Cass. Sez. III n.26325 del 21 settembre 2020 (UP 3 lug 2020) Pres.Andreazza Est. Semeraro Ric. Stallone Beni Ambientali.Spontanea rimessione in pristino
La speciale causa estintiva, prevista dall’art. 181 comma 1-quinquies d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 opera a condizione che l’autore dell’abuso si attivi spontaneamente alla rimessione in pristino delle aree o degli immobili soggetti a vincolo paesaggistico, anticipando l’emissione del provvedimento amministrativo ripristinatorio. L’applicabilità di tale causa estintiva è subordinata al fatto che la rimessione in pristino da parte dell’autore dell’abuso sia spontanea e non eseguita su impulso dell’autorità amministrativa. L’estinzione si ha, pertanto, solo quando non sia stata ancora disposta d’ufficio dalla P.A.; è necessario cioè che l’autore dell’abuso si attivi spontaneamente alla rimessione in pristino e, quindi, prima che la P.A. la disponga, perché l’effetto premiale può realizzarsi solo in presenza di una condotta che anticipi l’emissione del provvedimento amministrativo ripristinatorio.
RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza del 26 giugno 2019 la Corte di appello di Palermo ha confermato la condanna inflitta a Gaetano Stallone ed Agata Indelicato dal Tribunale di Marsala alla pena di un mese di arresto ed € 57.000 di ammenda per i reati di cui agli artt. 95 d.P.R. 380/2001 (capo B), 181 comma 1-bis d.lgs. 42/2004 (capo C), 734 cod. pen. (capo D) per la costruzione di una sopraelevazione di 59 mq. e di una tettoria, alle spalle della sopraelevazione, di circa mq. 18, in zona sismica, senza il necessario preavviso e senza la necessaria autorizzazione, in zona vincolata senza autorizzazione paesistica, in zona di notevole interesse pubblico alterando le bellezze naturali. In Campobello di Mazara fino al 18 gennaio 2016.
2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore degli imputati. 2.1. Con il primo motivo si deduce il vizio della motivazione; la Corte di appello avrebbe erroneamente ritenuto che i ricorrenti abbiano demolito le opere per le quali hanno ottenuto la concessione in sanatoria del 17 marzo 2017; con tale concessione sarebbero stati sanati gli abusi commessi dal precedente proprietario dell’immobile e parte degli illeciti commessi dai ricorrenti, tra cui una scala in cemento armato. La corte territoriale avrebbe ritenuto erroneamente che i motivi di appello siano contraddittori. Vi sarebbe una evidente illogicità o contraddittorietà della motivazione della sentenza. 2.2. Con il secondo motivo si deduce il vizio della motivazione con riferimento al capo c), ex art. 181 comma 1-bis d.lgs. 42/2004. Sarebbe stata omessa la risposta al primo motivo di appello su tale capo. 2.3. Con il terzo motivo si deducono i vizi di violazione di legge e della motivazione in relazione al reato ex art. 734 cod. pen. La Corte di appello avrebbe erroneamente ritenuto che la concessione in sanatoria non abbia estinto il reato ex art. 734 cod. pen., in contrasto con quanto previsto dall’art. 39 comma 7 della legge 724/1994. Mancherebbe poi la motivazione con riferimento al quarto motivo di appello relativo alla mancanza di motivazione della sentenza di primo grado sulla sussistenza di una permanente menomazione della bellezza del luogo e sulla concreta idoneità della condotta di deturpamento. 2.4. Con il quarto motivo si deduce la violazione dell’art. 181 comma 1- quinquies d.lgs. 42/2004. La Corte di appello avrebbe erroneamente ritenuto che, per aversi l’estinzione del reato, la demolizione avrebbe dovuto precedere la sentenza di condanna e l’emissione del provvedimento di demolizione da parte dell’autorità amministrativa. Invece, l’art. 181 comma 1-quinquies consentirebbe l’effetto estintivo, in caso di demolizione prima della sentenza di condanna, anche nel caso di demolizione successiva all’ingiunzione amministrativa. La demolizione sarebbe avvenuta prima della citazione a giudizio e ciò emergerebbe dalla richiesta di dissequestro dell’immobile, presentata alla Procura della Repubblica di Marsala, per procedere alla demolizione delle opere. 2.5. Con il quinto motivo si deducono i vizi di violazione di legge e della motivazione sul rigetto della richiesta di applicazione dell’art. 131-bis cod. pen.; il rigetto sarebbe fondato sull’abitualità delle condotte. I ricorrenti avrebbero invece dimostrato che le opere abusive realizzate al primo piano furono realizzate dal precedente proprietario (Antonino Bono) che il 30 giugno 1986 presentò l’istanza per la sanatoria. Nessun procedimento per illeciti edilizi sarebbe sorto a carico degli imputati. Inoltre, l’applicabilità dell’art. 131-bis cod. pen. deriverebbe dalla scarsa consistenza delle opere abusive con minima lesione dell’interesse protetto, anche a seguito della demolizione delle opere. 2.6. Con il sesto motivo si deduce il vizio della motivazione in relazione all’art. 95 d.P.R. 380/2001; la Corte di appello ha ritenuto che il reato ex art. 95 non possa essere dichiarato estinto poiché le opere abusive non sarebbero state sanate ma demolite. Invece, parte delle opere abusive sarebbero state sanate dal permesso di costruire n. 27 del 17 marzo 2017.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo è manifestamente infondato. Nella sentenza non vi è alcuna contraddittorietà: la corte territoriale ha chiaramente distinto le opere oggetto della concessione in sanatoria del marzo del 2017 – che non riguardano quelle oggetto del capo di imputazione (come invece ritenuto erroneamente dal Tribunale di Marsala, in relazione al capo a, ma confermato dai ricorrenti) – e quelle demolite, oggetto dell’imputazione (cfr. pagina 5 punto 5). Né l’eventuale erronea qualificazione dei motivi di appello come contraddittori inciderebbe sulla ratio decidendi.
2. Manifestamente infondati sono il secondo ed il quarto motivo: la Corte di appello ha esplicitamente motivato sulla sussistenza del reato di cui al capo c), ex art. 181 comma 1-bis d.lgs. 42/2004, valutando non solo la realizzazione delle opere in zona vincolata, senza il preventivo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, ma anche l’irrilevanza della demolizione eseguita non spontaneamente dagli imputati. 2.1. La demolizione è stata effettuata a seguito dell’emissione dell’ingiunzione alla demolizione, il 22 febbraio 2016, da parte del comune di Campobello di Mazara. Orbene, va rilevato che è contestato agli imputati il reato di cui all’art. 181 comma 1-bis d.lgs. 42/2004, poiché l’opera è stata realizzata in area sottoposta a vincolo di notevole interesse pubblico con apposito provvedimento emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori, per cui non opera la causa estintiva di cui al comma 1-quinquies. 2.2. Va ribadito il principio per cui la rimessione in pristino delle aree o degli immobili assoggettati a vincolo paesaggistico, spontaneamente eseguita dal trasgressore, per la sua natura eccezionale, estingue solo il reato previsto dal comma primo e non dal comma 1-bis, dell’art. 181 del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (Sez. 3, n. 33542 del 19/06/2012, Cavaletto, Rv. 253139-01). 2.3. In ogni caso, anche ove si volesse ritenere che la condanna sia avvenuta per il comma 1 dell’art. 181 d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, la decisione della Corte di appello è corretta. Infatti, la speciale causa estintiva, prevista dall’art. 181 comma 1-quinquies d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 – «La rimessione in pristino delle aree o degli immobili soggetti a vincoli paesaggistici da parte del trasgressore, prima che venga disposta d’ufficio dall’autorità amministrativa, e comunque prima che intervenga la condanna, estingue il reato di cui al comma 1» – opera a condizione che l’autore dell’abuso si attivi spontaneamente alla rimessione in pristino delle aree o degli immobili soggetti a vincolo paesaggistico, anticipando l’emissione del provvedimento amministrativo ripristinatorio: cfr. in tal senso Sez. 3, n. 37822 del 12/06/2013, Battistelli, Rv. 25651801. Come osservato dalla sentenza Battistelli, l’applicabilità della speciale causa estintiva di cui all’art. 181 comma 1-quinquies è subordinata al fatto che la rimessione in pristino da parte dell’autore dell’abuso sia spontanea e non eseguita su impulso dell’autorità amministrativa. L’estinzione si ha, pertanto, solo quando non sia stata ancora disposta d’ufficio dalla P.A.; è necessario cioè che l’autore dell’abuso si attivi spontaneamente alla rimessione in pristino e, quindi, prima che la P.A. la disponga, perché l’effetto premiale può realizzarsi solo in presenza di una condotta che anticipi l’emissione del provvedimento amministrativo ripristinatorio. Se si fosse voluto far riferimento solo alla sentenza di condanna non avrebbe avuto alcun senso richiamare il provvedimento disposto d’ufficio dalla P.A.; il legislatore ha voluto porre l’accento sul carattere (necessariamente) spontaneo della rimessione in pristino per farne derivare l’effetto estintivo del reato.
3. Manifestamente infondato è il terzo motivo relativo al reato ex art. 734 cod. pen.: come chiaramente rilevato dalla Corte di appello, la concessione in sanatoria non si riferisce alle opere oggetto dell’imputazione sicché gli effetti non sono minimamente invocabili nel processo. Contrariamente a quanto si afferma nel ricorso, vi è poi una esplicita motivazione da parte della Corte di appello sulla sussistenza del reato ex art. 734 cod. pen. per le dimensioni dell’opera, realizzata in sopraelevazione di altra abusiva, e non ancora condonata al momento della costruzione, in zona sottoposta a vincolo ambientale, a 500 metri dal mare.
L’accertamento del dolo nel reato di calunnia si attua mediante un processo logico deduttivo che, partendo dalle modalità esecutive dell’azione, risale alla sfera intellettiva e volitiva del soggetto
In tema di calunnia, l’elemento soggettivo, che deve estendersi alla consapevolezza di esporre al rischio di un procedimento penale l’accusato che si sa innocente, è evidenziato dalle concrete circostanze e dalle modalità esecutive che definiscono l’azione criminosa, dalle quali, con processo logico deduttivo, è possibile risalire alla sfera intellettiva e volitiva del soggetto ai fini dell’accertamento del dolo.
RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza impugnata la Corte di appello di Lecce, in parziale riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Lecce, ha assolto T.G. dal reato di calunnia, limitatamente all’episodio del (OMISSIS) perché il fatto non sussiste, confermandone la condanna alla pena di anni due di reclusione, con il beneficio della sospensione condizionale, per gli altri episodi ascritti.
2. Propone ricorso per cassazione il difensore di fiducia di T.G., avv. Giovanni Ladisi, articolando quattro motivi di ricorso.
2.1 Con il primo motivo deduce i vizi di violazione di legge, di mancanza della motivazione in merito alla applicabilità dell’art. 49 c.p., ed alla configurabilità del reato in relazione all’episodio del (OMISSIS), nonché di contraddittorietà della motivazione nella parte in cui, da un lato, ha escluso la sussistenza del reato con riferimento allo scritto del (OMISSIS) e, dall’altro, ne ha ravvisato la sussistenza con riferimento agli altri scritti, pur essendo questi tra loro sovrapponibili in quanto relativi al medesimo fatto storico e rappresentanti identiche doglianze. La Corte territoriale ha omesso, inoltre, di valutare il fine perseguito dall’imputato (la valutazione della condotta del D.C.) ed il movente della sua condotta (l’avere subito un’ingiustizia) ed avrebbe dovuto, sulla base della connotazione di tale condotta, escluderne l’inidoneità, ravvisando un reato impossibile.
2.2 Con il secondo motivo deduce vizi cumulativi di violazione dell’art. 43 c.p. e di motivazione con riferimento all’elemento psicologico del reato avendo il T. agito nell’intima convinzione di avere subito un torto a nulla rilevando la sua qualifica professionale di dottore commercialista.
2.3 Con il terzo motivo deduce il vizio di violazione dell’art. 81 c.p., in relazione all’omessa rideterminazione del trattamento sanzionatorio a seguito dell’assoluzione dal reato commesso il (OMISSIS) non essendo rilevante, in difetto di impugnazione del Pubblico ministero, che il Giudice di primo grado abbia omesso di applicare l’aumento a titolo di continuazione.
2.4 Con il quarto motivo deduce i vizi cumulativi di violazione di legge e di motivazione in merito alla omessa concessione delle circostanze attenuanti generiche, non avendo i Giudici di merito considerato le dichiarazioni di rinuncia alle azioni giudiziali sottoscritte dalla persona offesa.
DirittoCONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile in quanto fondato su motivi, in parte, non consentiti e, in parte, generici e manifestamente infondati.
2. Ciò premesso, i primi due motivi, da esaminare congiuntamente in quanto tra loro logicamente connessi, sono inammissibili perché generici, meramente reiterativi dei medesimi motivi di appello e volti a sollecitare una diversa lettura delle risultanze processuali, estranea al perimetro del giudizio di legittimità.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, la calunnia è un reato di pericolo che si realizza con una condotta tale da creare il concreto rischio di inizio di un’indagine, sia che venga realizzata con una falsa denunzia che con la simulazione di tracce del reato. Non e’, quindi, necessario che vi sia l’effettivo avvio di un’indagine ma, laddove ciò non avvenga, occorre valutare se, nel caso concreto, la condotta fosse del tutto inidonea a creare il rischio di inizio di un procedimento penale come, ad esempio, allorché la falsa accusa abbia ad oggetto fatti manifestamente e a prima vista inverosimili o incredibili per le circostanze in cui è effettuata, per i modi in cui è espressa e per l’assoluta inattendibilità del suo contenuto, sì che l’accertamento della sua infondatezza non abbisogni di alcuna indagine. In tali casi l’azione si rivela sostanzialmente priva dell’attitudine a ledere gli interessi protetti, a norma dell’art. 49 c.p. (Sez. 6, n. 26177 del 17/03/2009, Vassura, Rv. 244357).
Ai fini della configurabilità del reato di calunnia non e’, dunque, necessario l’inizio di un procedimento penale a carico del calunniato, occorrendo soltanto che la falsa incolpazione contenga in sé gli elementi necessari e sufficienti per l’esercizio dell’azione penale nei confronti di una persona univocamente e agevolmente individuabile; cosicché soltanto nel caso di addebito che non rivesta i caratteri della serietà, ma si compendi in circostanze assurde, inverosimili o grottesche, tali da non poter ragionevolmente adombrare – perché in contrasto con i più elementari principi della logica e del buon senso – la concreta ipotizzabilità del reato denunciato, è da ritenere insussistente l’elemento materiale del delitto di calunnia (Sez. 2, n. 14761 del 19/12/2017, dep. 2018, Lusi, Rv. 272754; Sez. 6, n. 10282 del 22/01/2014, Romeo, Rv. 259268).
2.1 La sentenza impugnata ha fatto buon governo di tali coordinate ermeneutiche e, con motivazione immune da vizi logici o giuridici, ha chiarito la portata calunniosa degli esposti e della querela presentati dall’imputato in cui lo stesso ipotizzava diverse condotte criminose di cui si sarebbe reso responsabile il D.C., anche in concorso con il Giudice P., quali ad esempio, le false dichiarazioni a verbale rese con il “beneplacito del magistrato Pasculli”, l’abuso d’ufficio di quest’ultimo, ovvero le condotte di estorsione, atti persecutori e truffa di cui si sarebbe reso responsabile il D.C..
Esclusa, inoltre, l’inverosimiglianza o il carattere grottesco o assurdo del contenuto delle accuse, in quanto formulate in termini dettagliati e con richiami alla giurisprudenza di legittimità, la sentenza impugnata, con motivazione parimenti adeguata ed immune da vizi ha posto l’accento sulle competenze tecniche del ricorrente e sul contenuto delle accuse per ritenere sussistente la consapevolezza del T. della loro falsità e dell’innocenza della persona offesa.
Così facendo, ha fatto buon governo del principio di diritto già affermato da questa Corte, dal Collegio pienamente condiviso e ribadito, secondo cui in tema di calunnia, l’elemento soggettivo, che deve estendersi alla consapevolezza di esporre al rischio di un procedimento penale l’accusato che si sa innocente, è evidenziato dalle concrete circostanze e dalle modalità esecutive che definiscono l’azione criminosa, dalle quali, con processo logico deduttivo, è possibile risalire alla sfera intellettiva e volitiva del soggetto ai fini dell’accertamento del dolo (Sez. 6, n. 21204 del 03/04/2013, Cristofami, Rv. 255670).
E’ stato, infatti, chiarito che la consapevolezza del denunciante in merito all’innocenza dell’accusato è esclusa nel caso non ricorrente nella fattispecie in esame di cui la supposta illiceità del fatto denunziato sia ragionevolmente fondata su elementi oggettivi e seri tali da ingenerare dubbi condivisibili da parte di una persona, di normale cultura e capacità di discernimento, che si trovi nella medesima situazione di conoscenza (Sez. 6, n. 12209 del 18/02/2020, Abbondanza, Rv. 278753).
2.2 In considerazione della pluralità di denunce presentate in tempi diversi e presso diverse Autorità, nonché del loro contenuto, è stata, inoltre, legittimamente ravvisata una pluralità di reati. Va, al riguardo, ribadito, che la proposizione di plurime denunce contenenti false accuse depositate presso più autorità ed in luoghi distinti dà luogo ad una pluralità di reati, dovendosi escludere l’identità del fatto nel caso in cui la reiterazione della condotta avvenga con modalità spazio-temporali diverse (Sez. 6, n. 13416 del 08/03/2016, Pasquinelli, Rv. 267269).
2.3 Va, inoltre, aggiunto che, quanto allo scritto del 19 settembre, non sussiste un interesse concreto del ricorrente a dolersi della sua omessa valutazione posto che, pur essendo stata riconosciuta la continuazione tra i diversi episodi di calunnia, in concreto è stata applicata solo la pena base nel minimo edittale previsto dall’art. 368 c.p., cosicché, in caso di accoglimento della doglianza, potrebbero conseguire effetti in malam partem per il ricorrente con l’eventuale applicazione dell’aumento ai sensi dell’art. 81 c.p. per tale episodio criminoso.
3. Il terzo motivo è inammissibile in quanto manifestamente infondato. La Corte territoriale ha, infatti, correttamente giustificato la mancata riduzione del trattamento sanzionatorio in considerazione del fatto che il Giudice di primo grado aveva calcolato la sola pena base per il reato di calunnia, nel minimo edittale, senza operare alcun aumento a titolo di continuazione.
4. Anche il quarto motivo non supera il vaglio di ammissibilità in quanto aspecifico e privo di adeguato confronto con le argomentazioni della sentenza impugnata che ha escluso la sussistenza di elementi di segno positivo, ponendo, di contro, l’accento sull’assenza di alcuna forma di resipiscenza da parte del ricorrente.
Va, al riguardo, ribadito che il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche può essere legittimamente motivato dal giudice con l’assenza di elementi o circostanze di segno positivo, a maggior ragione dopo la riforma dell’art. 62-bis c.p., disposta con il D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito con modifiche nella L. 24 luglio 2008, n. 125, per effetto della quale, ai fini della concessione della diminuente, non è più sufficiente il solo stato di incensuratezza dell’imputato (Sez. 1, n. 39566 del 16/02/2017, Starace, Rv. 270986).
Le circostanze attenuanti generiche hanno, infatti, lo scopo di estendere le possibilità di adeguamento della pena in senso favorevole all’imputato, in considerazione di situazioni e circostanze che effettivamente incidano sull’apprezzamento dell’entità del reato e della capacità a delinquere del reo, sicché il riconoscimento di esse richiede la dimostrazione di elementi di segno positivo (cfr. Sez. 2, n. 9299 del 07/11/2018, dep. 2019, Villani, Rv. 275640).
5. L’inammissibilità dei motivi di ricorso, non consentendo il formarsi di un valido rapporto di impugnazione, preclude la possibilità di rilevare e dichiarare la prescrizione del reato maturata successivamente alla sentenza impugnata (Sez. U., n. 32 del 22/11/2000, Rv. 217266).
All’inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. Inoltre, il ricorrente va condannato al pagamento della somma di Euro tremila da versare in favore della Cassa delle Ammende, non potendosi ritenere che lo stesso abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. n. 186 del 2000).
PQMP.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.
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D’altronde anche l’art. 2086, comma II, c.c. (introdotto dal D.Lgs. n. 14/2019) impone a tutte le società di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa.
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Ogni Ente o Società che voglia garantire una corretta gestione aziendale, deve dotarsi di un proprio Modello ex D.Lgs n. 231/01 che comprenda una corretta mappatura delle aree dell’attività aziendale sensibili al rischio di commissione dei reati.
È necessaria una capillare attività di intervista al fine di analizzare i processi aziendali più a rischio e di conseguenza, adeguare ed aggiornare al meglio il Modello sulla realtà aziendale.
L’applicazione di tale Modello deve essere controllata mediante un Organismo di Vigilanza, autonomo ed indipendente, che possa vigilare sulla sua adeguatezza e sanzionare le violazioni e gli scostamenti dallo stesso.
Il Modello di Organizzazione, Gestione e Controllo
Il secondo strumento esimente previsto dal D.Lgs. 231/2001, è la dotazione da parte dell’Ente del Modello di Organizzazione, Gestione e Controllo.
Potremmo definirlo come il “codice” di cui l’Ente si dota per evitare il rischio-reato, ovvero per escludere che dalle condotte poste in essere da apicali o subordinati, nell’interesse o a vantaggio dell’Ente, possa insorgere anche una responsabilità dell’Ente medesimo, con gravissime conseguenze in termini di sanzioni e misure interdittive, anche cautelari.
Il MOGC, che verrà redatto dallo studio dopo una scrupolosa analisi di risk assesment, sarà oggetto di costanti verifiche da parte dell’Organismo di Vigilanza, sia in termini di efficacia del Modello, sia in termini di revisione in caso di mutamento del business aziendale o di intervento legislativo che incida sul catalogo dei reati presupposto.
Le diverse aree di provenienza delle due Professioniste consentiranno di mappare ogni attività o settore dell’organizzazione aziendale, individuando una matrice dei rischi che costantemente vagliata con specifici audit dell’OdV, consentirà all’Ente di andare esente da ogni censura.
Perchè prevedere all’interno dell’Azienda la nomina di un OdV?
L’Azienda, con le previsioni della D.Lgs. n. 231/2001, viene attratta nella responsabilità per i reati commessi dalle persone che operano al suo interno a diverso titolo, se si dimostri che il reato è stato commesso per procurare un vantaggio all’Azienda stessa. L’Azienda, quindi, potrebbe essere soggetta a diverse sanzioni, tra le quali anche alcune di tipo interdittivo che possono portare alla sospensione dell’attività aziendale. Non solo. Possono anche essere revocati benefici, possono essere confiscati beni aziendali, o si può incorrere in pesanti sanzioni pecuniarie.
Alcune di tali sanzioni possono essere applicabili anche in una fase cautelare e portano all’arresto della continuità aziendale. Con un adeguato Modello 231, generalmente, l’Azienda è salva dalle sanzioni che intervengono in fase cautelare.
Sono pertanto necessarie le seguenti fasi:
Adozione e progettazione del Modello
Attuazione e messa in opera dello stesso
Controllo del Modello ad opera dell’ODV.
Possiamo intervenire nella Vostra Azienda sia nella fase di adozione e progettazione del Modello, nella attuazione e messa in opera dello stesso e nel controllo come come Organismo di Vigilanza.
Cosa è l’Organismo di Vigilanza
È la componente centrale del Modello organizzativo 231.
Può essere monocratico e interno, tuttavia la collegialità ed il fatto che i suoi componenti siano esterni all’Azienda darà maggiori garanzie sulle caratteristiche richieste dalla Legge: l’autonomia, l’indipendenza, la professionalità e la continuità di azione.
l’Organismo di Vigilanza, dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo, vigila sul funzionamento e l’osservanza del Modello di Gestione e ne cura l’aggiornamento. È una unità organizzativa dell’impresa a servizio dell’organo amministrativo.
L’Organismo di Vigilanza non ha un potere di gestione dell’Impresa, ma di mero controllo interno.
L’OdV deve garantire
Indipendenza
Autonomia
Continuità di azione
Professionalità
Onorabilità
L’OdV può essere un organo esterno e collegiale, composto da tre membri.
È il nostro obiettivo mettere le nostre professionalità a servizio delle Aziende interessate e capire le reali esigenze per poter selezionare il terzo membro tra diversi professionisti con cui collaboriamo da anni.
Cosa fa l’Odv
Propone gli adattamenti e gli aggiornamenti necessari al Modello a seguito di mutamenti interni o esterni, di normative o dell’organizzazione societaria al fine di garantirne la massima efficacia per la corretta applicazione.
Vigila e controlla l’efficace attuazione del Modello stesso, tramite flussi informativi costanti e tracciati.
Gestisce e monitora la formazione dei destinatari per la comprensione e la corretta applicazione del Modello.
Garantisce una continuità di azione, per avere la massima efficacia sul controllo e la gestione del Modello.
Verifica che il Modello adottato dall’impresa sia efficiente ed efficace per la prevenzione dei reati previsti.
Rileva gli eventuali scostamenti dal Modello grazie all’analisi costante dei flussi informativi.
Gestisce le segnalazioni che arrivano dall’Azienda.
Tramite incontri verbalizzati tiene traccia del suo costante operato e predispone una relazione periodica per l’organo dirigente e per il Collegio Sindacale sull’attività di verifica e controllo.
L’indipendenza viene garantita rispetto a tutti gli organi aziendali, deve essere assicurato libero accesso a tutte le funzioni della società per gestire al meglio il corretto funzionamento del Modello.
L’OdV può avvalersi di tutti i consulenti esterni che ritenga possano essere utili alla realtà aziendale per l’adeguamento del Modello.
Perché scegliere lo Studio Penale Scialla per la redazione e gestione di un modello 231/2021 o lo svolgimento di incarico di ODV
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L’interesse statuale va bilanciato con quello dei minori alla tutela del nucleo familiare, saldamente radicato sul territorio italiano (Trib. Roma decreto 3 agosto 2021)
Il Tribunale di Roma, sezione diritti della persona e immigrazione ha accolto lo scorso 3 agosto la domanda di sospensione cautelare di un provvedimento di espulsione dal territorio italiano emesso dal Prefetto di Roma nei confronti di un cittadino albanese (testo in calce).
Il provvedimento è di interesse in quanto il Giudice ha dato rilievo all’esistenza di forti legami familiari sul territorio italiano del ricorrente (la moglie e due figli minori) e ha sospeso, inaudita altera parte, il provvedimento proprio in quanto l’evidenza di tali legami implica “necessariamente la sussistenza del rischio di un danno grave ed irreparabile in connessione ad un eventuale allontanamento del ricorrente dal territorio, senza contare che in presenza di figli minori l’interesse statuale all’allontanamento dovrà comunque essere bilanciato con l’interesse superiore di questi ultimi, trattandosi di provvedimento destinato inevitabilmente ad incidere sull’unità familiare (cfr anche art. 28 comma 3 d.lvo 286/98)”.
Il ricorrente è arrivato all’età di 20 anni in Italia, nel 2001, con regolare permesso di soggiorno. L’anno successivo ha commesso un reato per il quale è stato successivamente condannato e tratto in arresto nel 2012. Tra la data della commissione del reato e l’emissione del provvedimento di espulsione sono trascorsi 19 anni durante i quali l’interessato, oltre ad aver scontato per intero la pena detentiva inflitta, si è pienamente integrato sul territorio italiano dove ha messo su famiglia e dove lavora sin dal 2014 come cuoco, dapprima presso la mensa del carcere e poi presso un ristorante nel centro di Roma, grazie all’autorizzazione al lavoro esterno al carcere (art. 21 Ordinamento penitenziario), ottenuta proprio per la sua buona condotta durante l’espiazione della pena.
Prima della detenzione il ricorrente aveva contratto matrimonio con una propria connazionale e dalla loro unione sono nati due figli con i quali il ricorrente ha mantenuto un rapporto costante anche durante la detenzione.
La moglie e i figli sono titolari di regolare permesso di soggiorno e sono perfettamente integrati sul territorio italiano dove i ragazzi frequentano la scuola ed il gruppo scout del paese dove hanno stabilito la residenza.
Il ricorrente ha invece chiesto, poco prima della scarcerazione, un’autorizzazione alla permanenza sul territorio italiano in forza dell’art. 31 d.lgs. 286/98, a mente del quale il Tribunale per i minorenni può autorizzare la permanenza sul territorio nazionale del genitore per salvaguardare il superiore interesse dei figli minori.
Il permesso di soggiorno per assistenza minori
L’art. 31, co. 3, del d.lgs 286/98 prevede infatti che il Tribunale per i minorenni, per gravi motivi connessi appunto allo sviluppo psicofisico dei figli stranieri che si trovano nel territorio italiano e tenuto conto dell’età e delle condizioni di salute del minore, può autorizzare l’ingresso o la permanenza del familiare, per un periodo di tempo determinato, anche in deroga alle altre disposizioni del TU in materia di immigrazione.
L’art. 31 TU immigrazione introduce quindi un’eccezione alla disciplina sul controllo delle frontiere laddove ricorrano le condizioni per salvaguardare il preminente interesse del minore nei casi in cui l’allontanamento di un suo familiare potrebbe appunto pregiudicarne l’integrità fisico-psichica del minore stesso.
Il noto contrasto giurisprudenziale relativo all’interpretazione dell’art. 31 comma 3 d.lgs 286/98 si è risolto con le sentenze delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione del 25 ottobre 2010 n. 21799 e del 6 luglio 2010 n. 21803 che hanno sancito il chiaro principio di diritto secondo cui: “La temporanea autorizzazione alla permanenza in Italia del familiare del minore, prevista dall’art. 31 del d.lgs 286/98 in presenza di gravi motivi connessi al suo sviluppo psico-fisico, non postula necessariamente l’esistenza di situazioni di emergenza o di circostanze contingenti ed eccezionali strettamente connesse alla sua salute, potendo comprendere qualsiasi danno effettivo, concreto, percepibile ed obiettivamente grave che in considerazione dell’età e delle condizioni di salute ricollegabili al complessivo equilibrio psicofisico deriva o deriverà certamente al minore dall’allontanamento del familiare o dal suo definitivo sradicamento dall’ambiente in cui è cresciuto. Trattasi di situazioni di per sé non di lunga o indeterminabile durata, e non aventi tendenziale stabilità, che pur non prestandosi ad essere preventivamente catalogate e standardizzate, si concretano in eventi traumatici e non prevedibili nella vita del fanciullo che necessariamente trascendono il normale e comprensibile disagio del rimpatrio suo o del suo familiare”.
Le dimissioni dal carcere e l’espulsione emessa dal Prefetto
Al momento delle dimissioni dal carcere, nonostante la pendenza del procedimento volto al rilascio del permesso di soggiorno per assistenza minori, il Prefetto di Roma ha emesso un provvedimento di espulsione senza effettuare il bilanciamento tra l’interesse statuale all’allontanamento e l’interesse superiore dei figli minori alla permanenza sul territorio italiano del genitore, trattandosi di provvedimento destinato inevitabilmente ad incidere sull’unità familiare (cfr anche art. 28 comma 3 d.lvo 286/98)
Sul punto è degno di nota l’insegnamento da ultimo impartito dalla Cassazione, Sezioni Unite civili, nella sentenza n. 15750 del 12 giugno 2019.
In tale occasione le sezioni unite hanno espresso la seguente massima:
“In tema di autorizzazione all’ingresso o alla permanenza in Italia del familiare di minore straniero che si trova nel territorio italiano, ai sensi dell’art. 31, comma 3, t.u. immigrazione […], il diniego non può essere fatto derivare automaticamente dalla pronuncia di condanna per uno dei reati che lo stesso testo unico considera ostativi all’ingresso o al soggiorno dello straniero; nondimeno la detta condanna è destinata a rilevare, al pari delle attività incompatibili con la permanenza in Italia, in quanto suscettibile di costituire una minaccia concreta e attuale per l’ordine pubblico o la sicurezza nazionale, e può condurre al rigetto della istanza di autorizzazione all’esito di un esame circostanziato del caso e di un bilanciamento con l’interesse del minore, al quale la detta norma, in presenza di gravi motivi connessi con il suo sviluppo psicofisico, attribuisce valore prioritario, ma non assoluto”.
Ad avviso delle Sezioni Unite, il legislatore, con la previsione del permesso rilasciato ai sensi dell’art. 31 d.lvo 286/98, ha voluto perseguire l’interesse del minore, assicurandogli il godimento pieno del suo diritto fondamentale all’effettività della vita familiare e della relazione con i propri genitori, pur nel rispetto dell’esigenza di salvaguardare l’interesse dello Stato ospitante alla tutela dell’ordine pubblico. A tal riguardo, l’art. 31, comma 3, sancisce che, in presenza dei gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico del minore, è previsto il rilascio dell’autorizzazione alla permanenza o all’ingresso del familiare come possibile “anche in deroga alle altre disposizioni del presente testo unico”.
Tale deroga alle disposizioni che prevedono cause ostative all’ingresso o al soggiorno conseguenti a condanne penali dello straniero, comporta che l’autorizzazione ai sensi dell’art. 31, comma 3 TUI, non può essere negata automaticamente, in base alla condanna per determinati reati, ma deve di volta in volta essere fatto un bilanciamento degli interessi in gioco, essendo vietato ogni automatismo.
Nel caso sottoposto al vaglio del Tribunale di Roma è di tutta evidenza la mancanza del requisito dell’attualità della pericolosità sociale e quindi l’interesse dello Stato ad allontanare l’interessato deve soccombere al superiore interesse dei minori a potersi vedere garantito il diritto all’unità familiare.
Dunque, facendo tesoro dell’insegnamento delle Sezioni Unite, nel caso di specie deve ritenersi sussistente la necessità e l’opportunità della permanenza di entrambi i genitori sul territorio italiano per favorire lo sviluppo psico fisico dei minori pienamente integrati sul territorio italiano, stante anche l’assenza dell’attualità della pericolosità del ricorrente in quanto il reato (l’unico commesso dall’interessato) è risalente nel tempo e il ricorrente ha intrapreso con successo un percorso di reinserimento nella società libera.
Ed infatti, ad avviso del Giudice procedente, nel succinto decreto in commento, in assenza di attualità della pericolosità non vi sono ragioni per poter ritenere preminente l’interesse dello Stato all’ordine pubblico e dovrà attendersi l’esito del procedimento pendente innanzi al Tribunale per i minorenni che deciderà se concedere o meno un’autorizzazione al ricorrente di poter restare in Italia, anche per poter continuare a svolgere l’attività lavorativa in essere che rappresenta l’unica fonte di reddito per l’intero nucleo familiare.
Il trattenimento presso il Centro per i rimpatri e la convalida del trattenimento
In conseguenza del provvedimento di espulsione è stato emesso un ordine del Questore di trattenimento presso il Centro di permanenza temporanea di Roma Ponte Galeria per l’indisponibilità di un vettore che consentisse il rimpatrio immediato dell’interessato.
Illegittimamente la convalida del trattenimento è stata effettuata dal Giudice di Pace e non dal Tribunale ordinario che è invece competente per le convalide dei trattenimenti allorquando sia pendente un giudizio in materia di unità familiare (art. 30, co. 2, TUI) ovvero – come nel caso di specie – una richiesta di autorizzazione alla permanenza del familiare di minore straniero (art. 31, co. 3, TUI).
Tale competenza esclusiva e derogatoria alla normativa relativa alla convalida del trattenimento dello straniero irregolare è prevista dall’art. 1, co. 2 bis, D.L. 241/2004, introdotto in sede di conversione con L. 271/2004, ed è stata da ultimo ribadita dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 16075 del 2019 e dai giudici di merito (in ultimo, Tribunale di Genova, ordinanza del 29.11.2020 e Tribunale di Roma, ordinanza 7546/2018).
Il ricorso d’urgenza al Tribunale ordinario e la sospensione dell’espulsione
Nonostante l’errore del Giudice di Pace che non ha accolto la questione preliminare di incompetenza sollevata dalla difesa durante l’udienza di convalida (celebratasi da remoto), il ricorrente è stato poi liberato dopo che è stata accolta la domanda cautelare di sospensione dell’atto presupposto e giustificativo del trattenimento: il provvedimento di espulsione.
Il Tribunale ordinario di Roma ha dapprima “condiviso la tesi del ricorrente in punto di competenza, giacchè ai sensi dell’art. 1, co. 2 bis, D.L: 241/2004, introdotto in sede di conversione con L. 271/2004, è competente il tribunale ordinario ( e non il giudice di pace) a conoscere delle controversie relative all’ espulsione amministrativa qualora sia pendente un giudizio in materia di unità familiare (art. 30, co. 2, TU) ovvero una richiesta di autorizzazione alla permanenza del familiare di minore straniero (art. 31, co. 3, TU), come documentato nel caso di specie”; per poi entrare nel merito della vicenda e, come osservato, ha sospeso il provvedimento per “la sussistenza del rischio di un danno grave ed irreparabile in connessione ad un eventuale allontanamento del ricorrente dal territorio, senza contare che in presenza di figli minori l’interesse statuale all’allontanamento dovrà comunque essere bilanciato con l’interesse superiore di questi ultimi, trattandosi di provvedimento destinato inevitabilmente ad incidere sull’unità familiare (cfr anche art. 28 comma 3 d.lvo 286/98)
Conclusioni
Il caso sottoposto al vaglio del Tribunale di Roma è di sicuro interesse per almeno due ordini di ragioni.
In primo luogo denota un’insufficiente attenzione del giudice di pace a quelli che sono ormai principi consolidati nel nostro ordinamento relativi alla competenza del tribunale ordinario (e non già del giudice di pace) in tutti i procedimenti di limitazione della libertà personale comunque afferenti a soggetti che hanno pendenti un “giudizio in materia di unità familiare (art. 30, co. 2, TU) ovvero una richiesta di autorizzazione alla permanenza del familiare di minore straniero (art. 31, co. 3, TU).”
Nonostante il chiaro disposto normativo della legge 271/2004 e la costante giurisprudenza, ciò non solo ha comportato l’lllegittimità del trattenimento protrattosi per complessivi 10 giorni (con possibile danno erariale in caso di richiesta di risarcimento del danno) ma corrobora la tesi della dottrina secondo cui è opinabile l’attribuzione ad un giudice non togato di materie così delicate e che afferiscono alla limitazione della libertà personale, di rilievo costituzionale (art. 13 Costituzione).
Su un piano generale, la vicenda sottesa alla decisione in commento palesa l’inattuazione del principio sancito dall’art. 27, comma 3 della Costituzione secondo cui la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. Ed infatti l’espulsione dello straniero a fine pena è l’epilogo scontato nella stragrande maggioranza dei casi; un automatismo che di fatto stride con il principio di proporzionalità almeno quando – come nel caso di specie – il reato è risalente nel tempo, non vi è recidiva, il condannato ha dato prova durante l’esecuzione della pena di essersi ravveduto e vi sono altri interessi (ad es. il superiore interesse dei minori) che devono prevalere in assenza dell’attualità della pericolosità dell’interessato.
D’altronde la Corte europea dei Diritti dell’Uomo in tema d’interpretazione dell’art. 8 della Convenzione Edu ha chiarito che, nonostante la Convenzione non garantisca allo straniero il diritto di entrare o risiedere in un determinato Paese, in ogni caso l’espulsione, pur costituendo un’interferenza nella vita privata o familiare, può ritenersi giustificata ai sensi del par. 2 dell’art. 8, purché avvenuta in conformità della legge e nel perseguimento del legittimo scopo di prevenire disordine e reati, individuando una serie di elementi la cui valutazione consente di stabilire, nel caso concreto, se la misura adottata possa considerarsi ragionevole e proporzionata: a) la natura e la gravità del reato commesso dal richiedente, b) la durata del soggiorno nel Paese da cui dev’essere espulso, c) il tempo trascorso dalla commissione del reato e la condotta tenuta dal richiedente, d) la nazionalità delle persone interessate, e) la situazione familiare del richiedente, ivi compresa la durata del matrimonio ed altri fattori sintomatici dell’effettività della vita di coppia, f) la conoscenza del reato da parte del coniuge al tempo dell’instaurazione del vincolo familiare, g) l’esistenza di figli e la loro età, h) le difficoltà che il coniuge potrebbe incontrare nel Paese verso il quale il richiedente dev’essere espulso, i) l’interesse ed il benessere dei figli, in particolare le difficoltà che ciascuno di essi potrebbe incontrare nel Paese verso il quale il richiedente dev’essere espulso, l) la solidità dei legami sociali, culturali e familiari con il Paese ospite e con quello di destinazione (cfr. ex plurimis, Corte EDU, 23/10/2018, Assem Hassan Ali c. Danimarca; 1/12/2016, Salem c. Danimarca; 3/07/2012, Samsonnikov c. Estonia; 7/04/2009, Cherif e altri c. Italia).
Ne consegue che il principio di proporzionalità e ragionevolezza della espulsione, nei termini delineati dalla Corte Edu, ed il principio della finalità rieducativa della pena di cui all’art. 27 comma 3 della Costituzione devono essere sempre considerati quali parametri da utilizzare nelle decisioni relative alle espulsioni degli stranieri con precedenti penali ed ogni automatismo espulsivo fondato esclusivamente sull’esistenza di precedenti penali deve ritenersi illegittimo.
Sommario: 1.La sussistenza del rapporto di causalità nella fisiologia «debitoria» dell’interruzione del «nesso causale»; 2.L’«irretrattabilità» dell’azione penale; 3.Conclusioni.
1.La sussistenza del rapporto di causalità nella fisiologia «debitoria» dell’interruzione del «nesso causale».
La condotta illecita, implica, endemicamente all’esperibilità dell’azione penale da imputarsi all’evento dannoso o actio delicti da rilevarsi, l’individuazione della «genetica» orogenesi, chiarificatrice quest’ultima, delle connesse o sconnesse, proposizioni «causali» di relativa inerenza.
La genetica causale, si radicalizza, significativamente, nella estemporanea obiettiva o subiettiva «misura», pertinente, al materiale «effetto-conseguenza» dell’«azione» o «omissione» generata dal reo.
Tale c.d. «effetto-conseguenza», è definibile ai sensi dell’art. 40 c.p., quale «nesso causale».
Il «nesso causale», può essere, verosimilmente, soggetto, nei termini del predetto articolo, a una condizione di c.d. «interruzione», o, più propriamente, di sospensione o scollamento tra condotta ed evento, assimilante, come noto, e, perciò stesso, una sostanziale «interruzione causale».
Ciononostante, si potrebbe ipotizzare, dal punto di vista meramente teorico-applicativo, che una genesi causale, continui a persistere, e, a mantenere in sé, intrinsecamente «integra», l’identificazione di specie del suddetto «nesso causale» originario di prima facie.
Ovvero, la partenogenesi giuridica della «significanza causale» attribuibile alla fattispecie ivi rappresentabile, presente, incondizionatamente, endemicamente alla cognitività di valore, e di valutazione, di persistente presenza del proprio iniziale «nesso» caratteristico interiore o esteriore al fatto (o actio delittuosa) da oggettivare, formalmente, positivamente, e sostanzialmente, dichiarandone effetti propri, proprie conseguenze, prevalentemente sussistenti l’azione di sospensione o scollamento tra condotta ed evento in factum e in actio.
Ciò, potrebbe dare luogo, a più concreti risultati di «esperibilità» giudiziale, nei termini di una condizionalità «attiva» di ordine generale, riferibile alla
1
cognitività causale, non genericamente intesa, svelante una più consistente positiva congruità e consistenza probatoria del nesso di esternalità, di interiore concezione, del pretermesso «nesso di causalità» al di là di una sua eventuale, attribuibile, attiva o passiva, interruzione o sospensione.
2.L’«irretrattabilità» dell’azione penale.
Una recente sentenza della seconda sezione penale della Cassazione, in ordine alla pronuncia n. 18653/2021, ha ribadito l’acquisizione giurisprudenziale, e la relativa applicazione di «diritto», da parte dei giudici di merito, e della stessa Suprema Corte, della tassatività del principio d’«irretrattabilità» dell’azione penale.
L’inerente applicazione, presenta caratteri di «universalità» nel perimetro di definizione dato dai pertinenti criteri procedurali e di «valore».
Eppure, secondo quanto affermato dalla stessa Corte (nel rapportarsi alla fattispecie argomentata internamente alla predetta sentenza), sussistono, nondimeno, delle plausibili «obiezioni» di natura procedimentale, in ragione delle quali, il giudice di competenza, può avanzare, un’attività di sospensione o di relativo annullamento, da porsi, eventualmente, in essere, unicamente in sede giudicante, segnatamente ai fatti, in maniera pregressa, rilevati ed evidenziati, dal PM:
«[…]con riferimento alla “ratio” della disciplina dettata dall’art. 39 D. Lg.vo 231 del 2001, inducono il collegio a condividere la tesi secondo cui deve ritenersi abnorme l’ordinanza con cui il giudice, previa declaratoria di nullità di atti concernenti la posizione di taluni imputati, disponga la restituzione degli atti al PM anche in relazione alle posizione soggettive non attinte dalle predette nullità, determinando così un’indebita regressione del procedimento, in contrasto con il principio di irretrattabilità dell’azione penale e con il principio logico che non consente di ripetere atti già validamente e utilmente compiuti. (cfr., in tale senso, Cass. Pen., 2, 10.9.2015 n. 46.640, PM in proc. Ferrari ed altro; Cass. Pen., 1, 2.2.2016 n. 20.111, conf., comp. in proc. Zilio).».
Sensibilmente, integrabile, in materia, e, parimenti stimabile in ragione di ciò, la seguente disposizione n. 25911, fornitaci dalla Suprema Corte di Cassazione Penale, terza sezione, risalente al 1° agosto 1990 (rintracciabile a
1 Si consulti, a tal proposito, il codice di procedura penale, 48esima edizione commentata, curato da P. CORSO, Piacenza, 2021, pag. 1280, in materia di «b) Irretrattabilità dell’azione penale.».
2
chiusura della lettera «b)Irretrattabilità dell’azione penale», pag. 1280, Libro V – «Indagini e Udienza», Titolo VIII – «Chiusura delle indagini preliminari», art. 405 – «Inizio dell’azione penale. Forme e termini» con inerenza al c.p.p. e del Processo penale minorile, di P. Corso, ed. 2021) per la quale: «una volta che abbia chiesto il rinvio a giudizio, il P.M. nell’udienza preliminare, non può più chiedere l’archiviazione, ed il giudice di detta udienza, se non ritenga di disporre il giudizio, non può che emettere sentenza di non luogo a procedere.».
3.Conclusioni.
In nota alla presente breve riflessione, è nondimeno possibile, mettere teoricamente in rilievo, da un punto di vista finemente «relazionale» e «razionale» di genus a species, una possibile sostanzialità di «giuridica caducità», o «incongruità funzionale», sussistente tra evento e condotta, intrinsecamente alla sospensione o interruzione di un inerente «nesso di causalità».
Ciò si rivela potenziale forza creatrice di ordine normativo, intrinsecamente riconducibile, come noto, a una probabile previsione di una c.d. «inescusabilità dell’interruzione» del relativo nesso causale, interna a quell’«istintiva proporzionalità» presente tra movente ed effetto, che giuristi canonisti correlano, invero, alla causalità giuridica, giudiziaria e giudiziale.