Espulsione dello straniero: sì alla sospensione per il superiore interesse dei figli minori

L’interesse statuale va bilanciato con quello dei minori alla tutela del nucleo familiare, saldamente radicato sul territorio italiano (Trib. Roma decreto 3 agosto 2021)

Il Tribunale di Roma, sezione diritti della persona e immigrazione ha accolto lo scorso 3 agosto la domanda di sospensione cautelare di un provvedimento di espulsione dal territorio italiano emesso dal Prefetto di Roma nei confronti di un cittadino albanese (testo in calce).

Il provvedimento è di interesse in quanto il Giudice ha dato rilievo all’esistenza di forti legami familiari sul territorio italiano del ricorrente (la moglie e due figli minori) e ha sospeso, inaudita altera parte, il provvedimento proprio in quanto l’evidenza di tali legami implica “necessariamente la sussistenza del rischio di un danno grave ed irreparabile in connessione ad un eventuale allontanamento del ricorrente dal territorio, senza contare che in presenza di figli minori l’interesse statuale all’allontanamento dovrà comunque essere bilanciato con l’interesse superiore di questi ultimi, trattandosi di provvedimento destinato inevitabilmente ad incidere sull’unità familiare (cfr anche art. 28 comma 3 d.lvo 286/98)”.

SommarioLa vicendaIl permesso di soggiorno per assistenza minoriLe dimissioni dal carcere e l’espulsione emessa dal PrefettoIl trattenimento presso il Centro per i rimpatri e la convalida del trattenimentoIl ricorso d’urgenza al Tribunale ordinario e la sospensione dell’espulsioneConclusioni

La vicenda

Il ricorrente è arrivato all’età di 20 anni in Italia, nel 2001, con regolare permesso di soggiorno. L’anno successivo ha commesso un reato per il quale è stato successivamente condannato e tratto in arresto nel 2012. Tra la data della commissione del reato e l’emissione del provvedimento di espulsione sono trascorsi 19 anni durante i quali l’interessato, oltre ad aver scontato per intero la pena detentiva inflitta, si è pienamente integrato sul territorio italiano dove ha messo su famiglia e dove lavora sin dal 2014 come cuoco, dapprima presso la mensa del carcere e poi presso un ristorante nel centro di Roma, grazie all’autorizzazione al lavoro esterno al carcere (art. 21 Ordinamento penitenziario), ottenuta proprio per la sua buona condotta durante l’espiazione della pena.

Prima della detenzione il ricorrente aveva contratto matrimonio con una propria connazionale e dalla loro unione sono nati due figli con i quali il ricorrente ha mantenuto un rapporto costante anche durante la detenzione. 

La moglie e i figli sono titolari di regolare permesso di soggiorno e sono perfettamente integrati sul territorio italiano dove i ragazzi frequentano la scuola ed il gruppo scout del paese dove hanno stabilito la residenza.

Il ricorrente ha invece chiesto, poco prima della scarcerazione, un’autorizzazione alla permanenza sul territorio italiano in forza dell’art. 31 d.lgs. 286/98, a mente del quale il Tribunale per i minorenni può autorizzare la permanenza sul territorio nazionale del genitore per salvaguardare il superiore interesse dei figli minori. 

Il permesso di soggiorno per assistenza minori

L’art. 31, co. 3, del d.lgs 286/98 prevede infatti che il Tribunale per i minorenni, per gravi motivi connessi appunto allo sviluppo psicofisico dei figli stranieri che si trovano nel territorio italiano e tenuto conto dell’età e delle condizioni di salute del minore, può autorizzare l’ingresso o la permanenza del familiare, per un periodo di tempo determinato, anche in deroga alle altre disposizioni del TU in materia di immigrazione.

L’art. 31 TU immigrazione introduce quindi un’eccezione alla disciplina sul controllo delle frontiere laddove ricorrano le condizioni per salvaguardare il preminente interesse del minore nei casi in cui l’allontanamento di un suo familiare potrebbe appunto pregiudicarne l’integrità fisico-psichica del minore stesso.

Il noto contrasto giurisprudenziale relativo all’interpretazione dell’art. 31 comma 3 d.lgs 286/98 si è risolto con le sentenze delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione del 25 ottobre 2010 n. 21799 e del 6 luglio 2010 n. 21803 che hanno sancito il chiaro principio di diritto secondo cui: “La temporanea autorizzazione alla permanenza in Italia del familiare del minore, prevista dall’art. 31 del d.lgs 286/98 in presenza di gravi motivi connessi al suo sviluppo psico-fisico, non postula necessariamente l’esistenza di situazioni di emergenza o di circostanze contingenti ed eccezionali strettamente connesse alla sua salute, potendo comprendere qualsiasi danno effettivo, concreto, percepibile ed obiettivamente grave che in considerazione dell’età e delle condizioni di salute ricollegabili al complessivo equilibrio psicofisico deriva o deriverà certamente al minore dall’allontanamento del familiare o dal suo definitivo sradicamento dall’ambiente in cui è cresciuto. Trattasi di situazioni di per sé non di lunga o indeterminabile durata, e non aventi tendenziale stabilità, che pur non prestandosi ad essere preventivamente catalogate e standardizzate, si concretano in eventi traumatici e non prevedibili nella vita del fanciullo che necessariamente trascendono il normale e comprensibile disagio del rimpatrio suo o del suo familiare”.

Le dimissioni dal carcere e l’espulsione emessa dal Prefetto

Al momento delle dimissioni dal carcere, nonostante la pendenza del procedimento volto al rilascio del permesso di soggiorno per assistenza minori, il Prefetto di Roma ha emesso un provvedimento di espulsione senza effettuare il bilanciamento tra l’interesse statuale all’allontanamento e l’interesse superiore dei figli minori alla permanenza sul territorio italiano del genitore, trattandosi di provvedimento destinato inevitabilmente ad incidere sull’unità familiare (cfr anche art. 28 comma 3 d.lvo 286/98)

Sul punto è degno di nota l’insegnamento da ultimo impartito dalla Cassazione, Sezioni Unite civili, nella sentenza n. 15750 del 12 giugno 2019.

In tale occasione le sezioni unite hanno espresso la seguente massima:

 “In tema di autorizzazione all’ingresso o alla permanenza in Italia del familiare di minore straniero che si trova nel territorio italiano, ai sensi dell’art. 31, comma 3, t.u. immigrazione […], il diniego non può essere fatto derivare automaticamente dalla pronuncia di condanna per uno dei reati che lo stesso testo unico considera ostativi all’ingresso o al soggiorno dello straniero; nondimeno la detta condanna è destinata a rilevare, al pari delle attività incompatibili con la permanenza in Italia, in quanto suscettibile di costituire una minaccia concreta e attuale per l’ordine pubblico o la sicurezza nazionale, e può condurre al rigetto della istanza di autorizzazione all’esito di un esame circostanziato del caso e di un bilanciamento con l’interesse del minore, al quale la detta norma, in presenza di gravi motivi connessi con il suo sviluppo psicofisico, attribuisce valore prioritario, ma non assoluto”.

Ad avviso delle Sezioni Unite, il legislatore, con la previsione del permesso rilasciato ai sensi dell’art. 31 d.lvo 286/98, ha voluto perseguire l’interesse del minore, assicurandogli il godimento pieno del suo diritto fondamentale all’effettività della vita familiare e della relazione con i propri genitori, pur nel rispetto dell’esigenza di salvaguardare l’interesse dello Stato ospitante alla tutela dell’ordine pubblico. A tal riguardo, l’art. 31, comma 3, sancisce che, in presenza dei gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico del minore, è previsto il rilascio dell’autorizzazione alla permanenza o all’ingresso del familiare come possibile “anche in deroga alle altre disposizioni del presente testo unico”.

Tale deroga alle disposizioni che prevedono cause ostative all’ingresso o al soggiorno conseguenti a condanne penali dello straniero, comporta che l’autorizzazione ai sensi dell’art. 31, comma 3 TUI, non può essere negata automaticamente, in base alla condanna per determinati reati, ma deve di volta in volta essere fatto un bilanciamento degli interessi in gioco, essendo vietato ogni automatismo.

Nel caso sottoposto al vaglio del Tribunale di Roma è di tutta evidenza la mancanza del requisito dell’attualità della pericolosità sociale e quindi l’interesse dello Stato ad allontanare l’interessato deve soccombere al superiore interesse dei minori a potersi vedere garantito il diritto all’unità familiare.

Dunque, facendo tesoro dell’insegnamento delle Sezioni Unite, nel caso di specie deve ritenersi sussistente la necessità e l’opportunità della permanenza di entrambi i genitori sul territorio italiano per favorire lo sviluppo psico fisico dei minori pienamente integrati sul territorio italiano, stante anche l’assenza dell’attualità della pericolosità del ricorrente in quanto il reato (l’unico commesso dall’interessato) è risalente nel tempo e il ricorrente ha intrapreso con successo un percorso di reinserimento nella società libera. 

Ed infatti, ad avviso del Giudice procedente, nel succinto decreto in commento, in assenza di attualità della pericolosità non vi sono ragioni per poter ritenere preminente l’interesse dello Stato all’ordine pubblico e dovrà attendersi l’esito del procedimento pendente innanzi al Tribunale per i minorenni che deciderà se concedere o meno un’autorizzazione al ricorrente di poter restare in Italia, anche per poter continuare a svolgere l’attività lavorativa in essere che rappresenta l’unica fonte di reddito per l’intero nucleo familiare.

Il trattenimento presso il Centro per i rimpatri e la convalida del trattenimento

In conseguenza del provvedimento di espulsione è stato emesso un ordine del Questore di trattenimento presso il Centro di permanenza temporanea di Roma Ponte Galeria per l’indisponibilità di un vettore che consentisse il rimpatrio immediato dell’interessato.

Illegittimamente la convalida del trattenimento è stata effettuata dal Giudice di Pace e non dal Tribunale ordinario che è invece competente per le convalide dei trattenimenti allorquando  sia pendente un giudizio in materia di unità familiare (art. 30, co. 2, TUI) ovvero – come nel caso di specie – una richiesta di autorizzazione alla permanenza del familiare di minore straniero (art. 31, co. 3, TUI). 

Tale competenza esclusiva e derogatoria alla normativa relativa alla convalida del trattenimento dello straniero irregolare è prevista dall’art. 1, co. 2 bis, D.L. 241/2004, introdotto in sede di conversione con L. 271/2004, ed è stata da ultimo ribadita dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 16075 del 2019 e dai giudici di merito (in ultimo, Tribunale di Genova, ordinanza del 29.11.2020 e Tribunale di Roma, ordinanza 7546/2018).

Il ricorso d’urgenza al Tribunale ordinario e la sospensione dell’espulsione

Nonostante l’errore del Giudice di Pace che non ha accolto la questione preliminare di incompetenza sollevata dalla difesa durante l’udienza di convalida (celebratasi da remoto), il ricorrente è stato poi liberato dopo che è stata accolta la domanda cautelare di sospensione dell’atto presupposto e giustificativo del trattenimento: il provvedimento di espulsione.

Il Tribunale ordinario di Roma ha dapprima “condiviso la tesi del ricorrente in punto di competenza, giacchè ai sensi dell’art. 1, co. 2 bis, D.L: 241/2004, introdotto in sede di conversione con L. 271/2004, è competente il tribunale ordinario ( e non il giudice di pace) a conoscere delle controversie relative all’ espulsione amministrativa qualora sia pendente un giudizio in materia di unità familiare (art. 30, co. 2, TU) ovvero una richiesta di autorizzazione alla permanenza del familiare di minore straniero (art. 31, co. 3, TU), come documentato nel caso di specie”; per poi entrare nel merito della vicenda e, come osservato, ha sospeso il provvedimento per “la sussistenza del rischio di un danno grave ed irreparabile in connessione ad un eventuale allontanamento del ricorrente dal territorio, senza contare che in presenza di figli minori l’interesse statuale all’allontanamento dovrà comunque essere bilanciato con l’interesse superiore di questi ultimi, trattandosi di provvedimento destinato inevitabilmente ad incidere sull’unità familiare (cfr anche art. 28 comma 3 d.lvo 286/98)

Conclusioni

Il caso sottoposto al vaglio del Tribunale di Roma è di sicuro interesse per almeno due ordini di ragioni.

In primo luogo denota un’insufficiente attenzione del giudice di pace a quelli che sono ormai principi consolidati nel nostro ordinamento relativi alla competenza del tribunale ordinario (e non già del giudice di pace) in tutti i procedimenti di limitazione della libertà personale comunque afferenti a soggetti che hanno pendenti un “giudizio in materia di unità familiare (art. 30, co. 2, TU) ovvero una richiesta di autorizzazione alla permanenza del familiare di minore straniero (art. 31, co. 3, TU).”

Nonostante il chiaro disposto normativo della legge 271/2004 e la costante giurisprudenza, ciò non solo ha comportato l’lllegittimità del trattenimento protrattosi per complessivi 10 giorni (con possibile danno erariale in caso di richiesta di risarcimento del danno) ma corrobora la tesi della dottrina secondo cui è opinabile l’attribuzione ad un giudice non togato di materie così delicate e che afferiscono alla limitazione della libertà personale, di rilievo costituzionale (art. 13 Costituzione). 

Su un piano generale, la vicenda sottesa alla decisione in commento palesa l’inattuazione del principio sancito dall’art. 27, comma 3 della Costituzione secondo cui la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. Ed infatti l’espulsione dello straniero a fine pena è l’epilogo scontato nella stragrande maggioranza dei casi; un automatismo che di fatto stride con il principio di proporzionalità almeno quando – come nel caso di specie – il reato è risalente nel tempo, non vi è recidiva, il condannato ha dato prova durante l’esecuzione della pena di essersi ravveduto e vi sono altri interessi (ad es. il superiore interesse dei minori) che devono prevalere in assenza dell’attualità della pericolosità dell’interessato.

D’altronde la Corte europea dei Diritti dell’Uomo in tema d’interpretazione dell’art. 8 della Convenzione Edu ha chiarito che, nonostante la Convenzione non garantisca allo straniero il diritto di entrare o risiedere in un determinato Paese, in ogni caso l’espulsione, pur costituendo un’interferenza nella vita privata o familiare, può ritenersi giustificata ai sensi del par. 2 dell’art. 8, purché avvenuta in conformità della legge e nel perseguimento del legittimo scopo di prevenire disordine e reati, individuando una serie di elementi la cui valutazione consente di stabilire, nel caso concreto, se la misura adottata possa considerarsi ragionevole e proporzionata: a) la natura e la gravità del reato commesso dal richiedente, b) la durata del soggiorno nel Paese da cui dev’essere espulso, c) il tempo trascorso dalla commissione del reato e la condotta tenuta dal richiedente, d) la nazionalità delle persone interessate, e) la situazione familiare del richiedente, ivi compresa la durata del matrimonio ed altri fattori sintomatici dell’effettività della vita di coppia, f) la conoscenza del reato da parte del coniuge al tempo dell’instaurazione del vincolo familiare, g) l’esistenza di figli e la loro età, h) le difficoltà che il coniuge potrebbe incontrare nel Paese verso il quale il richiedente dev’essere espulso, i) l’interesse ed il benessere dei figli, in particolare le difficoltà che ciascuno di essi potrebbe incontrare nel Paese verso il quale il richiedente dev’essere espulso, l) la solidità dei legami sociali, culturali e familiari con il Paese ospite e con quello di destinazione (cfr. ex plurimis, Corte EDU, 23/10/2018, Assem Hassan Ali c. Danimarca; 1/12/2016, Salem c. Danimarca; 3/07/2012, Samsonnikov c. Estonia; 7/04/2009, Cherif e altri c. Italia). 

Ne consegue che il principio di proporzionalità e ragionevolezza della espulsione, nei termini delineati dalla Corte Edu, ed il principio della finalità rieducativa della pena di cui all’art. 27 comma 3 della Costituzione devono essere sempre considerati quali parametri da utilizzare nelle decisioni relative alle espulsioni degli stranieri con precedenti penali ed ogni automatismo espulsivo fondato esclusivamente sull’esistenza di precedenti penali deve ritenersi illegittimo.

RICORSO ALLA CEDU Corte Europea dei diritti dell’Uomo Come presentarlo e in che modo lo stesso viene gestito

La Corte dichiara inammissibili la maggior parte dei ricorsi senza esaminarli nel merito, a causa del mancato rispetto dei requisiti previsti a pena di inammissibilità. Le decisioni di inammissibilità sono definitive e non suscettibili di impugnazione.

Affinché il Suo ricorso non venga dichiarato inammissibile è quindi di fondamentale importanza che Lei rispetti tutti i requisiti necessari. Prima di introdurre il ricorso, La invitiamo a consultare il sito internet della Corte ed in particolare la Guida sull’ammissibilità, avvalendosi della lista di controllo, onde assicurarsi che il ricorso presenti tutti i requisiti necessari per superare il vaglio di ammissibilità.

PRIMA DI INVIARE IL RICORSO ALLA CORTE

Il formulario di ricorso è disponibile sul sito internet della Corte. La invitiamo a scaricarlo, compilarlo in ogni sua parte, nessuna esclusa, stamparlo e poi inviarlo alla Corte, allegando solo copie (non originali) dei documenti relativi che non le verranno poi più restituite alla fine del procedimento. Non chieda alla Corte di inviarLe il formulario in formato cartaceo ma lo stampi e si assicuri che arrivi in tempo utile alla fine di evitare che il ricorso venga dichiarato tardivo (consulti a tal proposito la Guida pratica per la presentazione di un ricorso alla Corte e le istruzioni per la compilazione del formulario, disponibili sul sito internet della Corte).

Un ricorso incompleto rischia di non essere esaminato dalla Corte. È quindi essenziale che Lei compili scrupolosamente in ogni sua parte il formulario di ricorso. In caso di omessa o incompleta compilazione anche di una singola parte del formulario, o di mancato invio di copia dei documenti relativi, la Corte potrà rifiutare la registrazione del ricorso senza procedere al suo esame.

Il mio ricorso alla CEDU: Come presentarlo e in che modo lo stesso viene gestito

 È possibile rivolgersi alla Corte utilizzando una delle due lingue ufficiali del Consiglio d’Europa: francese o inglese. Vi è tuttavia anche la possibilità di utilizzare una delle lingue ufficiali di un qualsiasi Stato membro del Consiglio d’Europa.Durante la fase iniziale del procedimento, non è necessaria l’assistenza di un avvocato. Tuttavia qualora Lei desideri essere rappresentato, dovrà inviare alla Corte una procura da Lei sottoscritta in cui nomina il Suo legale di fiducia.Il formulario di ricorso compilato in ogni sua parte dovrà essere inviato, unitamente ai documenti relativi, al seguente indirizzo:European Court of Human Rights Council of Europe
67075 Strasbourg cedex FranceIl ricorso deve essere inviato solo per posta ed è consigliabile l’invio per posta raccomandata con avviso di ricevimento. La Corte deve essere adita entro il termine stabilito dalla Convenzione; fa fede la data del timbro postale.Pertanto il formulario di ricorso dovrà essere spedito il più presto possibile, una volta concluso il procedimento nazionale mediante una decisione definitiva.DOPO AVER INVIATO IL RICORSO ALLA CORTEIl ricorso arriva all’Ufficio Centrale della Corte che riceve mediamente circa 1500 lettere al giorno. Considerato l’elevato numero di corrispondenza, la Corte non è in condizione di accusarne immediatamente ricevuta.Non chiami la Corte per avere informazioni sull’avvenuta ricezione del ricorso. Sarà la Corte stessa a contattarLa se ha necessità di ulteriori informazioni.L’Ufficio Centrale verifica la corrispondenza in arrivo e poi trasmette i ricorsi alla divisione giuridica competente per lo Stato contro il quale è stato presentato il singolo ricorso. Ad esempio un ricorso contro la Germania verrà trasmesso alla divisione giuridica che tratta i casi tedeschi, composta da persone che possegono le competenze linguistiche e giuridiche del Paese.Il ricorso si vede attribuito un numero e viene esaminato da un giurista. Ciò non significa che esso sia stato accolto, ma solo che si è proceduto alla sua registrazione. Nel caso in cui Lei venga contattato dalla Corte, dovrà rispondere entro il termine stabilito. In caso contrario il Suo ricorso verrà rigettato o distrutto.Una volta in possesso di tutte le informazioni necessarie per il corretto esame del ricorso, la Corte lo assegna ad una delle sue formazioni giudiziarie.Nel corso del procedimento, anche se Le sembra che sia già trascorso molto tempo, attenda di essere contattato dalla Corte. Considerato l’elevato numero di ricorsi presentati ogni anno (più di 50.000) ed il numero di ricorsi pendenti, la Corte non può accusare ricevuta delle lettere o dei documenti che riceve ovvero indicare la data approssimativa di trattazione del ricorso.La procedura dinanzi alla Corte è scritta. Pertanto tutte le informazioni che Lei desidera portare a conoscenza della Corte devono essere comunicate per iscritto.page4image701396544
L’ESAME DEL RICORSO1.
Formazioni GiuDiziarieA seconda dei casi, i ricorsi vengono assegnati ad una delle formazioni giudiziarie della Corte: Giudice unico, Comitato o Camera.̈  Se il Suo ricorso è chiaramente inammissibile, perché non rispetta i requisiti necessari per l’introduzione di un ricorso alla Corte, esso viene assegnato ad un Giudice unico. La decisione di inammissibilità è definitiva e Lei ne sarà informato. Le decisioni di inammissibilità sono definitive e non impugnabili e non è possibile richiedere informazioni ulteriori. Il caso viene definitivamente archiviato e il relativo fascicolo successivamente distrutto.̈  Se si tratta di un caso ripetitivo, perché verte su questioni sulle quali la Corte si è già pronunciata in casi simili, il ricorso viene assegnato ad un Comitato di 3 giudici. In tale evenienza, Le verrà inviata una lettera contenente informazioni sulla procedura. Anche in questo caso, la Corte La contatterà se necessario.̈  Se non si tratta di un caso ripetitivo, il ricorso viene assegnato ad una Camera, composta da 7 giudici. Tale organo potrà emettere una decisione definitiva di inammissibilità o, se lo ritiene ammissibile, esaminare il ricorso nel merito. Preliminarmente il ricorso viene comunicato al Governo dello Stato interessato, per informarlo della sua esistenza e consentirgli di presentare eventuali osservazioni in merito alle questioni sollevate. Le osservazioni del Governo Le verranno trasmesse e Lei avrà la possibilità di replicare. Sebbene non sia necessario farsi assistere da un avvocato fin dall’inizio del procedimento, in questa fase la Corte La inviterà a nominare un avvocato di fiducia. Anche in questo caso, sarà la Corte a contattarLa.̈ La informiamo inoltre che la Grande Camera, composta da 17 giudici, non viene mai investita direttamente di un ricorso ma solo per rimessione o rinvio, in una fase avanzata del procedimento. Se il ricorso viene assegnato ad una Camera, questa può rimettere la competenza a favore della Grande Camera, quando si tratta di risolvere una questione rilevante concernente l’interpretazione della Convenzione o quando vi è il rischio di un conflitto di giurisprudenza. In casi eccezionali, la Grande Camera può altresì essere investita di un ricorso per rinvio, a richiesta di una delle Parti, entro 3 mesi dalla pronuncia della sentenza di una Camera.2. Durata Del proceDimentoÈ impossibile indicare la durata media di trattamento dei ricorsi da parte della Corte. Ciò dipende dal tipo di caso, dalla formazione giudiziaria alla quale viene assegnato, dalla solerzia con cui le parti forniscono alla Corte le informazioni richieste e da molteplici altri fattori. La Corte esamina i ricorsi in base ad un ordine di trattazione che tiene conto dell’importanza e dell’urgenza delle questioni sollevate. Pertanto, i casi più gravi o quelli che mettono in luce problemi su larga scala, vengono trattati con maggior rapidità, il che spiega perché può accadere che un ricorso sia ancora pendente mentre un altro, presentato dopo, sia già stato deciso.3. uDienzeLe udienze dinanzi alla Camera o alla Grande Camera si svolgono in un numero limitato di casi (circa 30 l’anno). Lei verrà informato nel caso in cui, in relazione al ricorso da Lei presentato, la Corte decida di tenere un’udienza. Tutte le udienze sono registrate ed è possibile prenderne visione sul sito internet della Corte.page5image700792224
  • „  la corte può Darmi un consiGlio leGale?Non è compito della Corte dare consigli di natura legale sulle possibilità di ricorso e sulle procedure previste in ogni singolo Paese. Per quanto riguarda invece la procedura dinanzi alla Corte, è possibile trovare tutte le informazioni necessarie sul sito internet. La Corte non è in grado di stabilire a priori quante possibilità di successo abbia il Suo ricorso. Dovrà quindi necessariamente attendere che venga emessa una decisione o pronunciata una sentenza.
  • „  la corte ha la possibilità Di intervenire presso lo stato convenuto?No. La Corte non interverrà a Suo favore presso le autorità dello Stato contro il quale è stato presentato il ricorso. Tuttavia, in casi eccezionali, la Corte può richiedere a uno Stato di adottare determinate misure o di astenersi dal compiere determinate azioni, in attesa dell’esame del ricorso (si tratta in genere di casi in cui vi è il rischio concreto che il ricorrente possa subire danni gravi alla persona).
  • „  la corte si È Già occupata Di casi simili al mio?Le sentenze della Corte vengono pubblicate sul sito internet. Lei può quindi effettuare una ricerca e verificare se la Corte ha già esaminato casi simili al Suo.
  • „  se il mio ricorso viene Dichiarato inammissibile che possibilità ho Di oppormi a tale Decisione?Le decisioni di inammissibilità sono definitive e non sono suscettibili di impugnazione. Pertanto è estremamente importante che ogni ricorrente, prima di rivolgersi alla Corte, si assicuri che il Suo ricorso soddisfi tutti i requisiti di ammissibilità.
  • „  come posso Fare per avere inFormazioni sul mio ricorso?La Corte non è in grado di rispondere alle molteplici richieste di informazione sulla fase in cui si trovano i ricorsi pendenti. Considerato che la procedura dinanzi alla Corte è scritta, Lei verrà contattato per posta nel caso in cui siano necessarie ulteriori informazioni da parte Sua o in occasione di una specifica fase del procedimento. Talune informazioni sono comunque reperibili sul sito internet della Corte (comunicazioni, domande alle parti, decisioni sull’ammissibilità, ecc

Le Sezioni Unite PENALI sul termine per l’adempimento degli obblighi nella sospensione condizionale della pena

Cassazione Penale sospensione condizionale della pena

1. La vicenda giudiziaria e la questione di diritto. – Con la pronuncia in commento, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno risolto la controversa questione (qui l’ordinanza di rimessione) relativa all’individuazione del termine entro cui il condannato debba adempiere all’obbligo risarcitorio cui sia stata subordinata la concessione in suo favore del beneficio della sospensione condizionale della pena, allorquando detto termine non sia stato fissato giudizialmente, in contrasto con il dettato dell’art. 165 c.p.

Nel caso di specie, il Tribunale di Lecce, in funzione di giudice dell’esecuzione, revocava il beneficio della sospensione condizionale della pena precedentemente concesso al condannato, essendo egli risultato inadempiente agli obblighi risarcitori disposti in favore della parte civile, cui risultava condizionato il beneficio della sospensione condizionale della pena, pur in assenza della fissazione giudiziale di un termine per il relativo adempimento.

Il giudice dell’esecuzione muoveva dal presupposto secondo cui, difettando un’espressa indicazione giudiziale, il termine di adempimento degli obblighi risarcitori dovesse essere individuato nel momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna a pena sospesa.

Pertanto, essendo la sentenza divenuta irrevocabile e non risultando elementi utili a provare la sussistenza di una causa scriminante l’inadempimento degli obblighi risarcitori, risultava integrata una delle ipotesi di revoca di diritto della sospensione condizionale della pena di cui all’art. 168, n. 1, c.p.

Ricorreva per cassazione la difesa del condannato che, richiamando alcuni principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità, sosteneva l’erroneità del provvedimento di revoca del beneficio della sospensione condizionale della pena.

Anzitutto, la difesa asseriva che, in caso di omessa fissazione giudiziale, il termine per l’adempimento andrebbe a coincidere con quello di cinque o due anni previsto dall’art. 163 c.p., non potendo diversamente operare le ordinarie regole civilistiche sull’immediata esigibilità delle prestazioni per cui non sia stato fissato un termine, regole che risulterebbero derogate proprio dal dettato dell’art. 165 c.p.

Conseguentemente, non essendo ancora decorso il suddetto termine, il giudice avrebbe dovuto, in luogo della revoca, adottare un provvedimento con cui assegnava al condannato un termine per adempiere.

La difesa lamentava, inoltre, l’omessa verifica delle concrete possibilità di adempiere del condannato, che risultava invero essere percettore di entrate di entità così modica da fondare un’assoluta impossibilità di adempiere, rilevante come fattore ostativo alla revoca del beneficio.

La Prima Sezione Penale, rilevando l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale in relazione al primo motivo di ricorso, rimetteva alle Sezioni Unite la seguente questione«se, in caso di sospensione condizionale della pena subordinata all’adempimento di un obbligo, il termine entro il quale l’imputato deve provvedere all’adempimento, qualora non sia stato già fissato in sentenza, coincida con quello del passaggio in giudicato della stessa o con quello previsto dall’art. 163 c.p.».

2. Le conseguenze della mancata fissazione giudiziale del termine di adempimento degli obblighi condizionanti: due gli indirizzi interpretativi. – Secondo il primo indirizzo giurisprudenziale richiamato, l’obbligazione risarcitoria cui sia stata subordinata la concessione del beneficio andrebbe qualificata come obbligazione pecuniaria immediatamente esigibile, di talché il termine per il suo adempimento dovrebbe individuarsi in relazione alla natura e al contenuto specifico dell’obbligazione stessa.  Ai sensi dell’art. 1183, co. 1, c.c., detto termine andrebbe a coincidere con il momento del passaggio in giudicato della sentenza[1]. Oltre a ciò, la disciplina dell’inadempimento andrebbe mutuata dalla disciplina codicistica di cui all’art. 1218 c.c., sicché la revoca del beneficio andrebbe esclusa in caso di impossibilità assoluta della prestazione derivante da causa non imputabile al condannato, causa di cui lo stesso potrebbe fornire prova in occasione del momento procedimentale previsto dall’art. 674 c.p.p. (udienza camerale di revoca del beneficio).

Per il secondo orientamento, invece, nel caso di omessa fissazione giudiziale del termine, dovrebbe applicarsi agli obblighi risarcitori lo stesso termine legislativamente previsto per la valutazione di meritevolezza del condannato al godimento del beneficio (termine pari, ai sensi dell’art. 163 c.p., a cinque anni per i delitti, due anni per le contravvenzioni)[2].

3. Il beneficio della sospensione condizionale della pena. – Preliminarmente, le Sezioni Unite ricostruiscono l’evoluzione legislativa della sospensione condizionale della pena[3].

Nata come istituto di carattere processuale (c.d. “condanna condizionale”) rispondente alla ratio di sottrarre all’ambiente rovinoso del carcere e ai suoi effetti criminogeni e disfunzionali chi non avesse ancora conosciuto l’esperienza detentiva[4], la sospensione condizionale della pena fu attratta nel novero degli strumenti di diritto sostanziale con l’entrata in vigore del codice Rocco del 1930.

La sospensione condizionale della pena si qualificò, dunque, come una delle prime misure in senso latoalternative alla detenzione, per tale intendendosi quelle risposte sanzionatorie variamente alternative per contenuto e struttura alla privazione della libertà realizzata nelle forme della restrizione carceraria[5].

Orientata al fine di ridurre il fenomeno della carcerazione di breve (o brevissima) durata, il beneficio assume, secondo la ricostruzione dottrinale prevalente, una duplice funzione: da un lato, è negativamente volto ad evitare l’esecuzione della pena, dall’altro, pur risultando uno strumento alternativo al carcere, conserva una positiva portata sanzionatoria[6].

La sospensione condizionale della pena è applicata contestualmente alla pronuncia della sentenza di condanna (fase c.d. decisoria) e sospende l’esecuzione delle pene principali e accessorie, per un periodo di durata pari a due anni, nel caso di contravvenzione, o a cinque anni, nel caso di delitto.

L’effetto estintivo che può conseguire alla concessione del beneficio in commento consegue, tuttavia, non all’applicazione della misura, ma al positivo superamento della prova cui il condannato è ammesso.

Il condannato dovrà, infatti, astenersi dal commettere ulteriori reati della stessa indole di quello per cui sia già intervenuta un’affermazione di responsabilità, risultando altresì obbligato ad adempiere all’eventuali prescrizioni cui sia stata subordinata la concessione del beneficio.

Tradizionalmente, al condannato potevano essere imposte prescrizioni attinenti alle restituzioni e al pagamento del risarcimento del danno, essendo altresì possibile per il giudice disporre la pubblicazione della sentenza di condanna a pena sospesa a titolo di riparazione del danno. Tanto valeva – ricorda la Corte – anche in relazione alla già citata figura della condanna condizionale, eccezion fatta per la previsione della pubblicazione della sentenza di condanna, non contemplata, mentre ammissibile era la condanna al pagamento delle spese del procedimento.

Se il nucleo essenziale della disciplina della sospensione condizionale della pena è rimasto nel tempo immutato, svariati sono stati gli interventi legislativi che hanno inciso sul beneficio, novellando, in particolare, la disposizione di cui all’art. 165 c.p. tramite la previsione di ulteriori obblighi all’adempimento dei quali subordinare la concessione della misura de qua. Si pensi alle previsioni legislative più recenti che hanno ammesso la subordinazione della concessione del beneficio all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato (l. n. 689/1981) ovvero alla prestazione di attività non retribuita in favore della collettività, sempre che il condannato non vi si opponga (l. n. 145/2004)[7].

In tal modo, la disciplina della sospensione condizionale si è arricchita di contenuti specialpreventivi, venendo a consistere, quantomeno per taluni condannati, in un programma di prescrizioni cui il soggetto è obbligato se vuole ottenere l’effetto estintivo[8]. In dottrina si è parlato in proposito di sospensione condizionale con obblighi o “con prova[9]”, come modello contrapposto a quello della sospensione condizionale “secca”, concessa senza che il condannato sia vincolato all’adempimento di particolari obblighi.

Il modello di sospensione condizionale con obblighi è l’unico applicabile ai condannati che abbiano già usufruito una prima volta della sospensione condizionale. Sempre che il cumulo delle pene loro inflitte si mantenga al di sotto delle soglie dettate per la concessione della misura dall’art. 163 c.p., tali soggetti saranno necessariamente tenuti ad adempiere ad uno degli obblighi di cui al co. 1 dell’art. 165 c.p.

Analoga regola trova applicazione anche in altri casi di subordinazione obbligatoria, che la Corte pure ripercorre. Si tratta di casi di conio più recente, relativi a condanne intervenute per alcuni reati contro la pubblica amministrazione (di cui agli artt. 314, 317, 318, 319, 319 ter, 319 quater, 320, 321 e 322 bis c.p.),  per il reato di furto in abitazione e furto con strappo (art. 624 bis c.p.), nonché relativamente ad una serie reati espressivi di violenza domestica o di genere.

Fuori dai casi di subordinazione obbligatoria, la tendenza registratasi nella prassi applicativa è quella della rinuncia all’esercizio dei poteri discrezionali attribuiti al giudice quanto alla definizione del contenuto prescrizionale della misura. Si è così di fatto delineato come modello prevalente quello della sospensione condizionale “secca” che, pur svuotato di contenuti risocializzanti[10], ha avuto un ottimo riscontro applicativo al punto che la sospensione condizionale è stata definita in dottrina come causa di desuetudine di altre misure in senso lato alternative alla detenzione, pur previste dal nostro ordinamento (i.e. le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi[11]).

4. La soluzione offerta dalle Sezioni Unite. – Tornando alla decisione in commento, nel risolvere il contrasto portato alla loro attenzione, le Sezioni Unite muovono dalla definizione della funzione del termine per l’adempimento degli obblighi cui sia stata subordinata la concessione della sospensione condizionale della pena.

L’evoluzione storica dell’istituto e l’interpretazione letterale dell’art. 165 c.p., inducono la Corte a ritenere che il termine giochi un ruolo essenziale all’interno della fattispecie. Gli obblighi imposti al condannato a pena sospesa, infatti, sono obblighi condizionanti, potendo essi incidere sulla revoca del beneficio, sia nel caso in cui costituiscano elemento accessorio della fattispecie, sia quando la completino.

Ne consegue la necessità che essi siano concretamente esigibili non prima che sia decorso un certo termine dal momento in cui sono imposti al condannato, in ossequio al principio di proporzionalità che orienta l’intero sistema penale.

Pertanto, il termine per l’adempimento non potrebbe coincidere con quello del passaggio in giudicato della sentenza, dal momento che ciò comporterebbe la sovrapposizione tra il dies a quo e il dies ad quem, così svalutando la lettera legis che impone invece la fissazione di un termine di adempimento diverso da quello iniziale, a meno di voler ammettere che tale termine possa iniziare a decorrere ante iudicatum, in chiaro contrasto con la presunzione assoluta di non colpevolezza.

La centralità del termine per l’adempimento degli obblighi condizionanti si ricava anche dalla circostanza che detti obblighi connotano in funzione special-preventiva la sospensione condizionale della pena, garantendo l’adesione del condannato ad un percorso di ravvedimento in cui si individua lo «scopo precipuo dell’istituto stesso» (cfr. Corte cost., sentenza n. 49//1975).

Il rapporto cui tali obblighi si collegano deve, pertanto, qualificarsi non già come rapporto di diritto privato, bensì come rapporto di diritto pubblico, intercorrente tra condannato e giustizia penale.

La concezione penalistica del termine di cui all’art. 165 c.p. giustifica, quindi, il rigetto dell’orientamento che ne sosteneva l’individuabilità in relazione alla natura e alla specie degli obblighi imposti, con conseguente affermazione dell’applicabilità delle regole civilistiche nel caso di coincidenza tra obblighi condizionanti e obbligazione civile derivante da reato.

Si osserva quindi che, se da un lato una lettura più attenta dell’art. 1183, co. 1, c.c. – interpretato alla luce del principio di buona fede e correttezza –, avrebbe comunque dovuto condurre a sostenere la concedibilità in favore del condannato di un termine di adempimento, ancorché esiguo, dall’altro, la natura penalistica di tale termine depone in sfavore dell’applicabilità della regola civilistica del quod sine die debetur, statim debetur, quale che sia la sua interpretazione più corretta.

D’altro canto, la Corte critica anche il secondo orientamento sopra richiamato secondo cui, in caso di mancata fissazione giudiziale, il termine di adempimento andrebbe a coincidere con quello di cui all’art. 163 c.p.

Difatti, detti termini rispondono a due distinte finalità. Quello di cui all’art. 163 c.p. è un termine legale ed indica il tempo concesso al condannato per confermare l’esito positivo del giudizio prognostico compiuto dal giudice al momento della concessione della misura. Diversamente, il termine di cui all’art. 165 c.p. è un termine giudiziale, utile a definire il trattamento special-preventivo riservato al condannato a pena sospesa così che possa tenere comportamenti sintomatici di una maggiore socialità.

L’affermazione della coincidenza dei due termini svaluta il ruolo che il termine di cui all’art. 165 c.p. assume nel sistema, data la sua rilevanza nel concorrere a definire la finalità special-preventiva che connota il beneficio.

Oltre a ciò, le Sezioni Unite osservano come il secondo indirizzo interpretativo si fondi su un erroneo presupposto: si postula la subordinazione dell’estinzione del reato all’adempimento degli obblighi condizionanti, nella specie dell’obbligo risarcitorio, mentre è la sospensione condizionale ad essere subordinata a detti obblighi, come se fosse ad essa apposta una clausola risolutiva.

Il termine di adempimento deve quindi essere espressamente individuato dal giudice in conformità al trattamento che si intende predisporre per il condannato al fine del miglior perseguimento della finalità del reinserimento sociale.

5. Le conseguenze dall’omessa fissazione giudiziale del termine di adempimento. – L’omessa fissazione del termine si traduce nell’omissione di una statuizione giudiziale obbligatoria a contenuto non predeterminato, che invero concorre a definire il trattamento rieducativo e quindi richiede l’apprezzamento di una serie di elementi non predefiniti, tra cui si annoverano senz’altro le reali condizioni economiche del condannato, quantomeno nel caso in cui l’obbligo abbia natura risarcitoria. La necessità di una valutazione di tal genere si impone al fine di verificare che il condannato possa effettivamente assolvere agli obblighi condizionanti, specie se di natura risarcitoria, ed evitare che il beneficio nasca già morto.

Deve quindi escludersi l’applicabilità della procedura di correzione dell’errore materiale, riservata alle omissioni di una statuizione giudiziale obbligatoria, di natura accessoria ma con contenuto predeterminato.

Piuttosto, le parti dovranno ricorrere agli ordinari mezzi di impugnazione per chiedere la riforma della sentenza che abbia omesso di statuire sul termine di adempimento.

In tal modo, il giudice d’appello potrà fissare detto termine e potrà farlo anche d’ufficio, in caso di mancata impugnazione della sentenza sul punto, senza che ciò si traduca nella violazione del divieto della reformatio in peius, essendo il termine elemento necessario ed ineliminabile del beneficio, concepito anche a vantaggio del condannato.

Laddove la sentenza sia divenuta irrevocabile senza che l’omissione sia stata riparata, spetterà al giudice dell’esecuzione provvedere alla fissazione del termine, su richiesta delle parti e anche a prescindere dalla presentazione di una domanda di revoca della sospensione condizionale della pena.

Qualora nemmeno il giudice dell’esecuzione sia investito della questione, il termine coincide con quello di cui all’art. 163 c.p., in ragione della lettura combinata delle norme di cui agli artt. 167 e 168 c.p. Se alla scadenza dei termini di cui all’art. 163 c.p. il condannato non ha adempiuto agli obblighi condizionanti, la sospensione della pena dovrà comunque essere revocata.

6. Riflessioni conclusive. Con la sentenza in commento le Sezioni Unite della Corte di Cassazione si esprimono su un contrasto interpretativo risalente nel tempo e relativo alle conseguenze della mancata fissazione giudiziale del termine di cui all’art. 165 c.p., così confermando, anzitutto, che nessuna nullità è prevista in tali casi e che l’obbligo di fissazione giudiziale si traduce in un obbligo privo di sanzione[12].

La soluzione adottata dalla Corte muove dal rilievo dell’autosufficienza della disciplina penalistica e risponde al principio del favor rei, posto che esclude che il termine per adempiere possa coincidere con quello del passaggio in giudicato della sentenza di condanna, che rappresenta invece soltanto il dies a quo. Rigettato, quindi, il primo orientamento interpretativo, le Sezioni Unite aderiscono al secondo soltanto in via residuale, ammettendo che il termine per l’adempimento possa coincidere con quello di cui all’art. 163 c.p. unicamente nei casi in cui né il giudice della cognizione né il giudice dell’esecuzione abbiano provveduto alla sua fissazione, considerato che, scaduto il termine di cui all’art. 163 c.p. senza che siano stati adempiuti gli obblighi condizionanti, dovrebbe comunque farsi luogo alla revoca del beneficio.

Un aspetto interessante della pronuncia in commento è offerto dalle affermazioni di principio che la Corte compie rispetto alla funzione del termine giudiziale di cui all’art. 165 c.p., definito come un termine che partecipa della finalità special-preventiva che la norma chiede essere perseguita nel caso concreto e che, invece, risulta sempre più attenuata nella prassi, ove si è maggiormente diffuso il modello di sospensione condizionale “secca”.

Se deve tendenzialmente escludersi la rispondenza della sospensione condizionale “secca” alle diverse funzioni della pena (prevenzione generale e speciale), alcuni rilievi critici possono invero essere mossi anche nei riguardi della sospensione condizionale c.d. “con prova”, specie relativamente ai casi di subordinazione obbligatoria che conseguono automaticamente all’affermazione di responsabilità per un determinato titolo di reato.

La valorizzazione del termine come elemento modulabile al fine del miglior perseguimento delle esigenze special-preventive in funzione della risocializzazione del condannato risponde pienamente al principio dell’individualizzazione della risposta sanzionatoria ed impone al contempo una riflessione sulla reale portata probatoria del beneficio della sospensione condizionale della pena.

Con la sentenza in commento si ribadisce quanto già espresso dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 49 del 1975, ovverosia che scopo precipuo dell’istituto della sospensione condizionale della pena è quello di garantire che il comportamento del reo si adegui ad un percorso di ravvedimento.  

Quest’affermazione di principio, unitamente alla rinnovata sensibilità espressa dalla Riforma Cartabia in materia di alternative alla detenzione, conduce a chiedersi se non sia giunto il tempo di provvedere alla valorizzazione dell’istituto della sospensione condizionale, tramite il ridimensionamento dell’area di operatività della sospensione “secca” e la contestuale ridefinizione dei connotati della sospensione “con prova”[13].

La sospensione condizionale “secca” andrebbe a ben vedere riservata ai casi in cui non siano ravvisabili bisogni risocializzativi, mentre la rivisitazione della sospensione condizionale “con prova” dovrebbe passare dal rafforzamento dei suoi contenuti e dall’assegnazione al giudice di una maggiore discrezionalità nella definizione del programma prescrizionale ma anche nella fase della revoca[14].

Si tratta di un processo che, nel quadro della Riforma Cartabia, ha già trovato spazio in relazione alle pene sostitutive di cui al nuovo art. 20 bis c.p. e che ben potrebbe essere riservato anche alla sospensione condizionale della pena, posto che la stessa continuerà ad essere applicabile e che le nuove pene sostitutive potranno trovare applicazione a condizione che il giudice non abbia ordinato la sospensione condizionale della pena[15]. Da un lato, ciò consentirebbe di recuperare la mancata inclusione dell’affidamento in prova tra le nuove pene sostitutive e di valorizzare la portata di misura di comunità della sospensione condizionale “con prova”, dall’altro, riservando la sospensione condizionale “secca” ai casi in cui non siano ravvisabili bisogni risocializzativi, tale scelta si tradurrebbe nella cristallizzazione di un’area in cui non si assiste ad un’impropria rinuncia alla risposta punitiva, bensì si realizza un consapevole arretramento dell’interesse pubblico alla punizione.

[1] In tal senso si esprimono ex multis Cass. pen., Sez. I, n. 47862/2017, Cass. pen., Sez. V, n. 36154/2018, nonché Cass. pen., Sez. I, nn. 10867/2020 e 6368/2020, muovendo dalla considerazione secondo cui l’adempimento degli obblighi risarcitori condizionanti consista nell’adempimento di un’obbligazione pecuniaria immediatamente esigibile. Diversi gli orientamenti espressi da Cass. pen., Sez. III, nn. 10581/2013 e 22658/2016, ove i giudici di legittimità avevano sostenuto che il termine di adempimento dovesse considerarsi scaduto decorsi novanta giorni dal passaggio in giudicato della sentenza, cfr. sul punto M. Sbezzi, Sospensione condizionale subordinata a obblighi risarcitori: la Cassazione fa chiarezza sul termine per adempiere, nota a Cass. pen., Sez. I, sentenza 16 gennaio 2020 (dep. 30 marzo 2020), n. 10867, in Il Penalista, 21 maggio 2020. A commento della sentenza n. 6368/2020 si veda, invece, A. Corbo, Questioni controverse nella giurisprudenza di legittimità, in Cassazione penale, 2020, 4, pp. 1424-1426.

[2] Si vedano ex multis Cass. pen., Sez. I, nn. 42109/2013 e 24642/2015, nonché Cass. pen., Sez. V, n. 9855/2018, ove diversamente si afferma che l’adempimento è esatto purché intervenga nel tempo di sospensione della pena.

[3] Sul punto si richiama anche M. Sbezzi, Sospensione condizionale subordinata a obblighi risarcitori: la Cassazione fa chiarezza sul termine per adempiere, op. cit., ove si ripercorre brevemente il percorso evolutivo dell’istituto de qua. Gli interventi normativi succedutisi possono così riassumersi: l. n. 689/1981 (introduzione della previsione relativa all’eliminazione delle conseguenze dannose e pericolose del reato; vincolo per il giudice a subordinare la concessione della sospensione ad almeno un adempimento, purché non inesigibile); l. n. 145/2004 (non più inesigibilità, ma in caso di condizioni economiche precarie, possibilità di prestare attività non retribuita in favore della collettività); l. n. 69/2015 (obbligo di condizioni in caso di sospensione pronunciata a favore di pubblici ufficiali, condannati per reati contro la p.a.; in particolare, necessario il pagamento di “una somma equivalente al profitto del reato ovvero all’ammontare di quanto indebitamente percepito”); l. n. 3/2019, c.d. “spazzacorrotti” (per i pubblici ufficiali, l’adempimento imposto deve corrispondere al “prezzo o profitto del reato”). Si aggiungono le modifiche intervenute ad opera della legge n. 36/2019, modificativa del regime della legittima difesa, e della legge n. 69/2019, recante disposizioni a tutela delle vittime di violenza domestica o di genere.

[4] G. Fiandaca, Art. 27 3° comma, in G. Branca (fondato da), A. Pizzorusso, Commentario della Costituzione. Rapporti civili. Art. 27 – 28, Bologna, Zanichelli Editore, 1991, p. 298. 

[5] C. Perini, Prospettive attuali dell’alternativa al carcere tra emergenza e rieducazione, in Diritto penale contemporaneo – Riv. Trim., 4/2017, p. 78.   

[6] F. Palazzo, R. Bartoli, Certezza o flessibilità della pena? Verso la riforma della sospensione condizionale, Torino, Giappichelli, 2007, p. 5. 

[7] Si riporta di seguito la formulazione attualmente vigente dell’art. 165, co. 1, c.p. recante la disciplina degli obblighi cui può essere sottoposto il condannato: «La sospensione condizionale della pena può essere subordinata all’adempimento dell’obbligo delle restituzioni, al pagamento della somma liquidata a titolo di risarcimento del danno o provvisoriamente assegnata sull’ammontare di esso e alla pubblicazione della sentenza a titolo di riparazione del danno; può altresì essere subordinata, salvo che la legge disponga altrimenti, all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato, ovvero, se il condannato non si oppone, alla prestazione di attività non retribuita a favore della collettività per un tempo determinato comunque non superiore alla durata della pena sospesa, secondo le modalità indicate dal giudice nella sentenza di condanna».

[8] Si vedano G. Fiandaca, Art. 27 3° comma, in G. Branca (fondato da), A. Pizzorusso, Commentario della Costituzione. Rapporti civili. Art. 27 – 28, op. cit., p. 299, D. Pulitanò, La sospensione condizionale della pena: problemi e prospettive, in A.A.V.V., Sistema sanzionatorio: effettività e certezza della penaAtti del Convegno di studio svoltosi a Casarano-Gallipoli, 27-29 ottobre 2000, Milano, Giuffrè, 2002, pp. 129 ss., M. Sbezzi, Sospensione condizionale subordinata a obblighi risarcitori: la Cassazione fa chiarezza sul termine per adempiere, op. cit., ove l’A. sottolinea come la sospensione condizionale «da abituale abito delle sentenze di condanna a pene contenute nei limiti di legge», stia sempre più rivestendosi di una funzione special-preventiva e rieducativa. Si veda pure A. Esposito, La sospensione condizionale della pena tra passato e presente, in M. Del Tufo (a cura di), La legge anticorruzione 9 gennaio 2019, n. 3, Giappichelli, Torino, 2019, pp. 43 ss.

[9] A. Della Bella, E. Dolcini, Per un riordino delle misure sospensivo-probatorie nell’ordinamento italiano, in A. Della Bella, E. Dolcini, Le misure sospensivo-probatorie. Itinerari verso una riforma,  Milano, Giuffrè, 2020, pp. 335 ss., in particolare pp. 338 ss.

[10] Si vedano in tal senso F. Giunta, L’effettività della pena nell’epoca del dissolvimento del sistema sanzionatorio, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1998, 2, p. 416; T. Padovani, Sospensione e sostituzione nella prospettiva d’un nuovo sistema sanzionatorio, ivi, 1985, 4, pp. 983 ss.; Id., Sanzioni sostitutive e sospensione condizionale della pena, ivi, 1982, 2, pp. 494 ss. 

[11] L’esigenza di razionalizzare i rapporti tra sospensione condizionale e sanzioni sostitutive è da tempo affermata, cfr. ex multis F. Palazzo, Le pene sostitutive: nuove sanzioni autonome o benefici con contenuto sanzionatorio?, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1983, 3, pp. 834 ss., E. Dolcini, Ancora una riforma della sospensione condizionale della pena?, ivi, 1985, 4, pp. 1012 ss.; E. Dolcini, C.E. Paliero, Il carcere ha alternative? Le sanzioni sostitutive della detenzione breve nell’esperienza europea, Milano, Giuffrè, 1989, p. 275 ss.; E. Dolcini, Principi costituzionali e diritto penale alle soglie del nuovo millennio, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1999, 1, p. 23; T. Padovani, Fuga dal carcere e ritorno alla sanzione. La questione delle pene sostitutive tra efficacia della sanzione ed efficienza dei meccanismi processuali, in A.A.V.V., Sistema sanzionatorio: effettività e certezza della pena, op. cit., pp. 73 ss. ove l’A. lamenta pure che l’esito italiano del ricorso alle misure sospensive e sostitutive ha finito con il determinare un’impropria rinuncia alla risposta punitiva, essendosi risolta in una abdicazione della pretesa punitiva in ragione della scarsa effettività ed efficacia di tali strumenti alternativi. 

[12] M. Sbezzi, Sospensione condizionale subordinata a obblighi risarcitori: la Cassazione fa chiarezza sul termine per adempiere, op. cit.

[13] Analoghe istanze sono state espresse in tempi recenti dal Gruppo di ricerca sulle misure sospensivo-probatorie coordinato dal Prof. E. Dolcini, i cui risultati sono raccolti nel volume A. Della Bella, E. Dolcini, Le misure sospensivo-probatorie. Itinerari verso una riforma,  op. cit., cfr. sul punto M. Donini, Le misure sospensivo-probatorie in fase decisoria, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2022, 1, pp. 235 ss.

[14] M. Donini, Le misure sospensivo-probatorie in fase decisoria, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, op. cit., p. 240.

[15] Art. 58, l. n. 689/1981.

SENTENZA CEDU CASO J.L. CONTRO ITALIA

(Ricorso CEDU- Corte Europea Diritti Uomo n. 5671/16) 

INTRODUZIONE 

Il parere requirente viene formulato dalla Corte in materia di art. 8 CEDU; di «obblighi positivi»; di secondaria persecuzione per la vittima, di un reato di abuso sessuale; di rispetto dell’integrità personale tutelata nel corso del processo inquirente; e di art. 44§2 della CEDU. 

SOMMARIO: 1.Il caso di specie; 2.La giurisprudenza di merito; 3.La pronuncia di diritto; 4.L’opinione dissidente del giudice WOJTYCZEK. 

1.Il caso di specie. 

Il ricorso in oggetto alla presente sede requirente della Suprema Corte di Strasburgo, coinvolge la Repubblica italiana, e la Signora J.L cittadina di tale Repubblica.
La Signora J.L. lamenta una violazione degli artt. 81 e 142 della CEDU, a fronte di un procedimento penale, adito, in occasione di un rilevato delitto di violenza sessuale ai danni di quest’ultima; un procedimento svoltosi in carenza di disposizioni cautelari a favore della vittima, quanto della sua vita privata e integrità personale. Nello specifico, così come reso evidente il 14 gennaio 2013 dal Tribunale di Firenze, venivano condannati in tale sede giudicante, sei dei sette accusati, per avere causato lesioni personali e psicologiche, a seguito di violenza carnale a danno della requirente, ciò ai sensi dell’art. 609bis §1 e 609octies. 

1 «Diritto al rispetto della vita privata e familiare». 2 «Divieto di discriminazione». 

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Tale Tribunale perveniva, di fatto, alla constatazione di profonde discrepanze, di carattere sostanziale, nella rilevazione di una reale partecipazione consensuale o meno da parte della vittima. Nell’accertamento della veridicità dei fatti contestati in sede giudicante, veniva rilevato dagli inquirenti, l’incoerenza quanto l’evidente carenza di requisiti logici nella ricostruzione del racconto, riportato dalla vittima, in specie della riproduzione iniziale dei fatti. Nella costruzione priva di sintagmi logici di interna coerenza sostanziale, il Tribunale di Firenze, si allinea a un costrutto giurisprudenziale maturato dalla Suprema Corte di Cassazione, nel poter fare propria una favorevole attestazione della predetta testimonianza fornita dalla Signora J.L. 

La Cassazione, difatti, utilizza quali parametri di percettibile credibilità, un procedimento di c.d. «valutazione frammentata» delle pervenute dichiarazioni della vittima in oggetto di procedimento di preliminari indagini per violenza carnale, e in assenza di rilevanza di contraddizioni nella ricostruzione dei fatti, o di nessi logici nella proposizione degli stessi. 

Un ulteriore elemento di evidente contraddizione viene, altresì, messo in luce, dalla certificazione medicale fornita dal centro antiviolenza, che rileva solo nelle successive 12 ore agli eventi riportati verbalmente dalla ricorrente, un riscontro di lesioni non compatibili con la violenza carnale paventata dalla vittima. 

Lo stesso Tribunale, rende nota, inoltre, l’effettiva insufficienza di prove, che possano, effettivamente, fare pensare a una serata trasgressiva trascorsa abusando di un’oggettiva inconsapevolezza della Signora J.L., in qualità di vittima dell’insana azione delittuosa. La ricostruzione avvenuta attraverso le prove testimoniali, conferisce elementi di reale constatazione dello stato di ebrezza della vittima, nello spazio temporale internamente al quale è collocabile l’efferato reato. 

Allo stato dei fatti, si è ritenuto di ipotizzare una volontà consenziente anche se non pienamente lucida.
Successivamente, il caso viene discusso in appello il 4 marzo 2015, per il quale appello ci si rifaceva, esclusivamente, alla valutazione 

della assuefatta precarietà di reazione da parte della vittima, poiché in evidente stato di stordimento da alcol, ai sensi del quale intorpidimento fosse da ipotizzarsi un’avvenuta grave lesione ai danni di quest’ultima, così come legislativamente sancito ai sensi dell’art. 609bis §2. 

La Corte d’Appello, stabilisce nel merito del suo discernimento, che la procedura di natura ispettiva posta in essere dal Tribunale di prima istanza, non concretizzasse in maniera soddisfacentemente corretta la tesi maturata dalla giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione, in materia di dichiarazioni rese da una vittima di violenza carnale. 

Il Tribunale di Firenze, aveva proceduto ad una valutazione frammentata delle diverse dichiarazioni della ricorrente, attestandone la relativa credibilità dando peso, esclusivamente, a una parte dei fatti da rilevarsi giudizialmente. 

La giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione, invece, segnala che un tale tipo di approccio è sostenibile solo se la testimonianza della vittima, faccia riferimento nella ricostruzione del suo racconto, a dei frammentati frangenti distinti e fra loro meramente indipendenti gli uni dagli altri, non riconducibili a un unico episodio di lesione. 

Sulla base di tale ricondotta analisi, la credibilità della vittima non è attestabile, e nemmeno testabile, statuisce la Corte.
Quest’ultima asserisce peraltro, che non è sostenibile la tesi di precarietà psicologica della Signora J.L., potendo la ricorrente lucidamente apportare il proprio personale consenso; e sottolineando altresì, a seguito di rilevate problematicità affettive esistenti internamente alla famiglia di provenienza, uno stato di personalità disinibita, specchio della fragilità familiare nella quale la vittima del reato è cresciuta. 

Una non inibizione comportamentale, tra l’altro, verbalmente riportata da più testimoni nel caso di specie.
Inoltre, tale giudizio di appello, viene suffragato in maniera concludente, dall’evidente assenza di graffi, o di segni, che sostengano l’avvenuta colluttazione. 

Il giudizio di tale Corte si esprime così a sfavore di una condanna stimabile penalmente; e che su tali basi, alle sei persone in stato di detenzione, debba accordarsi il dovuto rilascio in fatto e in diritto, poiché la testimoniata violenza carnale, non sussiste. 

Il 13 giugno 2015 la ricorrente decide di percorrere le vie giudiziali della Cassazione, e per tali addotti motivi, si rivolge al pubblico ministero.
Tale azione non si rende concretizzabile, e la pronuncia in appello assume le fattezze di un giudicato definitivo il 20 luglio 2015. 

2.La giurisprudenza di merito. 

Le profilazioni giuridiche e giurisprudenziali poste a fondamento del giudicato in oggetto di ricorso n. 5671/16, nel caso J.L. contro Italia, 

sono le seguenti:
il codice penale, per il diritto interno italiano, nella rappresentazione codicistica degli artt. 609bis, 609ter, 609octies;
il codice di procedura penale negli artt. 392, 472 comma 3bis, 572, 576; 

il decreto legislativo n. 212 del 15 dicembre 2015 che riprende le disposizioni della Direttiva 2012/29/UE;
la legge n. 119 del 15 ottobre 2013;
la legge n. 69 del 19 luglio 2019 o «codice rosso»; 

il Codice etico dei magistrati nell’art. 12 comma 3;
il diritto internazionale, e nello specifico la «Dichiarazione dei principi fondamentali di giustizia relativa alle vittime della criminalità e dell’abuso di potere»;
le osservazioni finali del Comitato delle Nazioni Unite nel suo settimo rapporto sull’Italia, segnatamente all’eliminazione della discriminazione nei confronti delle donne, pubblicato il 4 luglio 2017;
la Convenzione di Instabul, ratificata dall’Italia il 10 settembre 2013 e entrata in vigore il 1° agosto 2014 a cura del Consiglio d’Europa, negli artt. 3, 15, 36, 54, 56; 

  •  l’avviso n. 11 del 2008 del Consiglio consultivo dei giudici europei (CCJE);
  •  la direttiva 2012/29/UE adottata il 25 ottobre 2012 del Parlamento europeo e del Consiglio, nel Considerando n. 17, e negli artt. 18, 19, 21, 22, 23;
  •  l’art. 8 CEDU;
  •  l’art. 14 CEDU.


3.La pronuncia di diritto.


La Suprema Corte di Strasburgo, statuisce in oggetto di pronuncia che la richiesta della ricorrente non è da considerarsi inconsistente ai sensi dell’art. 35§3 CEDU, né sono da addursi motivi ulteriori di irricevibilità. Il ricorso è, altresì, ritenuto pienamente ricevibile ai sensi degli artt. 8 e 14 della medesima Convenzione.
4.L’opinione dissidente del giudice Wojtyczek.
Tale giudice ritiene in fatto e in diritto che l’accertata violazione del predetto art. 8 della Convenzione, non possa essere ritenuta ricevibile per le eccezioni agli obblighi di adempimento aventi natura positiva, contraddistinguenti il testo giuridico del medesimo, e al medesimo tempo a quelli di sensibile obbligo di astensione di natura negativa.
La ricevibilità non può per quest’ultimo fondarsi su un discorso di mera violazione del rispetto dell’integrità della vittima e della sua vita personale e familiare, o di una violazione ben più evidente, quanto al medesimo tempo importante, quale quella della mancata protezione da una vittimizzazione secondaria della ricorrente, nel corso dell’intera procedura giudiziale, in maniera allegata quanto linearmente compartecipata.
Le due parafrasi giudiziali sono ritenute dal magistrato tra loro logicamente contrapposte e contrastanti. Inoltre, le valutazioni del Tribunale di Firenze appaiono, sempre per quest’ultimo, piuttosto arbitrarie, quanto poco approfondite, nella loro estensione di analiticità argomentativa nei confronti della realtà più complessa, e maggiormente inglobante, i fatti testimoniati dalla teste in sede processuale. 

Non vengono poi, in punta di diritto, spiegati i motivi pregiudizievoli avversi al ruolo della donna internamente alla società civile italiana. Viene resa evidente, invece, una stigmatizzazione procedurale e morale della vittima, finalizzante a sfavore della medesima, e degli stessi organi giudicanti, la perdita di fiducia nell’autorità, e nell’espressione del bilanciamento dei diritti, da esercitarsi nell’amministrazione della giustizia. 

In maniera concludente il giudizio di incidentalità, viene a precisare in sede processuale, che le sanzioni penali rivestano un ruolo cruciale nel rispondere le istituzioni alla repressione della violenza di genere, e alla lotta alla ineguaglianza dei sessi. 

A tal proposito, il giudice Wojtyczek, esprime la sua posizione favorevole nei confronti della democrazia liberale, senza sovrastimare il ruolo esercitato dal diritto penale nella lotta alla violenza e alle diseguaglianze. 

Ed inoltre, riprendendo, ulteriormente, le sue affermazioni presenti a pedice di sentenza, vocarsi alla tutela e salvaguardia dei diritti e delle libertà dell’uomo, non deve, per lo stesso giudice Wojtyczek, nondimeno, alimentare un c.d. «vento illiberale», che ad oggi, soffia autonomamente, nelle aule della Suprema Corte. 

Dott.ssa Lucia D’Angelo

Studio Penale Scialla

L’«IRRETRATTABILITÀ» DELL’AZIONE PENALE E L’INTERRUZIONE DEL «NESSO DI CAUSALITÀ»

Sommario: 1.La sussistenza del rapporto di causalità nella fisiologia «debitoria» dell’interruzione del «nesso causale»; 2.L’«irretrattabilità» dell’azione penale; 3.Conclusioni.

1.La sussistenza del rapporto di causalità nella fisiologia «debitoria» dell’interruzione del «nesso causale».

La condotta illecita, implica, endemicamente all’esperibilità dell’azione penale da imputarsi all’evento dannoso o actio delicti da rilevarsi, l’individuazione della «genetica» orogenesi, chiarificatrice quest’ultima, delle connesse o sconnesse, proposizioni «causali» di relativa inerenza.

La genetica causale, si radicalizza, significativamente, nella estemporanea obiettiva o subiettiva «misura», pertinente, al materiale «effetto-conseguenza» dell’«azione» o «omissione» generata dal reo.

Tale c.d. «effetto-conseguenza», è definibile ai sensi dell’art. 40 c.p., quale «nesso causale».

Il «nesso causale», può essere, verosimilmente, soggetto, nei termini del predetto articolo, a una condizione di c.d. «interruzione», o, più propriamente, di sospensione o scollamento tra condotta ed evento, assimilante, come noto, e, perciò stesso, una sostanziale «interruzione causale».

Ciononostante, si potrebbe ipotizzare, dal punto di vista meramente teorico-applicativo, che una genesi causale, continui a persistere, e, a mantenere in sé, intrinsecamente «integra», l’identificazione di specie del suddetto «nesso causale» originario di prima facie.

Ovvero, la partenogenesi giuridica della «significanza causale» attribuibile alla fattispecie ivi rappresentabile, presente, incondizionatamente, endemicamente alla cognitività di valore, e di valutazione, di persistente presenza del proprio iniziale «nesso» caratteristico interiore o esteriore al fatto (o actio delittuosa) da oggettivare, formalmente, positivamente, e sostanzialmente, dichiarandone effetti propri, proprie conseguenze, prevalentemente sussistenti l’azione di sospensione o scollamento tra condotta ed evento in factum e in actio.

Ciò, potrebbe dare luogo, a più concreti risultati di «esperibilità» giudiziale, nei termini di una condizionalità «attiva» di ordine generale, riferibile alla

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cognitività causale, non genericamente intesa, svelante una più consistente positiva congruità e consistenza probatoria del nesso di esternalità, di interiore concezione, del pretermesso «nesso di causalità» al di là di una sua eventuale, attribuibile, attiva o passiva, interruzione o sospensione.

2.L’«irretrattabilità» dell’azione penale.

Una recente sentenza della seconda sezione penale della Cassazione, in ordine alla pronuncia n. 18653/2021, ha ribadito l’acquisizione giurisprudenziale, e la relativa applicazione di «diritto», da parte dei giudici di merito, e della stessa Suprema Corte, della tassatività del principio d’«irretrattabilità» dell’azione penale.

L’inerente applicazione, presenta caratteri di «universalità» nel perimetro di definizione dato dai pertinenti criteri procedurali e di «valore».

Eppure, secondo quanto affermato dalla stessa Corte (nel rapportarsi alla fattispecie argomentata internamente alla predetta sentenza), sussistono, nondimeno, delle plausibili «obiezioni» di natura procedimentale, in ragione delle quali, il giudice di competenza, può avanzare, un’attività di sospensione o di relativo annullamento, da porsi, eventualmente, in essere, unicamente in sede giudicante, segnatamente ai fatti, in maniera pregressa, rilevati ed evidenziati, dal PM:

«[…]con riferimento alla “ratio” della disciplina dettata dall’art. 39 D. Lg.vo 231 del 2001, inducono il collegio a condividere la tesi secondo cui deve ritenersi abnorme l’ordinanza con cui il giudice, previa declaratoria di nullità di atti concernenti la posizione di taluni imputati, disponga la restituzione degli atti al PM anche in relazione alle posizione soggettive non attinte dalle predette nullità, determinando così un’indebita regressione del procedimento, in contrasto con il principio di irretrattabilità dell’azione penale e con il principio logico che non consente di ripetere atti già validamente e utilmente compiuti. (cfr., in tale senso, Cass. Pen., 2, 10.9.2015 n. 46.640, PM in proc. Ferrari ed altro; Cass. Pen., 1, 2.2.2016 n. 20.111, conf., comp. in proc. Zilio).».

Sensibilmente, integrabile, in materia, e, parimenti stimabile in ragione di ciò, la seguente disposizione n. 25911, fornitaci dalla Suprema Corte di Cassazione Penale, terza sezione, risalente al 1° agosto 1990 (rintracciabile a

1 Si consulti, a tal proposito, il codice di procedura penale, 48esima edizione commentata, curato da P. CORSO, Piacenza, 2021, pag. 1280, in materia di «b) Irretrattabilità dell’azione penale.».page2image26468224

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chiusura della lettera «b)Irretrattabilità dell’azione penale», pag. 1280, Libro V – «Indagini e Udienza», Titolo VIII – «Chiusura delle indagini preliminari», art. 405 – «Inizio dell’azione penale. Forme e termini» con inerenza al c.p.p. e del Processo penale minorile, di P. Corso, ed. 2021) per la quale: «una volta che abbia chiesto il rinvio a giudizio, il P.M. nell’udienza preliminare, non può più chiedere l’archiviazione, ed il giudice di detta udienza, se non ritenga di disporre il giudizio, non può che emettere sentenza di non luogo a procedere.».

3.Conclusioni.

In nota alla presente breve riflessione, è nondimeno possibile, mettere teoricamente in rilievo, da un punto di vista finemente «relazionale» e «razionale» di genus a species, una possibile sostanzialità di «giuridica caducità», o «incongruità funzionale», sussistente tra evento e condotta, intrinsecamente alla sospensione o interruzione di un inerente «nesso di causalità».

Ciò si rivela potenziale forza creatrice di ordine normativo, intrinsecamente riconducibile, come noto, a una probabile previsione di una c.d. «inescusabilità dell’interruzione» del relativo nesso causale, interna a quell’«istintiva proporzionalità» presente tra movente ed effetto, che giuristi canonisti correlano, invero, alla causalità giuridica, giudiziaria e giudiziale.

Dott.ssa Lucia D’Angelo Roma 5.10.2021

Avv. Massimiliano Luigi Scialla