DELITTI CONTRO LA P.A.: RESISTENZA A PUBBLICO UFFICIALE

In via preliminare, si osserva che la fattispecie penale incriminatrice della resistenza a pubblico ufficiale è da considerare come un delitto di medio allarme sociale. Tuttavia, l’allarme sociale generato e prodotto dal predetto reato può, talvolta, crescere ulteriormente ed essere, quindi, il presupposto, l’antefatto per la realizzazione di più gravi reati quali ad esempio l’omicidio.

Il legislatore penale colloca la resistenza a un pubblico ufficiale nel libro II del codice penale, nel titolo II (Dei delitti contro la pubblica amministrazione), nel Capo II (Dei delitti dei privati contro la pubblica amministrazione). Pertanto, l’articolo 337 del vigente codice penale stabilisce che: “Chiunque usa violenza o minaccia per opporsi a un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio, mentre compie un atto di ufficio o di servizio, o a coloro che, richiesti, gli prestano assistenza, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni”.

Si tratta di un reato comune, giacché può essere commesso da una qualsiasi persona fisica, di danno , in quanto richiede l’offesa in senso naturalistico del bene protetto, di mera condotta ed a forma libera, poiché può essere realizzato con qualsiasi condotta idonea al raggiungimento dello scopo. Inoltre, il tentativo è pienamente configurabile.

Il soggetto passivo del reato in commento può essere un pubblico ufficiale[1], un incaricato di un pubblico servizio ovvero chiunque, da questi richiesto, presti loro assistenza. Tuttavia, si deve correttamente rilevare che non rientrano fra i soggetti passivi gli esercenti un servizio di pubblica necessità (ad esempio gli avvocati).

In tema di resistenza a pubblico ufficiale il bene giuridico protetto è quello della sicurezza e della libertà di azione, di movimento del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio contro specifici fatti di opposizione violenta. In particolare, per la configurabilità dell’elemento materiale della violenza nel reato di resistenza a pubblico ufficiale non è necessario che la condotta violenta ponga in pericolo l’integrità fisica del soggetto passivo, poiché il delitto di cui all’articolo 337 c.p. è un reato contro la Pubblica Amministrazione e non contro la persona. Infatti, è sufficiente l’esistenza di una condotta idonea ad impedire l’esecuzione dell’atto di ufficio. Si ritiene che la materialità del delitto di resistenza al pubblico ufficiale sia integrata pure dalla violenza cosiddetta impropria, la quale, pur non aggredendo direttamente il predetto soggetto, si ripercuote sfavorevolmente nell’esplicazione della relativa funzione pubblica, impedendola o semplicemente ostacolandola.

Inoltre, la condotta penalmente rilevante deve intendersi rappresentata da qualunque attività commissiva od omissiva che si trasponga in un atteggiamento, anche talora implicito, purché percepibile “ex adverso”, che impedisca, ostacoli, intralci ed valga a compromettere, anche solo parzialmente e temporaneamente la regolarità del compimento dell’atto di ufficio o di servizio da parte del pubblico ufficiale o dell’ incaricato di un pubblico servizio. Dalla lettura della norma viene in evidenza che l’atto dell’ufficio o del servizio deve aver avuto almeno un principio di esecuzione. Infatti, l’utilizzazione normativa dell’avverbio “mentre” determina la necessaria contestualità tra la resistenza e l’attività del pubblico funzionario.

Tuttavia, non ogni reazione minacciosa è valida ad integrare il reato in commento. Infatti, non integra il reato di cui all’art. 337 codice penale la reazione minacciosa posta in essere nei confronti del pubblico ufficiale dopo che questi abbia già svolto l’atto del proprio ufficio e senza, dunque, la finalità di opporvisi. (Cassazione penale, sezione VI, sentenza 2 marzo 2011, n. 8340) Inoltre, estranea ai confini della condotta violenta o minacciosa è la cosiddetta resistenza passiva consistente in comportamenti meramente difensivi quali buttarsi a terra o rifiutarsi di obbedire, anche nel caso in cui il pubblico ufficiale sia costretto ad adoperare violenza per vincerla (si veda in tal senso la Cassazione penale, Sezione VI sentenza 06 novembre 2012 n. 10136).

Il coefficiente psicologico[2] ricercato è il dolo specifico[3], in quanto oltre alla coscienza e volontà della violenza o minaccia è richiesta l’ulteriore finalità di impedire che l’agente pubblico esegua l’atto del suo ufficio. Tuttavia, si deve osservare che nel reato in commento sono estranei, per l’individuazione dell’elemento soggettivo, la causa ed il fine del soggetto del reato.

Secondo un importante insegnamento del Supremo Collegio, l’elemento intenzionale del delitto di resistenza a pubblico ufficiale si concreta nella coscienza e volontà dell’agente di usare violenza o minaccia per opporsi al soggetto tutelato mentre sta compiendo o si sta adoperando per compiere il proprio atto d’ufficio o di servizio, senza che abbia rilevanza il fatto che la violenza o minaccia cada su cose anziché sulle persone, quando essa sia idonea ad impedire o, comunque, turbare od ostacolare l’attività funzionale del pubblico ufficiale. (Cassazione penale, sezione VI, sentenza del 27 maggio 1986 nr. 4325) In sostanza, il predetto principio di diritto, correttamente enucleato dalla Cassazione, chiarisce che per la realizzazione ed il perfezionamento del reato in commento è indifferente che la condotta antigiuridica della violenza o della minaccia avvenga ed cada su cose piuttosto che sulle persone.

Nel reato di resistenza a pubblico ufficiale l’elemento psicologico consiste nella coscienza e volontà di precludere al pubblico ufficiale con una condotta minacciosa e violenta l’atto d’ufficio ritenuto pregiudizievole per i propri interessi. Ne consegue che risponde del reato su indicato colui il quale abbia nei confronti di un vigile urbano in servizio e che gli richieda dei documenti per l’identificazione una condotta tanto violenta da produrgli delle lesioni personali. (Cassazione penale, sezione VI, sentenza 14 marzo 1986, n. 2089)

La resistenza a pubblico ufficiale è, purtroppo, un reato molto diffuso e di frequente verificazione nell’attuale società civile. Si pensi, solo per fare un esempio, alla condotta del conducente di un automezzo che, senza fermarsi all’alt degli agenti di un organo di polizia stradale, decida di speronare violentemente ed a forte velocità l’autovettura di servizio degli agenti di polizia proprio al fine di non consentire loro l’espletamento di un atto d’ufficio.

Inoltre, desta particolare interesse per la sua portata chiarificatrice una sentenza della Corte di Cassazione che affronta la problematica del reato continuato , del concorso formale di reati ed anche quella del rapporto fra il tentato omicidio e la resistenza a pubblico ufficiale. Il giudice delle leggi, in riferimento a quanto esposto in precedenza, ha stabilito che : “Il reato di resistenza a pubblico ufficiale assorbe soltanto quel minimo di violenza necessario per impedire al pubblico ufficiale il compimento di un atto del suo ufficio, mentre l’omicidio, travalicando detto limite, attenta direttamente alla vita od all’incolumità del soggetto passivo; i due reati possono concorrere, stante la diversità dei beni giuridici tutelati e le differenze qualitative e quantitative della violenza esercitata contro il pubblico ufficiale”. Nella predetta fattispecie la Suprema Corte ha opportunamente ed correttamente ravvisato il concorso formale tra i reati di resistenza a pubblico ufficiale e tentato omicidio nella condotta dell’indagato che, in fuga a bordo di un’autovettura appena rapinata, aveva a più riprese tentato di investire la motocicletta a bordo della quale due agenti di P.G. lo inseguivano. (Cassazione penale, sezione II, sentenza 18 ottobre 2007, n. 38620).

Si osserva, nuovamente, che nella resistenza a pubblico ufficiale può essere applicato anche l’istituto giuridico del reato continuato (art. 81 c.p.). Infatti, la plurima violazione della legge penale può avere ad oggetto la stessa norma prevista dall’articolo 337 c.p. Pertanto, solo per fare un esempio, qualora la pubblica funzione sia esercitata da una pluralità di pubblici ufficiali o incaricati di un pubblico servizio attraverso singole azioni che si integrano a vicenda, la pluralità delle contrapposte reazioni minacciose o violente con cui l’autore della resistenza intenda bloccare le predette complesse funzioni rientra nel paradigma del reato continuato.

Inoltre, merita di essere brevemente trattato anche il profilo del concorso di persone nel reato. Proprio in riferimento a quest’ultimo punto, si osserva che la mancanza del previo concerto non condiziona la configurabilità del concorso di persone nel reato, essendo sufficiente l’intesa anche spontanea intervenuta nel corso dell’esecuzione del fatto criminoso.

In riferimento ai rapporti che intercorrono con altre fattispecie penali incriminatrici molto interessante ed articolato si presente il seguente principio di diritto: “Quando la violenza esercitata, per assicurarsi il possesso della cosa oggetto del reato di rapina o l’impunità, nei confronti del pubblico ufficiale, al fine di opporsi mentre compie un atto dell’ufficio, eccede il fatto di percosse e volontariamente provoca lesioni personali, si determina il concorso tra i delitti di rapina e resistenza e quello di lesioni, e per quest’ultimo sussiste l’aggravante della connessione teleologica, a nulla rilevando che reato – mezzo e reato – fine siano integrati dalla stessa condotta materiale”. (Cassazione penale, sezione II, sentenza 18 luglio 2005 nr. 26435)

Sempre in riferimento ai rapporti con altri reati la giurisprudenza di legittimità ha enucleato il seguente principio di diritto : “È configurabile il reato di resistenza a pubblico ufficiale, e non quello previsto dall’art. 336 c.p., nella condotta di colui che minaccia un agente di polizia per opporsi all’esecuzione di un sequestro, quando dopo l’apprensione materiale della res sia ancora necessario provvedere alla compilazione degli atti conseguenti al sequestro”. (Cassazione penale, sezione VI, 10 ottobre 2008, n. 38566)

Orbene, sulla base della precedente riflessione e considerazione, si osserva che è proprio il criterio cronologico che differenzia la resistenza a p.u. dalla violenza o minaccia a p.u. Infatti quando l’atto attende ancora di essere compiuto (prima dell’inizio della sua esecuzione) è possibile il delitto di violenza o minaccia mentre, invece, quando l’atto è iniziato (in via di compimento) e sino al termine della sua esecuzione è possibile il delitto di resistenza.

Restano ancora da analizzare alcune brevi note procedurali per il reato in commento. Si tratta di un reato procedibile d’ufficio che è di competenza del Tribunale in composizione monocratica (art. 33 – ter c.p.p.) ; la misura pre-cautelare dell’arresto[4] è facoltativa mentre, invece, il fermo di persona indiziata di delitto non è consentito. Inoltre, la misura cautelare della custodia cautelare in carcere è consentita al pari di tutte le altre misure cautelari personali. L’azione penale si esercita con il decreto di citazione diretta a giudizio e l’udienza preliminare non è prevista. Il reato si prescrive nel termine di sei anni e la declaratoria di non punibilità per tenuità del fatto risulta essere possibile.

Al delitto di resistenza a pubblico ufficiale si applica, altresì, l’esimente di cui all’articolo 393-bis c.p. (Causa di non punibilità). Infatti, secondo l’insegnamento della Cassazione Penale, sezione VI, sentenza 14 aprile 2011, n. 18841, è configurabile l’esimente della reazione ad atti arbitrari del pubblico ufficiale qualora il privato opponga resistenza al pubblico ufficiale che pretenda di sottoporlo a perquisizione personale finalizzata alla ricerca di armi e munizioni in assenza di elementi obiettivi idonei a giustificare l’atto, e dopo averlo accompagnato coattivamente in caserma in ragione del precedente rifiuto non già di declinare le generalità, ma di esibire i documenti di identità. In sintesi, la causa di non punibilità, di cui all’articolo 393 bis c.p., deve essere applicata ogni qual volta il pubblico ufficiale, l’incaricato di un pubblico servizio ovvero il pubblico impiegato abbiano dato causa al fatto previsto dall’articolo 337 c.p., eccedendo con degli atti arbitrari i limiti delle loro proprie attribuzioni di legge.

In ultima analisi, si osserva come sussiste l’elemento soggettivo del delitto di resistenza a pubblico ufficiale allorchè l’autore del fatto sia consapevole che il soggetto contro il quale è diretta la violenza o la minaccia rivesta la qualità di pubblico ufficiale e stia svolgendo un’attività del proprio ufficio. (Cassazione penale, sezione VI, sentenza 16 aprile 2004, n. 17701)

(A cura del Dott. Alessandro Amaolo, Specializzato nelle Professioni Legali con indirizzo Giudiziario – Foresnse ed abilitato all’esercizio della professione di avvocato presso la Corte di Appello di Ancona)

[1] Le guardie giurate, ancorché in servizio presso pubbliche amministrazioni, svolgono esclusivamente compiti di tutela delle entità patrimoniali affidate alla loro sorveglianza e non possono assumere, pertanto, la qualità di pubblici ufficiali o di incaricati di pubblico servizio quando intervengano, al di fuori delle loro attribuzioni istituzionali, per sedare una lite insorta fra un privato ed un pubblico dipendente. Infatti, nella predetta fattispecie la Suprema Corte ha escluso la configurabilità del reato di cui all’art. 337 c.p. (Cassazione penale, sezione VI, sentenza 05 dicembre 2008, n. 45444)

[2] Nel delitto di resistenza a pubblico ufficiale, l’elemento psicologico consiste nella coscienza e volontà di precludere, con la propria condotta minacciosa o violenta, la possibilità di compiere l’atto di ufficio ritenuto pregiudizievole ai propri interessi. (Cassazione penale, sezione VI, sentenza 5 febbraio 1988, n. 1506)

[3] In tema di resistenza a pubblico ufficiale il dolo specifico si concreta nella coscienza e volontà di usare violenza o minaccia al fine di opporsi al compimento di un atto dell’ufficio, mentre del tutto estranei sono lo scopo mediato ed i motivi di fatto avuti di mira dall’agente. (Cassazione penale, sezione VI, sentenza 25 agosto 1995, n. 9119)

[4] In tema di arresto facoltativo in flagranza, il controllo, che il giudice che procede alla convalida dell’arresto è tenuto a compiere ai sensi dell’art. 391 c.p.p., deve limitarsi all’accertamento delle condizioni di legittimità dell’arresto stesso (quali la flagranza del reato e i presupposti indicati dagli artt. 385 e 386 cod. proc. pen.), non potendosi estendere alla verifica dei presupposti per l’affermazione di responsabilità, che, per la complessità dei canoni di riferimento, deve ritenersi riservata al giudice della cognizione. (Cassazione penale, sezione VI, sentenza 17 febbraio 2009, n. 6878)

Denuncia per violazione dell’art. 650 c.p.: è ammessa l’oblazione?

L’istituto dell’oblazione figura tra le cause estintive del reato ed è contemplata negli art. 162 e 162 bis del codice penale[1].

Nel linguaggio corrente sta a significare offerta, contribuzione volontaria e spontanea, pienamente in sintonia con l’accezione latina oblatio, corrispondente appunto di offerta. Giuridicamente l’oblazione, istituto di natura strettamente sostanziale, si configura come il pagamento di una determinata somma di denaro da parte del contravventore per mezzo del quale quest’ultimo estingue il reato in questione.
La necessità di prevedere giuridicamente tale istituto e di estenderne il più possibile l’ambito di applicazione fu avvertita già dal legislatore del ’30 con la finalità tanto pratica quanto giuridica di rendere rapidi e minimi i già numerosi procedimenti penali per reati contravvenzionali.

Occorre sottolineare a questo proposito l’interessante rapporto che intercorre tra l’oblazione stessa e l’istituto della depenalizzazione poiché infatti maggiormente numerosi saranno i reati penali depenalizzati minore sarà il campo operativo fornito dal beneficio di oblare.
Il nuovo codice di procedura penale infatti rivela una spiccata preferenza per il ricorso agli strumenti processuali finalizzati ad evitare lo svolgimento del dibattimento, scelta codicistica giustificata ampiamente dall’esperienza dei paesi anglosassoni dove si è ritenuto “del tutto incongruo e antieconomico prevedere il passaggio alla fase dibattimentale in caso di ammissione da parte dell’imputato delle proprie responsabilità, cioè in situazioni in cui l’unico aspetto controverso può essere la determinazione in concreto della pena”.

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La funzione deflattiva riconosciuta all’oblazione viene ribadita dall’art. 141 disp. att. la cui ratio ispiratrice si identifica in una sollecitazione della definizione dei procedimenti mediante l’avvalimento dell’oblazione, qualora naturalmente ne sussistano i presupposti.

Inoltre reciprocamente al disposto dell’art. 464, secondo comma, c.p.p. 1988[2], si impone l’obbligo di informare l’imputato nel decreto penale della facoltà di poter chiedere di essere ammesso al beneficio del pagamento e della conseguente estinzione del reato.
Tuttavia l’avviso non si rende necessario quando provenga dal pubblico ministero all’interessato in qualsiasi momento anteriore alla richiesta di emissione del decreto penale attribuendo così al pubblico ministero stesso, in accordo con la sua posizione nel nostro processo, in chiaro impulso processuale per la sollecita definizione dl procedimento in alternativa al dibattimento.
Qualora l’avviso in oggetto non venga formulato logica vorrebbe escludere la produzione di effetti giuridici invalidanti l’atto e il processo poiché la facoltà di beneficiare dell’oblazione non viene pregiudicata da tale omissione.
Tutto quanto detto aiuta sicuramente a ritenere il procedimento oblativo appartenente al genus dei procedimenti semplificati; con il ricorso all’oblazione infatti si ottiene l’effetto di evitare alcune fasi tipiche dello schema ordinario del processo penale attuando la funzione deflattiva propria dell’oblazione finalizzata a scoraggiare la celebrazione del dibattimento.
In questo senso l’oblazione pur essendo contemplata in singole disposizioni normative piuttosto che essere situata nel libro IV del nuovo codice di procedura penale (art. 438 e ss.) va ritenuta una tipologia procedimentale alternativa, sia sul piano logico vista la natura dell’istituto, e sia su quello strettamente letterale con il dato formale dell’intestazione della rubrica dell’art. 141 disp. att., coord. trans. 1989 sul “procedimento di oblazione”.
Comparativamente con gli altri procedimenti speciali quello dell’oblazione, a dispetto degli altri istituti caratterizzati dalla discrezionalità del rappresentante dell’accusa nella prestazione dell’eventuale consenso e dall’assenza di un penetrante controllo giudiziale, rimette la decisione del giudice al rispetto di parametri valutativi determinati dalla legge.

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Infatti mentre l’oblazione, anche quella cosiddetta discrezionale, può essere ammessa in presenza di precisi presupposti il “patteggiamento” sul rito o sul merito invece non dipende da vincoli giuridici ben determinati.
Tuttavia in questo modo la figura del pubblico ministero nell’esercizio delle sue funzioni assume un ampio margine discrezionale che appare non del tutto giustificabile in un ordinamento giuridico caratterizzato dall’obbligatorietà dell’azione penale (art.112 Cost.) e dall’indipendenza del pubblico ministero (art.108, II comma, Cost.)[3]; nei sistemi infatti dove l’organo dell’accusa dipende dal potere esecutivo la discrezionalità nell’esercizio dell’azione penale trova un corrispettivo nella responsabilità politica del governo mentre diversamente il beneficio della discrezionalità per la pubblica accusa non regolata e limitata per legge deve considerarsi una forma di discrezionalità ingiustificata e inaccettabile[4].
La Corte Costituzionale a sostegno di tale opinione con alcune sue pronunce successive all’entrata in vigore del nuovo codice del 1988 ha ribadito la necessità di un rapido recupero dei poteri del giudice sulle determinazioni del pubblico ministero.

L’oblazione inoltre si caratterizza al pari di altri istituti deflattivi per la ricerca di strumenti alternativi sia al processo, quale strumento di verità, sia al sistema carcerario, quale trattamento indifferenziato del comportamento criminale, anticipando la conclusione del procedimento in una fase anteriore al dibattimento e preferendo la pena pecuniaria a quella detentiva breve.

Già al tempo del codice abrogato numerosi autori furono divisi nel definire la natura giuridica dell’oblazione poiché mentre alcuni, in accordo con l’opinione più diffusa, riconoscevano all’oblazione carattere di transazione, di amichevole componimento, di conciliazione[5], altri invece in accordo col pensiero di Pessina negavano la presenza di ogni idea di componimento, costituendo l’oblazione un atto di riconoscimento della propria reità da parte dell’imputato e di volontario assoggettamento alla pena[6].

Una terza tesi proposta dal Manzini[7] e accolta nei lavori preparatori del codice attuale definisce l’oblazione un diritto soggettivo individuale che produce l’effetto caratteristico di trasformare l’illecito penale in un illecito amministrativo.

Infatti l’imputato godendo del beneficio in questione rende da un lato possibile alla pubblica amministrazione di realizzare direttamente il suo fine repressivo e dall’altro di trasformare in sanzione amministrativa quella che secondo la norma rappresenta “la pena” comminata per il fatto commesso il quale, proprio grazie all’oblazione, non può più essere considerato come illecito penalmente punibile.
Quindi appare lecito affermare che l’atto di oblazione, in quanto manifestazione di una volontà diretta ad impedire il promovimento o la prosecuzione dell’azione penale, assume carattere di negozio giuridico unilaterale[8].
Per effettuare l’oblazione non si rendono necessarie la domanda scritta o raccolta a processo verbale essendo invece sufficiente il versamento in tempo utile presso l’ufficio del registro dell’importo determinato e qualora vi siano le condizioni di un certificato rilasciato dal cancelliere competente che attesti le spese occorse.
Successivamente cura dell’oblatore sarà di depositare presso la cancelleria dell’Autorità giudiziaria di primo grado, investita del procedimento e che può essere anche l’Alta Corte di Giustizia, la ricevuta che attesti l’avvenuto pagamento con la indicazione del procedimento cui si riferisce.
Nel caso in cui l’ammissione al beneficio venga proposta mediante domanda scritta o processo verbale, questa risulta essere completamente esente da tassa di bollo essendo atto in materia penale; non occorre che per la regolarità della domanda sia allegato il documento che prova il pagamento potendo tale pagamento effettuarsi anche in tempo successivo, sempre prima dell’apertura del dibattimento.

Dagli stessi articoli che regolano l’oblazione è possibile notare una sostanziale differenza giuridica con la conseguenza che la domanda di oblazione disciplinata dall’art. 162 dà luogo ad una situazione giuridica tutelata nelle forme del diritto soggettivo mentre l’art. 162 bis ad una fattispecie protetta dal diritto affievolito poiché in questo caso il godimento del beneficio è subordinato alla volontà discrezionale del giudice.
Se esistono divergenze tuttavia tra i due articoli non mancano punti di contatto come l’obbligo da parte del contravventore di una domanda espressa per poter godere del beneficio da presentare entro termini prestabiliti a pena di decadenza, la determinazione della somma di denaro da versare a titolo di oblazione che deve essere considerata sulla base di quanto disposto nell’art. 162 bis e che per effetto dell’ avvenuta oblazione non possono essere applicate misure di sicurezza e pene accessorie.
L’effetto proprio dell’oblazione è quello di estinguere il reato con la conseguente pronuncia del giudice di non potersi procedere oltre a causa dell’avvenuto pagamento effettuato dal contravventore, pronuncia che può essere decisa in qualsiasi momento del processo salvo la possibilità concessa al pubblico ministero di impugnarla con i mezzi consentiti in base al momento processuale in questione.

Fatto da sottolineare sia sotto il profilo giuridico che materiale consiste nel non dover ritenere in alcun modo la pronuncia del giudice una sentenza di condanna poiché non c’è nessuna decisione riguardo il merito penale antecedentemente paralizzato dal pagamento.
Inoltre spetterà al giudice civile stabilire una eventuale responsabilità del contravventore non importando mai l’oblazione forme di colpevolezza nei confronti di chi ha usufruito del beneficio.
Per quanto riguarda i termini relativi a tale istituto l’art. 162 c.p. consente il pagamento “prima dell’apertura del dibattimento, ovvero prima del decreto di ” condanna”.
Tuttavia in dottrina si è molto discusso sia della perentorietà sia del fondamento giuridico di tali termini ed è stato osservato che essendo l’oblazione uno strumento posto dalla legge a difesa dei propri diritti l’apposizione di una “scadenza” rappresenterebbe unicamente un limite temporale alla rappresentazione delle proprie ragioni “determinato dalla necessità di un ordinato svolgimento della difesa in relazione alle fasi e ai momenti processuali”.
In particolar modo ci si è chiesti se nel caso di rinvio del dibattimento di primo grado a nuovo ruolo ex art. 432 c.p.p. (trasmissione custodia del fascicolo per il dibattimento) il diritto al beneficio possa essere ancora consentito prima del dibattimento.

La dottrina a proposito ha dato parere favorevole affermando che l’art. 162 c.p. non intende l’espressione “per la prima volta” con riferimento all’apertura del dibattimento contemplata dall’art. 430 c.p.p. e aggiungendo che l’art. 432 c.p.p. stabilisce nel caso di rinvio che le parti possano attuare tutti i diritti a loro riconosciuti nel corso degli atti preliminari al giudizio salvo quelli per i quali si sia verificata decadenza, la quale non si determina in nessuna norma per il diritto all’oblazione.
In ogni modo quando si affronta il tema delle cause estintive del reato il discorso inevitabilmente non può che spostarsi sulla problematica della punibilità, cerchio all’interno del quale l’oblazione trova collocazione, limiti e regole di disciplina.

Innanzitutto bisogna premettere che in riferimento proprio alle cause estintive del reato l’orientamento della dottrina si traduce in una molteplicità di opinioni ciascuna delle quali analizza il problema dell’unitarietà di trattamento di ciascuna causa estintiva proponendone la relativa soluzione riguardo “una loro sistemazione dogmatica come autonoma categoria giuridica”[9].
Infatti pieno accordo è stato trovato unicamente nel ritenere inesatta la formula “cause di estinzione del reato” poiché il reato stesso in quanto atto pratico e volontario del soggetto non si può estinguere, factum infectum fieri nequit, e nel dover continuare ad usare tale terminologia, nonostante tutto, perché radicata nell’uso comune.
Il concetto stesso di estinzione è stato bersaglio di numerose critiche quando si considera il reato la causa e la pena l’effetto; non si può naturalmente pensare di poter eliminare la causa quando questa ha già prodotto i suoi effetti giuridici.
Tali contrasti dottrinari hanno legittimamente dato vita ad una serie diversa di tesi, larga parte della dottrina ritiene infatti che commesso un illecito penale lo Stato abbia il compito e il dovere giuridico di punire la persona in virtù di un rapporto punitivo che si viene dunque a creare in conseguenza dell’avvenuto reato.
Tuttavia un’altra parte della dottrina, altrettanto cospicua, ritiene invece che dalla commissione del reato nasca la cosiddetta punibilità, ossia la possibilità concreta di applicazione della pena prevista dall’ordinamento giuridico per il reato di specie da parte dello Stato[10].
Gli effetti propri della punibilità sono quelli di prevedere dunque in capo allo Stato la facoltà di punire mentre per il reo la assoggettabilità alla pena, quindi conseguenza del reato e non elemento costitutivo di esso; necessari, anche se talvolta non sufficienti, perché di punibilità possa parlarsi sono dunque la violazione di una qualsiasi norma del codice penale e soprattutto l’assenza di cause personali di esenzione della pena.
La teoria della estinzione della punibilità presta tuttavia il fianco ad opportune critiche nel momento in cui distingue una punibilità in astratto eliminata dalle cause di estinzione del reato da una punibilità in concreto nei confronti della quale operano le cause di estinzione della pena.

Nascendo la punibilità come conseguenza del reato è stato obiettato che la distinzione assume unicamente un carattere nominalistico lasciando immotivato l’interrogativo circa la domanda del perché alcune cause mantengano in vita alcuni effetti del reato lasciando ad altre il “compito” di estinguerli e non chiarendo inoltre il motivo di una trattazione non uniforme della punibilità stessa che si trasforma in una moltitudine di situazioni giuridiche alcune estinguibili contrariamente ad altre[11].
La legge prevede inoltre le cosiddette cause estintive della punibilità, cause speciali legislativamente disciplinate e distinte in due classi che possono, considerate nelle loro caratteristiche peculiari, estinguere il reato o la pena.
Gli effetti che tali cause estintive producono sono diversi poiché alcune di esse eliminano unicamente la pena principale, talvolta quelle accessorie; spesso tutti o alcuni degli effetti penali della condanna potendo anche generare una sospensione che solo in seguito si trasforma in estinzione al verificarsi di precise condizioni.
Legittimato a godere del beneficio dell’oblazione è naturalmente l’imputato.
Il problema sorge nel momento in cui quest’ultimo sia in particolari condizioni psico-fisiche o minore degli anni quattordici o diciotto.
Infatti qualora l’imputato non raggiunga i quattordici anni o sia infermo totale di mente la domanda per l’oblazione dovrà essere necessariamente avanzata dal rappresentante legale mentre il minore degli anni diciotto o l’infermo parziale di mente sono legittimati essi stessi a presentare domanda e nel caso in cui rifiutino legittimato sarà chi ne ha l’assistenza, anche contro la loro stessa volontà.

Facoltà di oblare è riconosciuta anche al concorrente nel reato e al contumace.
Per quanto riguarda il concorrente appare evidente quanto giusto riconoscergli il diritto all’oblazione quando risulti tale nel corso del dibattimento e potrà beneficiare di tale occasione quando comparirà per la prima volta in udienza, mentre il contumace dovrà non solo dimostrare di non conoscere l’esistenza del procedimento a suo carico ma anche la contestazione dell’avvenuta contravvenzione.
Per quanto riguarda le prospettive a quest’istituto da tempo è stata mossa la critica secondo cui l’oblazione soffrirebbe di “una manchevolezza organica ad estinguere l’azione penale ed a distruggere il reato, proprio un fatto mercè il quale l’autore riconosce e la sussistenza del reato stesso e l’obbligazione penale, che a suo carico deriva!”.
E’ stato osservato che tale opinione appare suscettibile di critiche poiché in primo luogo il reato è sottoposto ad una causa estintiva sempre in ragione del sentimento di giustizia imposto dalla legge e poi perché l’oblazione riconosce l’esigenza in pieno l’esigenza del legislatore penale in fatto di economia di giudizi.
Tuttavia spesso il legislatore “ dimentica” questa corrente di pensiero e commina sanzioni penali pecuniarie per punire reati la cui gravità è molto vicina a quella per le quali è disposta la depenalizzazione espandendo l’ambito di applicazione dell’oblazione almeno sul piano teorico.
Inoltre l’oblazione corre il rischio di essere contestata perché da molti ritenuta in contrasto con l’art. 27 comma 3 della costituzione (le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato).
Tuttavia l’ordinamento ha risposto a tale osservazione non solo nell’applicazione delle sanzioni interdittive e di controllo ma anche meramente pecuniarie ribadendo che “la pena nel nostro diritto è (…) frutto del compromesso tra le diverse necessità a cui lo Stato, come in ogni altro Stato moderno, sente di dover provvedere nella lotta contro il delitto, di cui la pena stessa continua e continuerà ad essere per tutto il complesso di ragioni e nonostante l’immancabile evoluzione storica, il mezzo principale”.
L’istituto dell’oblazione può dunque ancora rispettare il compito per il quale il legislatore ritenne opportuno legiferare mostrando addirittura un possibile allargamento della sfera di applicazione, come nel caso di delitti puniti unicamente con la multa, contribuendo così in maggior misura ad assottigliare il numero dei procedimenti penali pendenti.

Confermando ciò nonostante la necessità di rivalutare in maniera decisa le sanzioni visto che la pena pecuniaria rappresenta oggi l’equivalente tra il fatto commesso e l’atteggiamento di risposta dell’ordinamento penale al fatto compiuto e ritenuto criminale, deve dirsi che l’oblazione ha una sua precisa e ben definita collocazione giuridica anche in un momento dove si ricerca disperatamente l’esigenza di pene “alternative”, segno da molti ritenuto evidente della crisi del nostro sistema generale.
I limiti penali e temporali dell’oblazione
Il tribunale di Ravenna nel 2 agosto 1961 condannò il sig. Italo Monti, reo di aver posseduto copia del romanzo opera di Glenn Sire “I liberatori” per scopi commerciali recante in copertina immagini contrarie alla pubblica decenza[12], al pagamento di un’ammenda pari a lire 10.000: ricorrendo per Cassazione, l’imputato contestò la violazione dell’art. 475 n. 3 c. p. p.[13], in relazione all’art. 524 n. 3 stesso codice per mancanza e contraddittorietà di motivazione; violazione e inosservanza degli art. 162 c. p., 185 n. 3 c. p. p. in relazione ai nn. 1 e 3 dell’art. 524 e n. 5 dell’art. 539 stesso codice processuale; illegittimità costituzionale dell’art. 162 c. p. in relazione all’art. 24, II comma della Costituzione.
L’istituto dell’oblazione è stato oggetto di tale sentenza per due principali aspetti; uno di carattere costituzionale, quando ci si riferisce ad un contrasto tra l’art. 24 Cost. comma II (relativo all’inviolabilità della difesa in ogni stato e grado del procedimento) e l’art. 162 c. p. il quale prevede la possibilità di oblare unicamente prima dell’apertura del dibattimento o del decreto di condanna, e un altro di carattere strettamente processuale relativo alla possibilità di esercitare il diritto all’oblazione anche quando la fattispecie in oggetto non lo prevede espressamente ma venga considerato tale successivamente al decorso del termine di cui all’art. 162 c. p.
In entrambe le ipotesi l’oblazione è ammessa.
Tuttavia nel primo caso di fondamentale importanza è la legittimità del termine previsto dal codice penale mentre nel secondo il problema è rappresentato dal nomen juris precedente che non ne consentiva l’ammissibilità.
L’oblazione da sempre rappresenta un mezzo difensivo[14] con il quale l’imputato esercita una causa di estinzione del reato comportando la pronuncia di improcedibilità sul piano processuale; dunque il decorso del termine previsto dall’art. 162 c. p. non pregiudica il diritto alla difesa proprio della parte ma limita notevolmente l’applicazione dell’istituto.
L’art. 162 c. p. contiene un duplice termine sia in ordine all’emissione del decreto penale di condanna e sia in riferimento all’apertura del dibattimento che, come osserva autorevole dottrina[15], si riferisce non solo ai procedimenti ordinari ma anche quando adottata la procedura monitoria sia stata presentata opposizione.
In riferimento al decreto di condanna operano due termini, uno in vigore con la pronuncia del provvedimento stesso l’altro in conseguenza dell’opposizione che elimina il procedimento[16] prospettando uno scenario non molto diverso da quello del procedimento ordinario escluse le ipotesi di mancata comparizione dell’opponente.
Con ciò abbiamo fornito una risposta a quanti ritengono che per l’oblazione di reati giudicati per procedura monitoria si debba tener conto solamente del termine indicato dall’emissione del decreto e non quello dell’apertura del dibattimento: questa rappresenta una restrizione tanto illogica quanto inammissibile che conduce ad una interpretazione restrittiva dell’art. 162 c. p. che non opera distinzione tra dibattimento successivo a procedimento ordinario e dibattimento a seguito di opposizione al decreto.
Inoltre tale restrizione risulta negata dalla considerazione che l’apertura del dibattimento rappresenta un momento processuale della fase del giudizio e che proprio il dibattimento, non considerando la contumacia dell’opponente[17], si realizza con l’opposizione[18].

L’emissione del decreto di condanna ha dunque la funzione di termine preclusivo quando non intervenga un atto come l’opposizione che sostituisce il giudizio ordinario a quello speciale.
Si può allora affermare che alla parte può essere negata l’applicabilità dell’oblazione per effetto della preclusione di cui all’art. 162 c. p. se il termine di decadenza per l’esperibilità di tale istituto è riferito al momento processuale nel quale l’organo si appresta a giudicare in fatto e in merito: non sembra giusto quindi che chiunque non abbia esercitato tale diritto prima non possa poi farlo successivamente.
La Corte ha poi risposto in modo negativo al quesito circa l’ammissibilità dell’oblazione nei confronti di fatti inizialmente in suscettivi di oblazione e successivamente qualificati oblazionabili[19].
Sembrerebbe non potersi obiettare nulla a tale decisione; tuttavia la Corte di cassazione non ha sottolineato la completa assenza di un reato per il quale sia prevista l’oblazione.
L’art. 162 c. p. stabilisce infatti che l’applicabilità di tale istituto è riservata a casistiche ben precise sia dal punto di vista soggettivo (il contravventore) che oggettivo (le contravvenzioni per le quali la legge stabilisce…) escludendo ogni forma di utilizzo generica.
Quindi mancando il presupposto necessario per la sua attuazione la Corte non può escluderne il godimento a causa del mancato esercizio di colui al quale spettava.
Invece seguendo l’orientamento del Supremo Collegio l’imputato dovrebbe effettuare una duplice previsione; dovrebbe infatti calcolare il possibile mutamento del nomen juris e la formazione del nuovo reato (previsione da fare nel più totale buio giuridico) con la conseguente considerazione della sanzione prevista per questo.
Per di più se tutto questo non facesse perderebbe la possibilità di poter fare istanza di oblazione.
In sostanza si prospettano due principali ipotesi, l’una dell’improcedibilità del giudice tenuto a consentire l’oblazione per essersi trovato di fronte una situazione giuridica diversa, e l’altra per cui il mutamento del nomen juris non rimarrebbe tale ma configurerebbe una fattispecie verso la quale la parte avrebbe a sua volta potuto difendersi in modo diverso.

Entrambe le tesi, nessuna prevale infatti sull’altra, sono a sostegno del diritto di partecipazione della parte alla difesa e prevedono l’esperibilità dell’oblazione che ancora una volta si conferma non solo come mezzo deflattivo dell’apparato processuale penale, ma anche vero e proprio istituto difensivo.
L’oblazione e le pene accessorie

In riferimento ad una sentenza del 10 luglio 1935 del pretore di Savigliano con la quale fu condannato per commercio di olio di semi di arachide non addizionato col prescritto 5% di olio di sesamo a reazione cromatica[20] il contravventore presentò istanza di oblazione prima dell’apertura del dibattimento; il Pretore in risposta negò tale possibilità poiché “l’art. 162 c. p. ammette l’oblazione nelle contravvenzioni per le quali la legge stabilisce la sola pena dell’ammenda non superiore a diecimila lire. Quando la legge stabilisce anche una pena accessoria, l’ammenda non è più unica pena, per cui l’oblazione non è possibile. Per l’art. 19 terzo comma c. p. pena accessoria è la pubblicazione della sentenza penale di condanna. Il reato imputato, di cui ora si tratta, richiede non solo la pena pecuniaria stabilita dagli articoli 48 e 49 del R. D. 15 ottobre 1925 n. 2033 ma anche la pubblicazione della sentenza di condanna stabilita dall’art. 61 dello stesso R. D.
E’ manifesto che questa pubblicazione di sentenza di condanna è una pena accessoria, che pertanto impedisce l’oblazione”.
Questa la fattispecie e la motivazione addotta in sentenza dal Pretore con la quale respingeva le istanze del contravventore.
Tuttavia la difesa contestando le decisioni assunte dal pretore obbiettava che sotto l’impero del codice Zanardelli, al contrario di quanto accadeva nel 1925, la pubblicazione della sentenza di condanna non era prevista come pena; poteva essere ben considerata sanzione accessoria, ma non una pena.
Di conseguenza la pubblicazione accompagna unicamente una sentenza di condanna che in questo caso poteva essere evitata con l’accoglimento da parte del pretore della domanda del contravventore a godere del beneficio dell’oblazione.
Al rifiuto del pretore, il quale stabiliva che se anche il codice Zanardelli ancora non prevedeva la pubblicazione della sentenza come una vera e propria pena a questa, disposta d’ufficio, non poteva togliersi il carattere stesso di pena a tutti gli effetti seppur ignota al codice del 1889, il contravventore presentò ricorso in Cassazione contestando la violazione dell’art. 162 c. p. e la mancanza di considerazione della sua domanda di oblazione in violazione degli artt. 162 e 17 a 20 c. p.[21], 474 e 475 c. p. p.[22].
La Suprema Corte[23], cassando quanto deciso dal pretore, dichiarò che l’art. 162 c. p. non vieta la possibilità di oblare contravvenzioni cui alla pena pecuniaria è stato possibile aggiungere una pena accessoria, pur riconoscendo al contrario la limitazione per le contravvenzioni punite con la sola pena dell’ammenda in opposizione a quelle sanzionate con la pena detentiva.
Inoltre la stessa Corte con una analoga pronuncia[24] aveva cassato le decisioni del pretore di Gorizia dichiarando che per quanto riguarda l’istituto dell’oblazione la legge intende riferirsi unicamente a quelle principali e non accessorie le quali rappresentano una conseguenza della sentenza di condanna, evitabile proprio con l’oblazione.
Indubbiamente le persone che quotidianamente subiscono denuncie riguardo questo tipo di contravvenzioni ricevono un vantaggio sia di natura morale, evitando spiacevoli situazioni vergognose nei confronti della pubblica stampa, sia di natura economica poiché il contravventore in questo modo riesce ad evitare spese giudiziali, risparmia rispetto a quanto dovuto in caso di condanna con l’aggiunta di non veder il suo nome accompagnato ad una sentenza di condanna pubblicato in chissà quale mezzo di stampa.
Ambito e presupposti di applicazione dell’oblazione discrezionale
La norma che disciplina l’oblazione discrezionale dichiara l’applicabilità dell’istituto dell’oblazione ai reati contravvenzionali puniti con la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda non menzionati dall’art. 162, che riguarda unicamente le contravvenzioni sanzionate con l’ammenda[25].
Mentre infatti l’oblazione processuale prevista dall’art. 162 estende il proprio ambito di applicazione alle contravvenzioni non depenalizzate ai sensi degli art. 32 ss. della legge 24 novembre 1981, n. 689, e rappresenta un diritto soggettivo pubblico di carattere individuale proprio dell’imputato, l’oblazione contemplata nell’art. 162 bis resta invece vincolata alla valutazione discrezionale del giudice in relazione alla gravità del fatto richiamato dalla fattispecie penale[26].

La giurisprudenza è d’accordo nel ritenere che la domanda di ammissione al beneficio possa essere accolta nonostante il parere contrario del pubblico ministero, stabilendo l’art. 141 d.lg. 271 del 1989 che il p.m. esprima il suo parere ma non presti il suo consenso. Il giudice è tenuto ad indicare le ragioni a fondamento di un suo eventuale rifiuto della domanda di oblazione; presupponendo tale parere negativo il giudizio contrario anche del pubblico ministero, se quest’ultimo si limita nell’esposizione dei motivi a sostegno alla sola opposizione all’oblazione, il giudice è impedito di produrre una motivazione contraria[27].
I criteri di gravità del reato sono disciplinati dal comma 3 dell’art. 162 bis e indicati nella sussistenza della recidiva reiterata aggravata o dell’abitualità e professionalità nelle contravvenzioni in relazione agli art. 99, 104 e 105 c.p., nella permanenza delle conseguenze dannose o pericolose del reato eliminabili da parte del responsabile della contravvenzione.
Inoltre la giurisprudenza concorda nel ritenere che il metro di giudizio riguardo la gravità del reato debbano essere intese nel senso più ampio possibile dalle indicazioni dell’art. 133 comma 1[28].
Qualora la domanda di oblazione venga rigettata per la gravità del fatto, essendo tale causa prevista dall’art. 162 bis come una possibile di giustificazione del rigetto, la dottrina ritiene necessaria una specifica motivazione sulle ragioni di detta gravità.

Contrariamente quando il giudice accoglie la domanda, non essendoci il parere negativo del pubblico ministero circa la gravità del fatto, deve solamente dimostrare di aver esaminato accuratamente la fattispecie e di averne dedotto che “il fatto non risulta di gravità tale da costituire impedimento all’applicazione dell’oblazione”[29].
La giurisprudenza non sempre è stata concorde, per quanto riguarda l’individuazione dei reati oblabili, con l’operato dell’art. 127 della l. 689 del 1981 che ha ampliato l’ambito di applicazione dell’oblazione prevista dall’art. 162 bis ai reati indicati nella lettera g) (reati contravvenzionali sulla disciplina per gli alimenti per la prima infanzia e dei prodotti dietetici di cui alla l. 29 marzo 1951, n. 27), nella lettera h) (reati contravvenzionali concernenti l’inquinamento atmosferico), nella lettera ) (i reati contravvenzionali relativi all’impiego pacifico dell’energia nucleare di cui alla l. febbraio 964, n. 185 e l. 31 dicembre 1962, n. 186), nella lettera n) (reati contravvenzionali relativi alla prevenzione degli infortuni sul lavoro ed all’igiene sul lavoro)dell’art. 34 comma 1 l. 689 del 1981.
Inizialmente la Corte di Cassazione riteneva che l’art. 127 della l. 689 del 1981, in relazione all’art. 34 l.c., prevede in modo assolutamente non equivoco i reati ai quali è applicabile l’oblazione i cui all’art. 126 (che ha introdotto l’art. 162 bis); tra tali reati non compaiono tuttavia quelli contemplati dalla l. 319 del 1976 sulla tutela delle acque dall’inquinamento, con la conseguenza di doverli ritenere esclusi dal beneficio dell’oblazione[30].
Successivamente l’orientamento della Suprema corte muta, adeguandosi alla prevalente giurisprudenza di merito, in modo tale da ritenere che le disposizioni di cui all’art. 127 l. 689 del 1981 sona da considerare nel senso che le contravvenzioni ivi disciplinate sono da ritenere oblabili solo in seguito al positivo esercizio del potere discrezionale del giudice, anche se sanzionabili con la sola ammenda; mentre al tempo stesso nessuna norma esclude che i reati previsti nelle altre lettere nel medesimo articolo possano essere estinti mediante oblazione di cui agli art. 162 e 162 bis a seconda delle pene astrattamente previste [31].
Nella stessa direzione è stato stabilito che l’art. 127 l. 24 novembre 1981, n. 689, in base alla quale le disposizioni di cui all’art. 162-bis si applicano anche ai reati indicati nelle lettere f), h), ), n) del comma 1 dell’art. 34, deve essere interpretato nel senso della applicabilità della sola oblazione “discrezionale” a questi reati, anche se punibili con la sola ammenda, anziché dell’oblazione ordinaria di cui all’art. 162.
Tuttavia una parte della dottrina ha ritenuto che una tale scelta delle contravvenzioni destinate ratione materiae all’oblazione più onerosa prevista dall’art. 162 bis sia del tutto arbitraria, almeno nel diritto del lavoro, poiché introdurrebbe disparità di trattamento rispetto a casi di analoga importanza.[32]
Per quanto riguarda invece le violazioni tributarie, a seguito dell’entrata in vigore della l. 7 agosto 1982, n. 516, la quale prevedeva numerose ipotesi contravvenzionali astrattamente assimilabili al dato normativo di cui all’art. 162-bis, la giurisprudenza non ha preso una stabile posizione oscillando il suo giudizio continuamente; un intervento delle Sezioni unite della Cassazione ha successivamente risolto il problema.

In primo luogo infatti la giurisprudenza ha ritenuto possibile l’oblazione discrezionale nell’ambito delle contravvenzioni tributarie sanzionate con pene alternative[33] sulla base del tenore generale dell’art. 162-bis, e conseguentemente dell’applicabilità dello stesso alle contravvenzioni sanzionate con pene alternative; sia quando le fattispecie criminose sono previste dal codice penale che da leggi speciali.
Un altro indirizzo giurisprudenziale ha invece sottolineato l’inapplicabilità dell’oblazione “discrezionale” alle violazioni tributarie, sulla scorta dell’applicazione del principio di specialità tra le norme di cui agli art. 13 e 14 l. 4 del 1929 e 162-bis [34].
In merito sono intervenute le Sezioni unite[35] le quali hanno ritenuto l’applicabilità dell’art. 162-bis anche nel caso di violazione finanziaria.
Più precisamente le Sezioni unite hanno riconosciuto un’identità di ratio tra la norma generale prevista dal codice e quella di cui alla legge speciale, sottolineando che entrambe sono finalizzate alla “deprocessualizzazione” della fattispecie mediante un rapido congedo dell’imputato dal sistema penale e l’assenza di operatività del principio di specialità in tale materia.

E’ una conclusione che deriva dall’accertamento, in primo luogo, dell’abrogazione sopraggiunta del principio di “fissità” determinato per le leggi finanziarie dall’art. della l. 7 gennaio 1929, n.4, e, in secondo luogo, che l’oblazione prevista dall’art. 14 della l.c. riguarda solamente le contravvenzioni finanziarie sanzionate con la sola pena pecuniaria, mentre invece quella disciplinata dall’art. 162-bis ha ad oggetto tutte le contravvenzioni punite con pena alternativa; di conseguenza, escludendo ogni possibile ipotesi di conflitto tra le due norme, l’applicazione del principio di specialità determinato dall’art. 15 del c.p. risulta sostanzialmente improponibile[36].
La giurisprudenza non è concorde per la concreta applicabilità dell’art. 162-bis in relazione al concetto dell’avvenuta eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato da parte del contravventore.
Per quanto riguarda le contravvenzioni tributarie, infatti, si ritiene necessario il preventivo pagamento del tributo evaso dal contravventore, mentre in altri casi l’evasione non costituisce l’evento dannoso previsto dalla norma.
Sia in dottrina che in giurisprudenza si è discusso in merito al regime applicabile alle ipotesi di reato punite con la pena alternativa unicamente nelle forme aggravate, poiché dalla tipologia della contestazione deriva il parere sull’ammissione al beneficio di oblare.

Un primo orientamento ha ritenuto che per le contravvenzioni punite necessariamente con l’arresto sia necessario operare una distinzione con riferimento al caso in cui la circostanza aggravante sia determinata tassativamente dal legislatore, ad esempio il caso previsto dall’art. 669 comma 3 c.p., in cui ci si dovrebbe attenere alla regola della contestazione, rispetto al caso l’applicabilità di una pena diversa sia diretta conseguenza della presenza di un’aggravante indefinita”, fatto ostativo dell’ammissibilità all’oblazione ab origine.
In questa seconda ipotesi l’applicazione della pena detentiva al posto di quella pecuniaria deriverebbe unicamente da un giudizio riferito alla gravità accertata dal giudice in concreto e non con riferimento alla contestazione originaria[37].
Un’altra parte della dottrina contrariamente ritiene che questa diversificazione rispetto al termine entro cui deve essere presentata la domanda di ammissione al beneficio sanerebbe un difetto del diritto di difesa, non escludendo che in qualsiasi caso originariamente in base alla contestazione possa essere non prevedibile la presenza di una circostanza aggravante[38].

La giurisprudenza ha successivamente escluso la possibilità di godere del beneficio dell’oblazione “discrezionale” per quei reati che diverrebbero oblazionabili quoad poenam, in presenza di una circostanza attenuante indefinita, più precisamente nel caso in cui sia possibile ipotizzare la presenza dell’attenuante ad effetto speciale della “lieve entità”.
In questo caso l’applicazione del regime sanzionatorio più lieve deriva da un giudizio di
merito ad opera del giudice[39].
Più precisamente nella fattispecie prevista dall’art. 4 commi 2 e 3, della l. 110 del 1975, sanzionata sia con la pena detentiva dell’arresto che con quella pecuniaria dell’ammenda, è stato osservato che il fatto di lieve entità previsto dalla seconda parte del comma 3 non costituisce un’ipotesi autonoma di reato, ma circostanza attenuante speciale.
In questo caso non si applica l’oblazione discrezionale di cui all’art. 162 bis neanche quando ricorra la circostanza attenuante[40].
La Corte costituzionale ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 162, 162-bis c.p. e 604 c.p.p. oltre agli artt.126 e 137 l. 689/81, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, quando dispongono che la sentenza che dichiara estinto il reato in seguito ad oblazione deve essere iscritta nel casellario giudiziario, se oggetto della pronuncia è una contravvenzione punibile con la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda, mentre non è iscritta se la contravvenzione è punibile con la sola ammenda; non vi è identità per le situazioni regolate poiché la iscrivibilità della sentenza nel primo caso a differenza della contravvenzione oblata, sanzionata unicamente con l’ammenda, è giustificata dalla maggior gravità della pena edittale e per il diverso ruolo dell’intervento del giudice (sentenza costitutiva in un caso, dichiarativa nell’altro)[41].
La Corte costituzionale ha inoltre ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata, riguardo all’art. 3 della Costituzione, dell’art. 162-bis nella parte n cui non prevede l’applicazione dell’istituto ai delitti puniti con la sola pena della multa.
La Corte ha stabilito che prevederne o meno l’estinzione per oblazione rientra nel potere discrezionale del legislatore; questa discrezionalità appare essere esercitata in modo del tutto razionale [42].
Analogamente la Corte ha giudicato manifestamente inammissibile la questione sollevata con riferimento all’esclusione dei delitti puniti con la pena alternativa della reclusione e della multa dall’applicazione dell’istituto in esame, richiamando in questo caso le sentenze n. 148 del 1984[43] e 350 del 1985[44] e l’ordinanza n. 267 del 1986[45].

Una parte della dottrina meno recente ritiene che il contravventore, nel caso di oblazione discrezionale, è tenuto a corrispondere contestualmente alla domanda, una somma pari alla metà del massimo della pena pecuniaria prevista.
E’ considerata inammissibile la domanda qualora il deposito della somma in questione o la
somma stessa venga depositata tardivamente[46].
La giurisprudenza successivamente si è orientata nel ritenere che il legislatore delegato del 1989 abbia avuto intenzione di stilare una disciplina generale del procedimento di oblazione[47], in base alla quale il giudice, accolta la domanda di oblazione, determina la somma da versare.
Precisamente al caso di annullamento con rinvio di ordinanza con la il g.i.p. dichiarava inammissibile l’opposizione, ed esecutivo il decreto, per non aver l’imputato versato la somma corrispondente alla metà del massimo dell’ammenda prevista, la Corte di cassazione ha sottolineato la mancanza di coordinamento tra l’art. 162-bis c.p. e il comma 4 dell’art. 141 disp. att. c.p.p. Infatti, ritiene la Corte, seppur vero che il contravventore deve depositare una somma corrispondente alla metà del massimo dell’ammenda prevista, è altrettanto vero che se il giudice ammette la domanda di oblazione deve fissare la domanda da versare, dandone avviso all’interessato; da questo deriva che in virtù dell’art. 15 disp. prel. c.c., lex posterior derogat priori, la prima norma deve giudicarsi abrogata [48].
Inoltre è stato sottolineata come unica condizione processuale imposta dall’art. 162-bis c.p. il deposito di una somma pari alla metà del massimo dell’ammenda prevista; non necessariamente le spese relative al processo[49].
Le problematiche legate all’applicabilità della norma anche nel caso delle contravvenzioni commesse in un tempo antecedente all’entrata in vigore della l. 689 del 1981 sono ormai superate.
La Corte di cassazione ha dichiarato che la disposizione dell’art. 126 della l. 24 novembre 1981, n. 689 che introduce l’art. 162-bis, non era applicabile a quei procedimenti che, al momento dell’entrata in vigore della legge, fossero oltre l’inizio della discussione finale del dibattimento di primo grado[50].
Tuttavia la dottrina ritiene che tale orientamento possa ritenersi valido solamente nel momento in cui venga riproposta istanza di oblazione precedentemente respinta per motivi riguardanti la gravità del fatto[51].
La giurisprudenza si divide sulla possibilità di ammettere l’oblazione nella fase delle indagini preliminari.
Negando tale possibilità si è ritenuto che il tono dell’art. 162-bis, il quale stabilisce la facoltà di oblare nella fase compresa tra gli atti preliminari al dibattimento di primo grado e la chiusura del dibattimento stesso, consente di ritenere che anche in questa ipotesi di estinzione del reato sia valido lo stesso principio che riguarda l’oblazione di cui all’art. 162, cioè l’impossibilità di applicazione nella fase delle indagini preliminari.
Poiché unicamente il giudice della cognizione piena può compiere determinate valutazioni di merito previste dai commi 3 e 4 dello stesso art. 162-bis [52].
L’ideologia positiva ha invece ritenuto di dover accogliere la possibilità di poter oblare ex art. 162-bis anche prima della fase degli atti preliminari al dibattimento, perché il contenuto dell’articolo in questione non prevede un termine iniziale, ma unicamente finale oltre il quale si decade dalla possibilità di poter usufruire del beneficio[53].
L’art. 162-bis comma 3 prevede le ipotesi nelle quali l’oblazione non può essere ammessa, per motivi oggettivi quanto soggettivi.
La giurisprudenza ha affermato attraverso numerose pronunce che l’esclusione dal godimento del beneficio dell’oblazione “discrezionale” non può essere determinata dall’attribuzione di una normale qualifica soggettiva come la declaratoria di abitualità o professionalità nella contravvenzione e la contestazione espressa della recidiva[54], quanto semmai alla presenza dei dati normativi e fattuali che consentono tale dichiarazione[55], preceduti dalla ricognizione di tale status soggettivo desumibile dal certificato penale[56].
E’ stato inoltre precisato che la nuova disciplina della recidiva, prevista dalla l. 7 giugno 1974, n. 220, ha dichiarato unicamente la facoltatività dell’aumento di pena e non di tutti gli altri effetti penali riconducibili alla recidiva stessa; di conseguenza la presenza della condizione di recidiva reiterata crea un ostacolo all’ammissibilità dell’oblazione di cui all’art. 162-bis[57].
La dottrina ha sollevato obiezioni circa l’applicabilità della declaratoria di abitualità nelle contravvenzioni e della professionalità nel reato, che non derivano mai da una presunzione normativa ma unicamente da un accertamento del giudice, basato su elementi strettamente oggettivi, come la natura e la gravità dei reati, il tempo nel quale sono stati commessi e in genere sulla cosiddetta capacità a delinquere del soggetto, fondati sulla condotta e sul genere di vita del colpevole.
E’ tuttavia indiscusso che la sentenza che dichiara estinto il reato per intervenuta oblazione non ha comunque effetti su una possibile declaratoria di recidiva, abitualità, professionalità del reato.
In base all’art. 106 comma 2, infatti, le sentenze attraverso le quali è stata applicata una causa estintiva del reato che estingue anche gli effetti penali della condanna non vengono tenute di conto.[58]
Le preclusioni oggettive invero riguardano tutte alla gravità del fatto per il quale si procede e sono disciplinate dalla norma in questione ai commi 3 e 4.
L’oblazione non è ammessa quando sussistono le condizioni dannose o pericolose del reato eliminabili da parte del contravventore.
La giurisprudenza ha sottolineato tuttavia che la permanenza di conseguenze dannose o pericolose eliminabili da parte del reo risulta essere condizione ostativa per l’imputato di poter beneficiare dell’oblazione di cui all’art. 162-bis; il giudice quindi è tenuto ad accertare, anche d’ufficio, se l’ostacolo non esista, o venga meno, spiegando il suo convincimento con una motivazione, prima di ammettere l’imputato all’oblazione.

Note:
[1] Così il codice penale articoli 162 e 162-bis: “Nelle contravvenzioni, per le quali la legge stabilisce la sola pena dell’ammenda, il contravventore è ammesso a pagare, prima dell’apertura del dibattimento, ovvero prima del decreto di condanna, una somma corrispondente alla terza parte del massimo della pena stabilita dalla legge per la contravvenzione commessa, oltre le spese del procedimento.
Il pagamento estingue il reato.
Nelle contravvenzioni per le quali la legge stabilisce la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda, il contravventore può essere ammesso a pagare, prima dell’apertura del dibattimento, ovvero prima del decreto di condanna, una somma corrispondente alla metà del massimo dell’ammenda stabilita dalla legge per la contravvenzione commessa oltre le spese del procedimento.
Con la domanda di oblazione il contravventore deve depositare la somma corrispondente alla metà del massimo dell’ammenda.
L’oblazione non è ammessa quando ricorrono i casi previsti dal terzo capoverso dell’articolo 99, dall’articolo 104 o dall’articolo 105, né quando permangono conseguenze dannose o pericolose del reato eliminabili da parte del contravventore.
In ogni altro caso il giudice può respingere con ordinanza la domanda di oblazione, avuto riguardo alla gravità del fatto.
La domanda può essere riproposta sino all’inizio della discussione finale del dibattimento di primo grado.
Il pagamento delle somme indicate nella prima parte del presente articolo estingue il reato.
[2] Codice di procedura penale, art. 464 comma 2, “il giudice, se è presentata domanda di oblazione contestuale all’opposizione, decide sulla domanda stessa prima di emettere i provvedimenti a norma del comma 1.
[3] In tali artt. la Cost. oltre a stabilire l’obbligo per il pubblico ministero di esercitare l’azione penale, garantisce anche “l’indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali, del pubblico ministero presso di esse, e degli estranei che partecipano all’amministrazione della giustizia”.
[4] BETTIOL, In tema di antinomie penalistiche, in BETTIOL, Scritti giuridici, II, Padova, 1966, 1029.
[5] SANTORO, voce Estinzione del reato e della pena (Diritto penale comune), Novissimo Digesto Italiano, vol. I, Torino, 1961, pag. 991.
[6] PESSINA, Relazione al Senato sul progetto del Codice Penale del 1889; RENDE e MALGERI, L’oblazione volontaria nel Codice Penale e nelle leggi speciali, Milano, 1912, pag. 9; ROCCO, Trattato della cosa giudicata come causa di estinzione dell’azione penale, vol. II, Modena, 1904, pag. 315.
[7] Così l’Autore in Trattato di diritto penale italiano, vol. III, 1961, pag. 602.
[8] MANZINI, op. cit., pag. 604; PANNAIN, Manuale di diritto penale, vol. I, Torino, 1962, pag. 882; MAZZANTI, Contestazione di un delitto e possibilità di oblazione , in Riv. it. dir. e proc. pen., 1962, 625.
[9] RAMACCI, Corso di diritto penale II reato e conseguenze giuridiche, Giappichelli editore, Torino, 1993.
[10] In tema, ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, parte generale, Giuffrè editore, Milano, 1997.

[11] RAMACCI, op. cit., pag. 326.
[12] Art. 725 c. p., “Chiunque espone alla pubblica vista o, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, offre in vendita o distribuisce scritti, disegni o qualsiasi altro oggetto figurato, che offenda la pubblica decenza, è punito con l’ammenda da lire ventimila a due milioni”.
Il libro presentava una sovracoperta in carta patinata contenente il titolo dell’opera stampato a due colori (le prime sillabe: “I libera…” in colore bianco, e le ultime sillabe: “i tori”, in colore rosso), nonché la immagine di un essere maschile senza volto nell’atto di ghermire una donna nuda. La sovracopertina era a sua volta accompagnata da una fascetta orizzontale mobile, portante la scritta: ”…distruggevano e violentavano per sentirsi eroi…”. A parere del giudice di merito, il frazionamento del titolo in due monconi, con sottinteso richiamo alla impetuosa maschilità dei “tori”, e la immagine stilizzata del maschio nell’atto di stringere a se una donna nuda costituivano- dal punto di vista obiettivo-una condotta sconveniente con parallela offesa del bene giuridico della pubblica decenza; quindi l’applicabilità della norma incriminatrice ex art. 725 c. p.
[13] Così il c. p. p. all’art. 475 n. 3, “L’imputato allontanato può essere riammesso nell’aula di udienza, in ogni momento, anche di ufficio. Qualora l’imputato debba essere nuovamente allontanato, il giudice può disporre con la stessa ordinanza che sia espulso dall’aula, con divieto di partecipare ulteriormente al dibattimento se non per rendere le dichiarazioni previste dagli artt. 503 e 523 comma 5”.
[14] In tal senso, AA. VV., Mutamento del titolo del reato e conseguente diritto di oblazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1958, 46 ss.; tale indirizzo è stato condiviso anche dalla Cass., 11 luglio 1958, in Giust. pen. 1958, III, 827 ss.
[15] Cfr., SABATINI GIUS., Trattato dei procedimenti speciali e complementari nel processo penale, 1956, p. 94; SABATINI GU., Istituzioni di diritto penale, 1946, III, p. 102; VANNINI, Manuale di diritto processuale penale italiano, 1956, p. 170; SALTELLI-ROMANO, Commento teorico-pratico del nuovo codice penale, 1940, II, p. 304; Cass. 12 marzo 1951, Mass. pen., 1951, 933; id. 17 febbraio 1944, Giur. compl. Cass. pen., 1944, 65; id. 2 marzo 1942, Riv. dir. penit., 1942, 656; id. 6 luglio 1942, Giust. pen., 1943, II, 76; id. 26 maggio 1942, ivi, 1943, II, 199.
Contra BELLAVISTA, Il processo penale monitorio, 1938, p. 119.
[16] Per tutti, SABATINI GIUS., Trattato dei procedimenti speciali, cit. pg. 61 ss. L’Autore precisa come, una volta eliminata la situazione derivante dall’emissione del decreto penale, il processo riprende il suo corso dall’opposizione con la fase del giudizio di primo grado, in quanto l’emissione del decreto è considerata dalla legge non più come atto conclusivo di una sua fase, cioè della fase istruttoria.
[17] Per la mancata comparizione e i suoi effetti, Corte cost. 18 marzo 1957 con nota di CONSO, Anticostituzionalità dell’art. 510, comma 1 c.p.p., in Riv. dir. proc. pen., 1957, 373; SABATINI, Trattato, cit., p. 95; BELLAVISTA, Voce decreto penale, in Noviss. Dig. It., 1960, 305; LEONE, Trattato di diritto processuale penale, 1961, II, p. 483; VASSALLI, Sulla mancata comparizione dell’imputato come rinuncia all’opposizione, in Giur. Costit., 1957, 596; MASSA, La mancata presentazione dell’opponente all’udienza, in Riv. dir. proc. pen., 1957, 517; MANZINI, Trattato di diritto processuale penale italiano, 1956, IV, pg. 286.
[18] Sulla natura dell’opposizione cfr., LEONE, Trattato, cit., II, pg. 474 ss.; BELLAVISTA, voce Decreto penale, cit. pg 303; MANZINI, Trattato, cit., IV, p. 283, per i quali essa costituisce un mezzo d’impugnazione. In senso diverso DELITALA, Il divieto della reformatio in peius nel processo penale, 1927, pg. 11 il quale configura l’opposizione come la ricusazione di un giudizio svoltosi senza contraddittorio (sulla stessa linea si muove il SANTORO, Manuale di diritto processuale penale, 1954, p. 616), mentre il SABATINI GIUS., Trattato, cit. pg. 61, la qualifica “procedimento introduttivo”, diretto alla reintroduzione dell’esercizio “normale dell’azione penale con l’impedire che si consolidi la situazione processuale prodottasi con l’emissione del decreto”.
[19] Nello stesso senso cfr., Cass. 14 marzo 1958, in Giust. pen., 1958, II, 769. A diversa soluzione era, invece, in precedenza giunta la giurisprudenza con decisioni della Cass. 16 maggio 1939, in Annali, 1939, 397; id. 23 maggio 1935, in Giust. pen., 1936, III, 543; id. 21 novembre 1956, in Mass. pen., 1957, n. 40; Trib. Trento 6 marzo 1956, in Giur. it., 1956, II, 225.
[20] Contravvenzione all’art. 1 terzo comma R. D. L. 30 dicembre 1929 n. 2316 e sanzionata dagli articoli 48, 49, e 61 R. D. 15 ottobre 1925 n. 2033.
[21][21] Così l’art. 17 c. p., “Le pene principali stabilite per i delitti sono: la morte, l’ergastolo, la reclusione, la multa. Le pene principali stabilite per le contravvenzioni sono: l’arresto, l’ammenda.
Così l’art. 18 c. p., “Sotto la denominazione di pene detentive o restrittive della libertà personale la legge comprende: l’ergastolo, la reclusione e l’arresto. Sotto la denominazione di pene pecuniarie la legge comprende: la multa e l’ammenda.
Così l’art. 19 c. p., “Le pene accessorie per i delitti sono: l’interdizione dai pubblici uffici, l’interdizione da una professione o da un’arte, l’interdizione legale, l’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese, l’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione, la decadenza o la sospensione dall’esercizio della potestà dei genitori. Le pene accessorie per le contravvenzioni sono: la sospensione dall’esercizio di una professione o di un’arte, la sospensione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese. Pena accessoria comune ai delitti e alle contravvenzioni è la pubblicazione della sentenza penale di condanna. La legge penale determina gli altri casi in cui le pene accessorie stabilite per i delitti sono comuni alle contravvenzioni.
Così l’art. 20 c. p., “Le pene principali sono inflitte dal giudice con sentenza di condanna; quelle accessorie conseguono di diritto alla condanna, come effetti penali di essa.
[22] Così l’art. 474 c. p. p., “L’imputato assiste all’udienza libero nella persona, anche se detenuto, salvo che in questo caso siano necessarie cautele per prevenire il pericolo di fuga o di violenza.
Così l’art. 475 c. p. p., “L’imputato che, dopo essere stato ammonito, persiste nel comportarsi in modo da impedire il regolare svolgimento dell’udienza, è allontanato dall’aula con ordinanza del presidente. L’imputato allontanato si considera presente ed è rappresentato dal difensore. L’imputato allontanato può essere riammesso nell’aula di udienza, in ogni momento, anche di ufficio. Qualora l’imputato debba essere nuovamente allontanato, il giudice può disporre con la stessa ordinanza che sia espulso dall’aula, con divieto di partecipare ulteriormente al dibattimento se non per rendere le dichiarazioni previste dagli artt. 503 e 523 comma 5.
[23] Corte di Cassazione, I sezione penale, 12 febbraio 1936.
[24] Al riguardo, Giust. pen., Codice, 1935, 1388, 527.
[25] V. Cass., 25 maggio 1996, Piras, C.E.D. Cass., n. 204671; Cass., 7 marzo 1996, Zagari, ivi, n.204063
[26] In giurisprudenza, sul punto, v. Cass., 18 febbraio 1986, Cass. pen. 1987, 1522; in dottrina, in relazione alla differenza di struttura e funzione dei due istituti, v. CADOPPI, Oblazione “vecchia” e “nuova” e principi costituzionali, in Riv. it. dir. e proc. pen. 1983, 178; PANARIA, Questioni di diritto penale dell’economia. L’art. 162 bis del codice penale nella prospettiva di alcune leggi speciali, in Rass. Trib. 1987, I, 135.
[27] In merito, Cass., 8 marzo 1993, C.E.D. Cass., n.194161.
[28] V. Cass., 25 febbraio 1992, Proni, Riv. giur. it., voce Oblazione nelle contravvenzioni, 1992, n.7, 2905; in dottrina, sulla nozione di fatto come comprensiva della dimensione soggettiva e oggettiva del reato NUVOLOSE, I limiti taciti della norma penale,Prilla, 1947, 10, 37, 45.
[29] Si veda Cass., 8 marzo 1993, Capitani, C.E.D. Cass., n. 194162.
[30] V. Cass., 27 maggio 1983, Girotti, Cass. pen. 1985, 369, con nota contraria di RAMPIONI, Inquinamento idrico, oblazione ex art. 162-bis c.p. e permanenza delle conseguenze dannose o pericolose del reato; MUCCIARELLI, L’istituto dell’oblazione ex art. 162- bis c.p. in due sentenze della Corte di Cassazione: qualche rilievo critico.
[31] V. Cass., 6 marzo 1984, Coppo, Cass. pen. 1985, 1101.
[32] PADOVANI, Diritto penale del lavoro, Giuffrè, 1983, 290.
[33] In tema, Cass., 22 aprile 1985, Critelli, Giur. it. 1986, II, 222; Foro it. 1986,II, 11, con nota di BOSCHI; in senso contrario, DELL’ANNO, In tema di oblazione delle contravvenzioni tributarie a norma dell’art. 162-bis c.p., in Giust. pen. 1986, III, 134; in dottrina, CADOPPI, Punti di tangenza fra due novità: oblazione di cui all’art. 162-bis c.p. e le nuove contravvenzioni tributarie, in Riv. it. dir. e proc. pen. 1984, 1160; DI DIO, L’oblazione nel diritto penale tributario, in Riv. pen. 1986, 137.
[34] V. Cass. 7 ottobre 1986, Zottino, Foro it. 1987, II, 144; Cass., 9 marzo 1987, Del Rito, Cass. pen. 1987, 1830; Cass., 24 marzo 1987, Aldegheri, ivi, 1988, 1278; in dottrina sul punto, DELL’ANNO, Ancora sull’inammissibilità dell’oblazione in materia di contravvenzioni alla normativa tributaria penale punita con pena alternativa, in Giust. pen. 1987, II, 271; DI DIO, Non più oblazionabili le contravvenzioni tributarie ounibili con pene alternative, Riv. pen. 1987, 430; MUCCIARELLI, Oblazione ex art. 162-bis c.p. e contravvenzioni tributarie ounite con pena alternativa: una nuova e discutibile sentenza della Corte di cassazione, ivi 1986, 1350.
[35] Sezioni Unite, 21 maggio 1988, Meneghin, Cass. pen. 1988, 1555.
[36] V. Cass., 24 maggio 1988, Stefanuto, C.E.D. Cass. n. 178700.
[37] In dottrina, MAZZA, voce Oblazione volontaria, in Enc. dir., vol. XXIX, Giuffrè, 1979, 562; in giurisprudenza v. Cass., 12 maggio 1986, Bellemo, Riv. pen. 1987, 507.
[38] BELLAVISTA, In tema di termini per la presentazione della domanda di oblazione, Riv. pen. 1992, 823.
[39] In merito v. Cass., 17 giugno 1994, De Marco, C.E.D. Cass., n. 199733; Cass., 21 gennaio 1992, Allegrucci, Cass. pen. 1993, 658.
[40] In riferimento la Cassazione ha pronunciato il 13 giugno 1999, Maggiore, C.E.D. Cass., n. 212775; Cass., 25 ottobre 1996, ivi, n. 206736; Cass., 22 gennaio 1996, Ferravamo, ivi, n. 203802; Cass. 3 novembre 1992, Gilistro, ivi, n. 194365.
[41] Per tutte Cass., 13 aprile 1983, Vezzali, Cass. pen. 1984, 2430, con nota di ROMEO, Oblazione speciale e iscrizione nel casellario: un problema di interpretazione risolto ed una questione di legittimità costituzionale ancora aperta, in Cass. pen. 1984.
[42] Corte cost., 12 novembre 1987, n. 462, Rubino, Giur. cost. 1987, I, 317; Foro it. 1988, I, 3156.
[43] V. Corte cost., 24 maggio 1984, n. 148, Foro it. 1984, I, 1444.
[44] V. Corte cost., 17 dicembre 1985, n. 350, ivi, 1986, I, 3 con nota di LA GRECA.
[45] V. Corte cost., 15 dicembre 1986, n. 267, Giur. cost. 1986, I, 2185.
[46] Tesi sostenuta dalla Cass., 27 ottobre 1995, Di Martino, Giur. it. 1997, II, 164; Cass., 30 marzo 1994, Ibbadu, C.E.D. Cass., n. 198606.
[47] Ricavabile dalla rubrica del capo decimo e dell’art. 141 disp. att. c.p.p.
[48] V. Cass., 26 settembre 1997, Di Ceno, C.E.D. Cass., n. 209365; Cass., 19 dicembre 1997, Gulli, Cass. pen. 1999, 871; Cass., 14 ottobre 1999, Tomasi, C.E.D. Cass., n. 214838; contra, Cass., 12 maggio 1999, Noleno, ivi, n. 214067; in dottrina per tutti, SELVAGGI, Commentario Chiavario, in La normativa complementare, (art. 14 att.), vol. I, 1992, 531.
[49] Ad esempio, Cass., 10 aprile 1997, Rettondini, C.E.D. Cass., n. 208690.
[50] V. Cass., 26 novembre 1983, Cordaro, Cass. pen. 1984, 2415.
[51] Tesi sostenuta in dottrina da MUCCIARELLI, in Dolcini-Mucciarelli-Paliero-Riva-Crugnola, Commentario delle “Modifiche al sistema penale”, Giuffrè, 1982, 5299.
[52] V. Cass., 26 novembre 1983, Cordaro, cit.
[53] V. Cass., 22 aprile 1985, Cristalli, Riv. pen. 1986, 1073.
[54] In tal senso, v. Cass. 15 giugno 1990, Cipolla, Riv. pen. 1991, 279.
[55] V. Cass., 28 settembre 1994, Casentino, C.E.D. Cass., 199166; Cass., 18 marzo 1993, Mughetto, Riv. pen. 1993, 1110; Cass., 22 ottobre 1992, Petri, ivi, 1993, 891.
[56] Così la Cass., 18 settembre 1992, Petrì, C.E.D. Cass., n. 192077.
[57] V. Cass., 20 maggio 1993, Mighetto, ivi, n. 195128.
[58] In dottrina, STORTONI, Estinzione del reato e della pena, in Dir. pen. 1990, IV, 342.

Reati fallimentari: nessun obbligo di consegna al curatore delle scritture contabili da parte dell’ex amministratore della società fallita. Necessaria la prova dell’intenzionalità del liquidatore di omettere la consegna della contabilità al curatore

Tribunale di Milano, Sez. I, 11 gennaio 2018
Presidente Fazio, Estensore Rizzi

Con la sentenza in commento, la prima sezione penale del Tribunale di Milano affronta due delicati temi in relazione alla tenuta delle scritture contabili della società fallita e all’obbligo di consegna delle stesse al curatore.

Si tratta in particolare: i) dell’insussistenza, in capo all’amministratore cessato in epoca precedente la declaratoria di insolvenza, dell’obbligo di consegna dei libri contabili al curatore; ii) della necessità di provare la volontà – in capo al liquidatore in carica all’atto del fallimento – di non consegnare la contabilità al curatore.

Il Tribunale di Milano, accogliendo le richieste delle difese, ha assolto tutti gli imputati dal reato di bancarotta fraudolenta documentale, in particolare – per l’amministratore delegato cessato – per non aver commesso il fatto, per il liquidatore in carica alla data della dichiarazione di fallimento perché il fatto non costituisce reato.

Con riguardo all’imputazione formulata a carico di tali imputati, l’accusa contestava la mancata consegna di tutta la contabilità sociale al curatore fallimentare ritenendo gravante tale obbligo sia sul liquidatore in carica al momento della dichiarazione di fallimento sia sull’amministratore da tempo cessato.

Più nello specifico uno degli amministratori, cessato dalla carica oltre un anno prima rispetto alla dichiarazione di fallimento, è risultato comunque imputato del reato di bancarotta fraudolenta documentale posto che, secondo la tesi dell’accusa, gravava anche su di esso l’obbligo di consegna delle scritture contabili al curatore nonostante la società fosse stata dichiarata fallita dal Tribunale di Milano oltre un anno dopo la cessazione del medesimo da ogni incarico.

Quanto, invece, alla posizione del liquidatore in carica al momento della declaratoria di insolvenza, l’accusa ne ha richiesto la condanna per non avere, anch’esso, provveduto alla consegna delle scritture contabili al curatore pur essendone obbligato.

Per la posizione dell’amministratore cessato prima della dichiarazione di fallimento i giudici meneghini, con la sentenza in commento, osservano che “…quanto al contestato delitto di bancarotta fraudolenta documentale, giova, innanzitutto, evidenziare che non è ravvisabile alcun obbligo di consegna al curatore delle scritture contabili in capo all’ex amministratore della società (cfr. Cass. 21818/2017).

Pertanto, la condotta penalmente rilevante può essere addebitata esclusivamente a colui che ricopre la carica di amministratore della società al momento della dichiarazione di fallimento della stessa, mentre per poter ritenere sussistente una responsabilità per bancarotta documentale di colui che ha formalmente rivestito la condotta di amministratore in una fase precedente, è necessario che sia contestato e provato che lo stesso fosse anche amministratore di fatto nell’ultima fase di vita della società o che abbia concorso, in qualità di extraneus, nel fatto dell’intraneus (amministratore della società al momento del fallimento) con la consapevolezza di determinare un depauperamento del patrimonio sociale ai danni dei creditori (cfr. Cass. 21818/2017 cit.)

Secondo il Tribunale, confortato dal precedente giurisprudenziale della Suprema Corte richiamato, non può dunque invocarsi alcun obbligo di consegna delle scritture contabili a carico dell’amministratore cessato, fatto salvo che non si provi che il soggetto in questione, al di là della perdita formale della qualifica di amministratore di diritto, né abbia assunto, sino alla data del fallimento, quella di fatto piuttosto che concorso nel reato in qualità di extraneus.

Pertanto in capo all’amministratore di una società che sia “effettivamente” cessato da tale carica e che non abbia successivamente concorso nel reato come “extraneus” non grava alcun dovere di conservazione della documentazione contabile né un obbligo di consegna della stessa al curatore, in quanto la relativa posizione di garanzia incombe – in via esclusiva – sul soggetto che rivesta la carica di amministratore (piuttosto che di liquidatore) al momento della dichiarazione di fallimento.

Per quanto concerne la posizione del liquidatore, poi, il Tribunale, pur avendo accertato che il medesimo avesse ricevuto almeno parte della documentazione contabile della società, ha ritenuto del tutto insussistente il dolo specifico previsto dalla norma, in quanto assente la prova che il medesimo fosse animato dall’intenzione di nascondere la contabilità “al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto”.

E ciò per due motivi: innanzitutto perché non era emerso nel corso del dibattimento che il liquidatore avesse intrattenuto prima della sua nomina rapporti con la società fallita; secondariamente in quanto, nella fattispecie, il liquidatore era stato nominato quando ormai la liquidazione era pressoché completata, per cui era evidente che non potesse avere alcun interesse a non consegnare o ad occultare i documenti contabili.

Ne conseguiva un’assoluzione dell’amministratore cessato per non aver commesso il fatto e del liquidatore perché il fatto non costituisce reato.

La pronunzia in esame assume interesse con riguardo alla posizione del liquidatore essendo pacifico che all’amministratore “realmente” cessato prima della dichiarazione di fallimento (fatte salve le eccezioni formulate dal Tribunale di Milano con riferimento all’amministratore di fatto o al concorso dell’extraneus nel reato proprio) non competa alcun obbligo di consegna dei documenti al curatore gravando, in capo al medesimo, unicamente il passaggio di consegne a favore del nuovo amministratore o liquidatore.

Correttamente affermano i giudici milanesi che la garanzia di consegna delle scritture contabili si pone a tutela certamente della ricostruzione del patrimonio sociale e del movimento degli affari dell’impresa fallita ma affinché si possa ritenere consumato il più grave reato di bancarotta documentale è necessario che qualsiasi manipolazione delle stesse, finanche la mancata consegna o l’occultamento, abbiano come finalità quella di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori.

Il dolo specifico così tracciato dalla sentenza in commento – il cui onere probatorio grava sull’accusa – può ritenersi integrato unicamente qualora si pervenga alla dimostrazione che il liquidatore non si sia limitato ad operare nella fase terminale di chiusura della società ma che, in realtà, avendo interessi personali o di terzi da tutelare, si sia anzitempo ingerito nell’attività gestoria.

Tali circostanze costituiscono la presunzione che la finalità perseguita fosse proprio quella di avvantaggiare sé od altri piuttosto che arrecare pregiudizio ai creditori.

Ebbene, nel caso sottoposto al Tribunale di Milano con la sentenza in commento, è stato dimostrato che il liquidatore, pur avendo omesso in tutto la consegna della contabilità, prima della sua nomina non aveva intrattenuto alcun rapporto con la società fallita ed i suoi soci e amministratori.

Un’altra circostanza ritenuta fondamentale ai fini della dimostrazione dell’insussistenza dell’elemento psicologico del reato è da rinvenirsi nel momento in cui liquidatore era stato nominato ovvero quando di fatto la liquidazione era terminata.

Pertanto la mera posizione di legale rappresentante all’atto del fallimento della società non comporta sic et simplciter la penale responsabilità ex art. 216 comma 1 l. fall. ma occorre un quid pluris costituito dalla dimostrazione, al di là di ogni ragionevole dubbio, che l’agente abbia agito con l’intento di porre in essere una condotta lesiva degli interessi dei creditori o, a maggior ragione, atta a nascondere propri o altrui vantaggi.

Dunque non un ruolo di garanzia ma un abuso della propria posizione e dei propri doveri.

In caso di revoca della sentenza di condanna per abolizione del reato deve revocarsi anche la misura della confisca

Cass. pen, Sez. III (ud. 12 gennaio 2018) 21 febbraio 2018, n. 8421
Presidente Savani, Relatore Macrì, P.G. Mazzotta

Alleghiamo di seguito una pronuncia interessante che chiarisce gli effetti del fenomeno di abolitio criminis.

Nel caso di specie, un soggetto condannato nel 2014 per fatti di omesso versamento IVA (art. 10 ter D. lgs. 74/2000) aveva formulato incidente di esecuzione ex artt. 666 e 673 c.p.p., chiedendo la revoca della sentenza, in virtù della parziale abolizione del reato derivante dall’innalzamento delle soglie di punibilità operato dal D. lgs. 158/2015 (quest’ultimo provvedimento normativo era stato a suo tempo commentato da questa Rivista, ivi).

Il Giudice dell’esecuzione aveva deciso la revoca della sentenza perché il fatto non era più previsto dalla legge come reato, ciò che aveva determinato anche la cessazione dell’esecuzione della pena e degli effetti penali, tra cui le spese processuali e di sequestro.

Tuttavia, lo stesso Giudice aveva escluso l’applicabilità dell’art. 673 c.p.p. a quella parte della sentenza che aveva disposto la confisca per equivalente ai sensi dell’art. 322 ter c.p., e ciò in quanto tale misura era già stata eseguita e vi era già stata “l’acquisizione del bene a titolo originario in favore del patrimonio dello Stato”.

Orbene, con la pronuncia allegata la Cassazione ha annullato l’ordinanza disponendo la restituzione all’avente diritto di quanto confiscato.

Nella parte motiva, la Corte ha anzitutto ricordato (i.) che l’art. 2 comma 2 c.p. stabilisce che se v’è stata condanna ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali, (ii.) che l’art. 210 comma 1 c.p. dispone che l’estinzione del reato impedisce l’applicazione delle misure di sicurezza e ne fa cessare l’esecuzione, (iii.) e che l’art. 673 c.p.p. prevede che, in caso di abrogazione della norma incriminatrice, il giudice dichiara che il fatto non è previsto dalla legge come reato ed adotta i provvedimenti conseguenti.

Sulla scorta di questi richiami normativi, i Giudici hanno ritenuto che non vi sia dubbio che tra i provvedimenti conseguenti alla revoca della condanna vi sia anche la revoca di tutte le statuizioni accessorie che presuppongono la detta condanna, come nella specie, la confisca dei beni sequestrati.

Tale conclusione non può essere posta in dubbio dal fatto che la confisca sia diretta o per equivalente, né dalla sua natura di misura di sicurezza o sanzione. Ciò che conta è che si tratta di una misura obbligatoria che consegue ad una sentenza; qualora quest’ultima sia revocata, la confisca deve subire la stessa sorte.

Nemmeno la sua esecuzione costituisce elemento ostativo, a livello concettuale o a livello operativo, alla revoca, potendosi sempre disporre la restituzione dei beni illegittimamente acquisiti, e cioè di quanto concretamente realizzato dall’esecuzione, siccome lo Stato non può trattenere i beni senza titolo, essendo quest’ultimo venuto meno a seguito della norma abrogatrice.

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Coltivazione stupefacenti e principio di offensività

Con la sentenza n. 2618 del 21 Gennaio 2016 la VI sezione penale della Cassazione affronta la questione della coltivazione delle sostanze stupefacenti (Art. 73, comma quinto, del D.P.R. n. 309 del 1990) ed il principio di offensività.

La Corte d’Appello di Cagliari aveva affermato la penale responsabilità dell’imputato sulla base di alcuni semplici elementi: i) la conformità della pianta al tipo botanico previsto dalla legge; ii) la sua attitudine a giungere a maturazione; iii) la capacità di di produrre sostanza stupefacente.

Come è facile constatare si tratta di un orientamento piuttosto rigido e restrittivo, che anticipa molto la soglia di punibilità del reato.

E’ pur vero che il delitto di coltivazione di sostanze stupefacenti è un reato di pericolo presunto a consumazione anticipata, ma precisa la Suprema Corte che deve essere comunque bilanciato con il principio di offensività.

In tema di sostanze stuperfacenti, quindi, è necessario verificare in concreto l’offensività della condotta di coltivazione attraverso l’accertamento dell’idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile, idoneo a ledere il bene giuridico tutelato, la salute.

Con riferimetno alla coltivazione, pertanto, è necessario accertare la potenziale lesività delle piante, valutata al momento dell’accertamento del fatto e non alla futura ed aventuale capacità della pianta di mettere in pericolo il bene tutelato.

Nel caso specifico, le piante sequestrate non avevano portata offensiva poiché prive di effetto drogante, infatti si trattava di piccoli ed insignificanti germogli contenuti in bicchierini di caffè non giunti a maturazione.