scritture contabili si pone a tutela certamente della ricostruzione del patrimonio sociale e del movimento degli affari dell’impresa fallita ma affinché si possa ritenere consumato il più grave reato di bancarotta documentale è necessario che qualsiasi manipolazione delle stesse, finanche la mancata consegna o l’occultamento, abbiano come finalità quella di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori.

Il dolo specifico così tracciato dalla sentenza in commento – il cui onere probatorio grava sull’accusa – può ritenersi integrato unicamente qualora si pervenga alla dimostrazione che il liquidatore non si sia limitato ad operare nella fase terminale di chiusura della società ma che, in realtà, avendo interessi personali o di terzi da tutelare, si sia anzitempo ingerito nell’attività gestoria.

Tali circostanze costituiscono la presunzione che la finalità perseguita fosse proprio quella di avvantaggiare sé od altri piuttosto che arrecare pregiudizio ai creditori.

Ebbene, nel caso sottoposto al Tribunale di Milano con la sentenza in commento, è stato dimostrato che il liquidatore, pur avendo omesso in tutto la consegna della contabilità, prima della sua nomina non aveva intrattenuto alcun rapporto con la società fallita ed i suoi soci e amministratori.

Un’altra circostanza ritenuta fondamentale ai fini della dimostrazione dell’insussistenza dell’elemento psicologico del reato è da rinvenirsi nel momento in cui liquidatore era stato nominato ovvero quando di fatto la liquidazione era terminata.

Pertanto la mera posizione di legale rappresentante all’atto del fallimento della società non comporta sic et simplciter la penale responsabilità ex art. 216 comma 1 l. fall. ma occorre un quid pluris costituito dalla dimostrazione, al di là di ogni ragionevole dubbio, che l’agente abbia agito con l’intento di porre in essere una condotta lesiva degli interessi dei creditori o, a maggior ragione, atta a nascondere propri o altrui vantaggi.

Dunque non un ruolo di garanzia ma un abuso della propria posizione e dei propri doveri.

In caso di revoca della sentenza di condanna per abolizione del reato deve revocarsi anche la misura della confisca

Cass. pen, Sez. III (ud. 12 gennaio 2018) 21 febbraio 2018, n. 8421
Presidente Savani, Relatore Macrì, P.G. Mazzotta

Alleghiamo di seguito una pronuncia interessante che chiarisce gli effetti del fenomeno di abolitio criminis.

Nel caso di specie, un soggetto condannato nel 2014 per fatti di omesso versamento IVA (art. 10 ter D. lgs. 74/2000) aveva formulato incidente di esecuzione ex artt. 666 e 673 c.p.p., chiedendo la revoca della sentenza, in virtù della parziale abolizione del reato derivante dall’innalzamento delle soglie di punibilità operato dal D. lgs. 158/2015 (quest’ultimo provvedimento normativo era stato a suo tempo commentato da questa Rivista, ivi).

Il Giudice dell’esecuzione aveva deciso la revoca della sentenza perché il fatto non era più previsto dalla legge come reato, ciò che aveva determinato anche la cessazione dell’esecuzione della pena e degli effetti penali, tra cui le spese processuali e di sequestro.

Tuttavia, lo stesso Giudice aveva escluso l’applicabilità dell’art. 673 c.p.p. a quella parte della sentenza che aveva disposto la confisca per equivalente ai sensi dell’art. 322 ter c.p., e ciò in quanto tale misura era già stata eseguita e vi era già stata “l’acquisizione del bene a titolo originario in favore del patrimonio dello Stato”.

Orbene, con la pronuncia allegata la Cassazione ha annullato l’ordinanza disponendo la restituzione all’avente diritto di quanto confiscato.

Nella parte motiva, la Corte ha anzitutto ricordato (i.) che l’art. 2 comma 2 c.p. stabilisce che se v’è stata condanna ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali, (ii.) che l’art. 210 comma 1 c.p. dispone che l’estinzione del reato impedisce l’applicazione delle misure di sicurezza e ne fa cessare l’esecuzione, (iii.) e che l’art. 673 c.p.p. prevede che, in caso di abrogazione della norma incriminatrice, il giudice dichiara che il fatto non è previsto dalla legge come reato ed adotta i provvedimenti conseguenti.

Sulla scorta di questi richiami normativi, i Giudici hanno ritenuto che non vi sia dubbio che tra i provvedimenti conseguenti alla revoca della condanna vi sia anche la revoca di tutte le statuizioni accessorie che presuppongono la detta condanna, come nella specie, la confisca dei beni sequestrati.

Tale conclusione non può essere posta in dubbio dal fatto che la confisca sia diretta o per equivalente, né dalla sua natura di misura di sicurezza o sanzione. Ciò che conta è che si tratta di una misura obbligatoria che consegue ad una sentenza; qualora quest’ultima sia revocata, la confisca deve subire la stessa sorte.

Nemmeno la sua esecuzione costituisce elemento ostativo, a livello concettuale o a livello operativo, alla revoca, potendosi sempre disporre la restituzione dei beni illegittimamente acquisiti, e cioè di quanto concretamente realizzato dall’esecuzione, siccome lo Stato non può trattenere i beni senza titolo, essendo quest’ultimo venuto meno a seguito della norma abrogatrice.

http://www.giurisprudenzapenale.com/wp-content/uploads/2018/02/Scarica-la-sentenza-5.pdf

Confermo – Confermo!

Confermo – Confermo!

“La stessa inflessibile virtù del magistrato non illuminata dall’ingegno e non guidata dall’obbiettività può condurre all’ingiustizia”

V. Manzini, Trattato di diritto processuale penale, 1970

a cura di: Luigi Scialla – Avvocato del Foro di Roma; Dott. Antonio Giuseppe Carta – Praticante Avvocato del Foro di Roma.

«Nell’ipotesi di mutamento della persona fisica del giudice monocratico o della composizione del Collegio che ha assunto la prova testimoniale, la testimonianza raccolta dal primo giudice non è utilizzabile per la decisione mediante la semplice lettura, senza ripetere l’esame del dichiarante, quando questo possa avere luogo e sia richiesto da una delle parti. […] Per converso ove risulti il consenso delle parti alla rinnovazione del dibattimento mediante lettura dei verbali di dichiarazioni rese nella precedente fase dibattimentale, queste ultime dichiarazioni possono essere utilizzate per la decisione».1

Con l’ardito intento di porre chiarezza sul contrasto giurisprudenziale precedentemente delineatosi, le Sezioni Unite della Suprema Corte, non molto tempo fa, con la massima sopra riportata, hanno ribadito il principio dell’immutabilità del giudice: il diritto alla rinnovazione dibattimentale a seguito del mutamento dell’organo giudicante deve costituire la regola e non più, come in passato, l’eccezione.

Peraltro l’enunciazione di un chiaro principio di diritto si rendeva improcrastinabile per porre freno a una giurisprudenza piuttosto discordante sul tema; posto che sin dalla entrata in vigore dell’attuale codice di procedura penale, il tema della rinnovazione del dibattimento a seguito del mutamento del giudice ha prodotto linee interpretative contrastanti. Più precisamente, la quaestio ruotava attorno alla necessità della nuova escussione della prova dichiarativa dinanzi al giudice subentrato, ovvero alla possibilità di utilizzare ai fini della decisione, attraverso la lettura dei relativi verbali, le dichiarazioni illo tempore rese dinanzi al giudice sostituito.

Ad oggi, come si vedrà in seguito, malgrado i reiterati interventi della Corte Costituzionale2 prima, e delle sopracitate Sezioni Unite poi, il dibattito non appare sopito, e il principio di immutabilità del

1 Cass., Sez. Un., 15 gennaio 1999, n. 2 “Iannasso”, in Cass. pen., 1999, p. 1429.
2 C. Cost., sent. 3 febbraio 1994, n. 17, in Cass. pen., 1994, p. 1172 per cui «il rispetto del principio sancito nell’art. 525, co. 2, c.p.p. impone che, in caso di mutamento del giudice, si proceda alla integrale rinnovazione del dibattimento»; C.

giudice reiteratamente violato nella prassi. Nel contesto di una ricca casistica, si afferma infatti che la previsione ex art. 525, comma 2, c.p.p. non opera nel caso in cui il teste riconvocato in dibattimento, invitato a confermare le precedenti dichiarazioni si limiti, senza opposizione delle parti, a questa sola affermazione senza riferire come dovrebbe, nel merito, gli elementi in suo possesso delle fonti di prova, perché la prova “nasca” in quel momento.

Giova ai fini della presente trattazione, prendere in considerazione alcune consuetudini sviluppatesi e sedimentatesi nel precedente codice del 1930, consuetudini che tuttavia ancora oggi, sotto la vigenza dell’attuale codice di rito, che come è noto rispetto al previgente codice è animato da un principio del tutto diverso, si fatica a sradicare.

Il previgente sistema processuale era improntato ai principi del modello inquisitorio – rectius “misto” – ove le garanzie e i diritti dell’individuo erano subordinati all’utopica ricerca dell’assoluta verità da parte del giudice.
La fase istruttoria aveva a tutti gli effetti natura processuale e giurisdizionale.

Tale caratteristica comportava delle ricadute sul piano probatorio: le prove acquisite in quella fase venivano utilizzate dal giudice del dibattimento per fondare la propria decisione. Tale pratica veniva favorita anche dai limitati sbarramenti posti dal legislatore alla possibilità di ingresso nel dibattimento del materiale probatorio raccolto nella fase istruttoria. Tanto che, per consuetudine, il giudice del dibattimento si limitava a chiedere al testimone chiamato a deporre se confermasse o meno in giudizio le dichiarazioni rese nella fase processuale precedente. Di qui la ridondante espressione spesso criticata, e in più sedi, della risposta del teste che era limitata ad un laconico: «Confermo, confermo!». Solo apparentemente quindi l’assunzione delle prove avveniva in dibattimento nel pieno rispetto dei principi dell’oralità e dell’immediatezza, ma di fatto, i verbali nei quali erano contenuti gli atti istruttori andavano a porsi tra il giudice e la prova, declassando il dibattimento a mera fase di controllo degli elementi probatori raccolti in precedenza, rendendo quasi superflui i principi di concentrazione del dibattimento nonché il senso dell’immediatezza della decisione.

Scriveva in proposito il Chiavario «l’intelaiatura complessiva del processo e gli ampi spazi lasciati alla pratica giudiziaria hanno finito per consacrare l’assoluta prevalenza dell’attività istruttoria su quella dibattimentale, della scrittura e delle letture sull’oralità e sull’immediatezza […] con evidente mortificazione di quei principi del sistema accusatorio che pur si volevano astrattamente affermare».3

Cost., ord. 10 giugno 2010, n. 205, in Cass. pen., 2010, p. 3821 dalla quale si evince che il diritto dell’imputato all’assunzione della prova davanti al giudice chiamato a decidere si raccorda alla garanzia prevista dall’art. 111, co. 3, Cost.
3 Cit. M Chiavario, Commento al nuovo codice di procedura penale, UTET, 1991, p. 4.

Dai lavori preparatori dell’attuale codice di rito emerse viceversa l’intento del legislatore a prendere le distanze da tali diffuse pratiche di “conferma” sedimentatesi sotto la vigenza del precedente codice. Difatti all’art. 2 della legge-delega 81/1987 si proclamò “l’adozione del modello orale” per il quale, il “processo pienamente orale è quello retto dalla regola per cui il giudice deve fondare la decisione soltanto sulla base delle risultanze probatorie direttamente percepite”. 4

Si rende necessario quindi un contatto diretto ed effettivo tra il giudice, le parti, e la prova, in modo che la decisione sia fondata su atti alla cui formazione il giudice insieme alle parti ha preso parte, e sui quali si sono formate le sue impressioni e percezioni, nel contraddittorio contestuale ed immediato, e con la diretta e constante partecipazione di tutte le parti che integrano l’ufficio della decisione.

Va da sé concludere quindi che «il principio di oralità va di pari passo con il principio di immediatezza, nel duplice significato, di identità tra il giudice che procede all’assunzione delle prove ed il giudice che decide sulla res iudicanda, e di continuità delle operazioni probatorie tra di loro e rispetto al momento deliberativo della decisione».5 Il principio di oralità inoltre garantisce la genuinità degli atti perché la loro formazione non va riferita ad un tempo anteriore, ma ha luogo nel momento e alla presenza dell’ufficio giudiziario.

Senza contare l’importanza del contraddittorio che, per quanto evidenziato sopra per gli altri principi, deve essere contestuale, immediato nel senso di attuale e collettivo.
Questi principi, implicando un rapporto privo di intermediazione tra l’acquisizione delle prove e la decisione dibattimentale, sono finalizzati ad ottenere una decisione che, adottata entro un brevissimo intervallo di tempo dall’assunzione degli elementi probatori, risulti basata su un nitido e preciso ricordo dei fatti appresi dal giudice nel corso dell’istruzione dibattimentale.

Perché è in dibattimento, luogo nel quale il principio del contraddittorio trova la massima espressione, la sede di formazione della prova.

Nella fase attuale dell’applicazione della legge processuale per i giudizi penali si verificano sempre con maggiore continuità fenomeni, sicuramente discutibili e probabilmente inaccettabili, che rischiano di fuorviare il senso stesso di giustizia mediante un uso non corretto delle norme processuali. E ciò probabilmente per la cattiva incidenza di prassi ormai applicate con un’allarmante frequenza dai giudici, forse animati da un desiderio di celerità nello svolgimento del processo, che però agisce poi in senso contrario rispetto alla bontà del risultato che ci si attende.

Infatti può capitare, anche per il lungo tempo (anch’esso irregolare) impiegato nella trattazione di un processo in dibattimento, che questo, in un tempo che dovrebbe essere viceversa contestuale,

4 M. Chiavario, La riforma del processo penale, UTET, 1988, p. 32.
5 M. Chiavario, La riforma del processo penale, UTET, 1988, p. p. 38.

immediato e orale, venga, per il mutamento della persona del giudice, ad essere non più realizzabile. E cioè il portato dibattimentale sarà tutt’altro che contestuale, senza nemmeno scomodare i concetti di immediatezza, anch’essa mancante, del contraddittorio e di oralità, elementi sempre indispensabili per un corretto processo. E quindi impedendo che una parte della prova, specialmente quella dichiarativa “nasca” in presenza, nella collegialità collettiva per un giudice diverso da quello che in un secondo momento è subentrato per il giudizio, cosicché le ulteriori prove “nascono” dinnanzi a questo nuovo giudice senza la necessaria immediatezza e contestualità.

Il problema consiste nella difficoltà di collegare le prime acquisizioni probatorie con quelle successivamente assunte con il giudice mutato.
Infatti come si è visto prima il principio dell’immutabilità del giudicante viene posto in crisi dalla difficoltà di recepire prove acquisite e valutate precedentemente da un giudice diverso che ha partecipato ad un contesto acquisitorio diverso.

A questa situazione processuale implicante una difficoltà, si è posto un parziale rimedio mediante un’acquisizione effettuata con l’accordo delle parti mediante una formale “rinnovazione” dell’acquisizione probatoria che sarà poi valutata nel momento della discussione e della decisione mediante lettura. Sempre formale.

Viceversa la forma più corretta usata e da usare nel corso di un mutamento del giudice è quella della ripetizione materiale dell’acquisizione delle dichiarazioni testimoniali da effettuarsi dinanzi al nuovo giudice perché lo stesso alla fine possa avere la cognizione più completa ed esauriente della prova nata sotto i suoi occhi nell’ambito della Sua sede giudiziaria. E ciò perché solo così si rispettano i principi dell’immediatezza, dell’oralità, della concentrazione, della contestualità e del contraddittorio.

È infatti questa la ragione fondamentale ed ineludibile per la realizzazione di un giusto processo per addivenire ad un risultato giudiziario accettabile, ovviamente prescindendo dal tipo di decisione. Infatti solo il rispetto delle regole è condizione necessaria e sufficiente per acquisire come detto un risultato accettabile.

Altro fenomeno ancora più allarmante, che va ad inserirsi anch’esso in una prassi da respingere con decisione, è quello manifestato da alcuni giudici i quali essendo costretti alla rinnovazione reale dell’acquisizione della prova dichiarativa per il mancato consenso delle parti o di una delle parti, che spesso è la difesa, procedano alla rinnovazione fittizia e formale dell’acquisizione delle prove assunte in precedenza.

È capitato spesso che il giudice tentasse comunque di dar valore a queste precedenti dichiarazioni rese nel dibattimento che attualmente stava dirigendo, mediante la richiesta di semplice conferma da parte del dichiarante di quanto in precedenza riferito, con la frase e la domanda preliminare al teste,

che così suonava o che così ha spesso suonato: «Lei conferma quanto ha dichiarato in precedenza?», con la conseguente ed eloquente risposta: «Confermo, confermo».
Così facendo, oltre a realizzare un illecito, veniva commesso un atto non solo illecito, ma addirittura paradossale, perché si procurava un ingresso del materiale probatorio che non si era voluto consentire mediante l’assenso alla mera lettura. Per usare un espressione significativa, anche se poco consona alla formalità del processo penale, si realizzava un’introduzione dalla finestra di quello che non si era potuto introdurre dalla porta.

Si realizza così un illecito processuale che anzitutto richiama vecchie concezioni nate a maturate in epoca di vigenza di un diverso processo (ci si riferisce al processo inquisitorio), aggravato dalla considerazione che il nostro giudice, in quel frangente, ha ritenuto di possedere virtù e capacità cognitivo – decisionali tali da poter esaurire e arrivare a un compiuto giudizio anche mediante un’acquisizione di prova tronca, e cioè realizzata mediante una conferma per una nascita che non c’è stata, per prove avvenute in un altro luogo, con evidente stravolgimento delle regole e dei principi propri del processo accusatorio.

L’esame diretto, deve avvenire in ambito contestuale, immediato e orale al quale deve seguire, a pena di inammissibilità, l’indispensabile controesame che, come è facilmente intuibile, deve avere ad oggetto l’esame subìto dal teste in quel momento, e non può essere certamente un controesame su un argomento di esame che non c’è più e che sarebbe esistito in altra sede; e quindi non contestuale!

È evidente la violazione perpetrata e la conseguente nullità della prova assunta.
Insomma c’è assoluta necessità dell’acquisizione probatoria diretta, comunemente definita nascita della prova in dibattimento, e non possono esistere conferme di sorta.

il giudizio abbreviato

Il giudizio abbreviato non è un giudizio breve! Utilità del giudizio abbreviato. Gli artt. 438-443 c.p.p. disciplinano il giudizio abbreviato: rito speciale a natura premiale, deflativo del dibattimento. A fronte dello sconto di un terzo della pena, applicabile in concreto, l’imputato può chiedere di essere giudicato nell’udienza preliminare sulla base degli atti contenuti nel fascicolo delle indagini preliminari. Non vi è dubbio che il giudizio abbreviato possa essere un vantaggio per il giudicando che ovviamente è libero di richiederlo. In alcuni casi, però, da parte dello stesso, vi è una necessità di ricorrervi, sia per la delicata posizione giuridica (ad es. giudizio direttissimo con misura cautelare o giudizio immediato) sia per la gravità delle accuse formulate, le cui conseguenze giuridiche possono essere non evitate, ma almeno lenite dall’esistenza di un rito alternativo che riduca la pena. La stessa prova “evidente”, idonea a giustificare il ricorso al rito immediato, poi, in caso di conversione al giudizio abbreviato assurgerebbe a elemento determinante ai fini della decisione. Data la natura deflativa, il rito ex art. 438 c.p.p., esaurendosi nella sola udienza preliminare comporta la rinuncia alle garanzie processuali connesse alla celebrazione del dibattimento, quali la completa, immediata e contestuale formazione della prova in contraddittorio tra le parti di fronte ad un giudice terzo e imparziale. Tale rito speciale, soprattutto nella sua ipotesi base, si caratterizza difatti come procedimento “a prova contratta”, nel quale le parti accettano che la res iudicanda sia decisa sulla base degli atti d’indagine già acquisiti, rinunciando a chiedere ulteriori mezzi di prova. In tal modo, consentendo di attribuire agli elementi raccolti nel corso delle indagini preliminari, quel valore probatorio di cui essi sono di norma sprovvisti nel giudizio che si svolge nelle forme ordinarie. Perché come è noto la prova si forma solo in dibattimento. La rinuncia al diritto di formazione della prova nel pieno contraddittorio tra le parti è totale allorché, in sede di indagini preliminari o di udienza preliminare, non sia stato neppure celebrato l’incidente probatorio. Vero che, la legge, consente all’imputato di condizionare l’adesione al giudizio abbreviato, permettendogli di porre delle condizioni per la effettiva integrazione della prova (c.d. giudizio abbreviato condizionato). Viceversa nel processo ordinario, l’imputato al pari del pubblico ministero è protagonista del contraddittorio processuale, al fine di arrivare alla migliore formazione della prova. La contesa ad armi pari, che si svolge dinanzi al giudice, non può prescindere dalle due parti necessarie: accusa e difesa. In un processo accusatorio – in cui vige la presunzione di innocenza – la figura dell’imputato non deve essere quella di un soggetto passivo che subisce inerte l’imputazione mossa dall’accusa, ma
di parte necessaria, che attraverso il rapporto dialettico sia posta in grado di tutelare a pieno i propri diritti fondamentali, primo fra tutti il diritto di difesa. A tal proposito appare fondamentale rimarcare che il ruolo del pubblico ministero non è quello di mero accusatore, ma pur sempre di organo di giustizia obbligato a ricercare tutti gli elementi di prova rilevanti per una giusta decisione, ivi compresi gli elementi a favore dell’imputato. Ma nella prassi, tuttavia, lo svolgimento delle indagini preliminari sono orientate unilateralmente alla ricerca di elementi d’accusa e quasi mai esse sono finalizzate alla ricerca di elementi a discarico a favore dell’imputato. Di conseguenza, si può ragionevolmente dedurre che nel rito abbreviato, la difficoltà difensiva non consiste già solo nella gravità dell’imputazione mossa dall’accusa, ma nelle modalità di preparazione, inoltro ed utilizzo degli atti preparati dalla stessa e che vengono acquisiti per effetto dell’abbreviato, direttamente e completamente quali validi fonti di prova. Diviene fondamentale perché vi possa essere un valido giudizio abbreviato, che i suddetti atti preparatori di indagine siano quando più possibile aderenti e completi sui rilievi del fatto o dei fatti. Siano le suddette fonti, realizzate con massimo scrupolo e la miglior efficacia, tale da produrre un risultato che sia il più giusto possibile nel rispetto delle regole del processo, perché realizzato mediante atti a loro volta ottenuti con lo scrupoloso rispetto delle regole. Va da sé che il Giudice, alla luce di un materiale probatorio redatto prevalentemente, quando non esclusivamente, dall’attività dall’accusa senza che l’imputato abbia avuto modo di completarne o contestarne a pieno il contenuto, come invece accadrebbe in dibattimento in un giudizio ordinario, abbia un compito più gravoso perché da affrontare con scrupolo maggiore, al fine di decidere con piena e genuina cognizione di causa circa i fatti oggetto di giudizio. Emerge chiaramente la maggior dimensione che raggiunge il giudice nel momento in cui amministra la giustizia su un giudizio abbreviato, cioè una maggiore ponderazione degli elementi portati alla conoscenza, un’analisi critica portata all’estremo, in modo da permettere una base parimenti sufficiente, come sarebbe del caso di un giudizio dibattimentale nella quale inserire le istanze e le argomentazioni portate dalla difesa. Lo stesso Giudice, per quanto appena detto, dovrà sentirsi investito di un dovere maggiormente scrupoloso nella valutazione ed accettazione degli elementi di fatto rilevanti. Alla luce dei motivi su esposti, si potrebbe concludere che il rito abbreviato per essere valido strumento di amministrazione della giustizia e per poter soddisfare i requisiti del giusto ed equo processo ex art. 111 Cost., richieda una notevole attività di critica giuridica degli elementi di prova – come si vede in gran parte provati dall’accusa – con l’attività critica ponderata, come detto, già scrupolosa e piena di significati. Considerando che si tratta comunque di un giudizio che ha una sua
collocazione nell’ordinamento, ed è un giudizio abbreviato e non un giudizio breve, come si potrebbe pensare cadendo in errore ritenendo che il motivo della richiesta del giudizio abbreviato sia determinato dall’esclusivo obbiettivo di ottenere la riduzione della pena e non, come sempre, dettato e animato da un desiderio di giustizia. Avv. Luigi Scialla Dott. Antonio Giuseppe Carta