Finalmente! Questo il commento a caldo che spesso si è sentito alla notizia della sentenza della Corte costituzionale n. 41 del 2018, depositata il 2 marzo.

Per lungo tempo, infatti, l’incertezza in ordine alla interpretazione dell’art. 656 co. 5 c.p.p. aveva portato ad una situazione paradossale. Accanto a uffici di Procura che – in conseguenza di una interpretazione “costituzionalmente orientata” della norma[1] – accompagnavano all’emissione degli ordini di carcerazione per pene tra i tre e i quattro anni il decreto di sospensione, la gran parte delle Procure d’Italia ha continuato ad emetterli ed eseguirli sulla base della intepretazione letterale della norma in questione, fatta propria in tempi recenti anche dalla Suprema Corte[2]. Tutto ciò, in attesa della pronuncia del giudice delle leggi sulla questione sollevata, con una articolata ordinanza, dal Tribunale di Lecce il 13 marzo 2017, in ordine alla costituzionalità dell’art. 656 co. 5 c.p.p., sia in rapporto all’art. 3 che all’art. 27 co. 3 Cost.

In realtà, la tematica, emersa in giurisprudenza solo dal 2016, doveva farsi risalire al momento dell’introduzione nel sistema, con uno dei decreti c.d. “svuotacarceri” (DL 146/2013), dell’affidamento c.d. “allargato”, inserito nel co. 3 bis dell’art. 47 OP per pene anche residue fino ai quattro anni. Poco dopo l’introduzione della misura, era stato autorevolmente evidenziato[3] il mancato coordinamento della disposizione con la norma sulla sospensione dell’esecuzione, che palesemente la rendeva inapplicabile per chi volesse accedervi dallo stato di libertà, nonostante il tenore della disposizione (la misura è concedibile al condannato con una pena anche residua fino a quattro anni “quando abbia serbato, quantomeno nell’anno precedente alla presentazione della richiesta, trascorso in espiazione di pena, in esecuzione di una misura cautelare ovvero in libertà, un comportamento tale da consentire il giudizio di cui al secondo comma“).

Nonostante la sollecitazione, il legislatore ha affrontato la questione solo con la legge delega sull’ordinamento penitenziario. Nell’art. 1 co. 85 lett. c) L. 103/2017 si è infatti previsto uno specifico e indiscutibile criterio per il legislatore delegato (“revisione della disciplina concernente le procedure di accesso alle misure alternative, prevedendo che il limite di pena che impone la sospensione dell’ordine di esecuzione sia fissato in ogni caso a quattro anni”), che non si è tuttavia ancora tradotto in una disposizione direttamente applicabile, posto che l’iter di approvazione del decreto legislativo di riforma dell’ordinamento penitenziario è tuttora in corso[4].

Proprio in conseguenza dell’entrata in vigore della L. 103/2017 (3 agosto 2017), alcuni provvedimenti di giudici di merito, già pubblicati in questa rivista[5], hanno accolto incidenti di esecuzione proposti rispetto a pene ricomprese tra i tre e i quattro anni poste in esecuzione. Si è infatti ritenuto, superando anche le più recenti decisioni della Cassazione già citate che hanno escluso la possibilità di una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 656 co. 5 c.p.p. (riguardanti però ordini di esecuzioni emessi prima di tale data), che l’entrata in vigore della legge 103 del 2017 abbia mutato il quadro normativo. In conformità con i principi espressi da Corte cost. 224/90, infatti, i criteri e principi direttivi aventi carattere di specificità devono essere ritenuti operativi anche prima della loro traduzione in decreto legislativo, e dunque l’interpretazione ad essi conforme è l’unica rispettosa dei criteri interpretativi tra i quali l’”intenzione del legislatore” di cui all’art. 12 delle preleggi.

In questo quadro si inserisce la tanto attesa decisione della Corte costituzionale, che, ritenuta la violazione dell’art. 3 Cost., ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 656 co. 5 c.p.p., nella parte in cui si prevede che il pubblico ministero sospende l’esecuzione della pena detentiva, anche se costituente residuo di maggiore pena, non superiore a tre anni, anziché a quattro anni.

La Corte ha fugato ogni dubbio, affermando che “mancando di elevare il termine previsto per sospendere l’ordine di esecuzione della pena detentiva, così da renderlo corrispondente al termine di concessione dell’affidamento in prova allargato, il legislatore non è incorso in un mero difetto di coordinamento, ma ha leso l’art. 3 Cost. Si è infatti derogato al principio del parallelismo senza adeguata ragione giustificatrice, dando luogo ad un trattamento normativo differenziato di situazioni da reputarsi uguali, quanto alla finalità intrinseca alla sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva e alle garanzie apprestate in ordine alle modalità di incisione della libertà personale del condannato”.

Il giudice delle leggi ha evidenziato come la struttura dell’affidamento in prova al servizio sociale per pene sino a quattro anni sia costruita per consentire espressamente ai condannati in libertà di fruirne (con il riferimento alla condotta serbata nell’anno precedente alla esecuzione della pena appunto in tale stato) e come la mancata sospensione dell’ordine di esecuzione, per consentire al condannato di chiedere l’applicazione della misura alternativa alla detenzione e di attendere la decisione del Tribunale di Sorveglianza, “renderebbe impossibile la concessione della misura alternativa prima dell’ingresso in carcere”.

Lo spazio di discrezionalità del legislatore nel prevedere un trattamento diverso tra condannati detenuti e liberi non può dunque trovare spazio rispetto ad una disposizione che espressamente li equipara, come l’art. 47 co. 3 bis OP.

La Corte, che non esamina dunque la censura con riferimento all’art. 27 co. 3 Cost.,non entra nel merito delle conseguenze della propria decisione con riguardo a due diversi aspetti.

Da un lato, non prende in esame uno degli argomenti fatti propri dall’Avvocatura dello Stato, con riferimento alla necessità di una valutazione della personalità del condannato per l’applicazione dell’affidamento allargato; tale argomento si era spesso tradotto, nei provvedimenti di merito sul tema, in preoccupazioni in ordine alla presunta necessità da parte del pubblico ministero dell’esecuzione di esercitare un potere discrezionale rispetto al parametro della “buona condotta” nell’anno anteriore all’esecuzione. Tali preoccupazioni sono state peraltro superate (implicitamente anche dalla Corte) dalla considerazione per cui non è l’ufficio di Procura a dovere valutare il merito della domanda (e dunque la sussistenza effettiva di una condotta idonea rispetto al giudizio prognostico sul condannato), bensì la magistratura di sorveglianza, autorità giudiziaria “attrezzata” rispetto a tale tipo di valutazione. La sospensione sarà dunque un atto automatico in presenza di una pena da eseguire pari o inferiore a quattro anni.

Da un altro punto di vista, non vi sono indicazioni nella decisione 41/18 in ordine alle conseguenze sul sistema della pronuncia. E’ banale osservare come le sentenze di accoglimento di questioni di legittimità costituzionale abbiano efficacia ex tunc, fatti salvi i c.d. “rapporti esauriti”[6] . La questione riguarda la necessità di definire il concetto di “rapporto esaurito” rispetto alla dichiarata incostituzionalità della norma processuale che dà il via alla fase di esecuzione della pena. Se è chiaro che l’esaurimento del rapporto non possa consistere nella emissione dell’ordine (e dunque che la disapplicazione della norma incostituzionale non possa essere applicata solo ai procedimenti di esecuzione futuri), occorre valutare se la dichiarazione di incostituzionalità travolga tutti gli ordini di esecuzione emessi dal momento dell’entrata in vigore del DL 146/2013 che ha introdotto l’affidamento “allargato”. Le alternative possibili sono due: essa potrà colpire tutte le situazioni in cui lo stato detentivo sia ancora in corso oppure soltanto quelle in cui non sia ancora intervenuta una decisione del Tribunale di Sorveglianza sulla misura alternativa alla detenzione. Certo, gli effetti pregiudizievoli tuttora in corso – rispetto ad una norma che tanto pesantemente ha inciso sulla libertà personale di tante persone – non possono proseguire[7]. Ci sarà molto lavoro nei prossimi mesi per i giudici dell’esecuzione.

[1] Interpretazione legittimata da due interventi della Corte di Cassazione del 2016 (Cass. Sez. I, 4 marzo 2016, n. 37848 e Cass. Sez. I, 31 maggio 2016, n. 51864) e confermata da Cass. Sez. F.eriale, 24 agosto 2017, n. 39889.
[2] Cass. Sez. I, 21 settembre 2017, n. 46562, nonché Cass. Sez. I, 30 novembre 2017, n. 1784
[3] Il CSM, nel parere ex art. 10 L. 195/58 sulla normativa reso nella seduta del 23 gennaio 2014, aveva sottolineato come “ragioni di coerenza sistematica potrebbero suggerire l’allineamento tra le previsioni del riformato art. 47 ord. pen. e quelle dell’art. 656, comma 5, c.p.p. in tema di sospensione dell’esecuzione della pena, così come segnalato dalla Commissione Mista per lo studio dei problemi della magistratura di sorveglianza nel corso della seduta del 20 gennaio 2014”.
[4] Nello schema di decreto inviato alle commissioni giustizia delle Camere, la riformulazione in questo senso dell’art. 656 c.p.p. è ricompresa nell’art. 5 co. 1 lett. a) che, tra l’altro, modifica il co. 5 con il riferimento unitario alla pena di misura non superiore a quattro anni per la sospensione dell’esecuzione.
[5] http://www.giurisprudenzapenale.com/2017/08/28/sospensione-delle-pene-sino-4-anni-reclusione-affidamento-allargato-unaltra-decisione-conforme-del-tribunale-milano/
[6] Il principio si ricava dall’art. 30 co. 3 L. 87/53, il quale – determinando gli effetti delle decisioni di accoglimento nei termini di un divieto di applicazione delle norme dichiarate incostituzionali dal giorno successivo alla loro pubblicazione – implica l’esclusione dal loro “raggio di azione” di tutte quelle situazioni in relazione alle quali le norme censurate non possono trovare applicazione, per l’operare – in base ai comuni principi dell’ordinamento – di una “ragione preclusiva” (così GHERA, La “retroattività” delle sentenze di accoglimento in un’interessante pronuncia della Cassazione, in http://www.osservatorioaic.it/la-retroattivit-delle-sentenze-di-accoglimento-in-un-interessante-pronuncia-della-cassazione.html).
[7] Si segnala l’interessante riflessione di CHIAVARIO, Norme processuali penali nel tempo: sintetica rivisitazione (a base giurisprudenziale) di una problematica sempre attuale, in http://www.lalegislazionepenale.eu/wp-content/uploads/2017/08/studi_chiavario_2017.pdf, secondo cui “è comunque indiscutibile l’impegno giurisprudenziale alla ricerca di “nuovi” sbarramenti ostativi a una totale ripercussione “all’indietro” delle declaratorie d’incostituzionalità di norme processuali penali: con tentativi che –talvolta non privi di artificiosità e strumentali che possano essere- non vorrebbero però più mettere in discussione, in via di principio, l’irretroattività delle sentenze “di accoglimento” di questioni di costituzionalità. Ne è scaturita una sempre più articolata attenzione per il discernimento di segmentazioni, all’interno dei procedimenti penali, tali da dar corpo alle più varie forme di decadenze o di preclusioni, con conseguente moltiplicarsi di quei “rapporti esauriti” cui, come già si è visto, da sempre anche la Corte costituzionale ha riconosciuto rilievo in relazione alla problematica in esame”.