Covid-19, misure di contenimento e reati di falso: aspetti problematici dell’autodichiarazione

Sommario. 1. Premessa. – 2. Il reato di cui all’art. 495 c.p. “Falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identità o su qualità personali proprie o di altri”. – 3. Il reato di cui all’art. 483 c.p. “Falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico”. – 4. Reati di falso e diritto di mentire. Considerazioni lapidarie.

1. Premessa.
La recente emergenza epidemiologica da diffusione del Covid-19 (c.d. Coronavirus) è stata fronteggiata dal legislatore con l’adozione di atti normativi di fonte primaria (in particolare decreti-legge considerata la sussistenza dei presupposti di necessità ed urgenza) e di fonte secondaria (in particolare decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri).
Con tali atti normativi sono state previste e regolamentate le misure di contenimento da imporre ai cittadini e agli esercenti attività imprenditoriali al fine di far fronte all’espansione del contagio; tali misure incidono su libertà costituzionalmente rilevanti degli individui, quali quelle di circolazione, riunione, esercizio di attività economica, le quali sono fortemente inibite, salve deroghe espresse, come accade, con riferimento al diritto di spostamento, «per gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero spostamenti per motivi di salute»1; quanto alle situazioni di necessità, trattasi di impellenze legate al fabbisogno primario della persona o ad attività comunque da reputarsi imprescindibili per il ménage personale e familiare (si pensi, ad esempio, alla fruizione dei servizi bancari o assicurativi); di recente inoltre è stato previsto che gli spostamenti da un comune all’altro potranno essere realizzati, solo per motivi
2 di salute, motivi di lavoro e per “assoluta urgenza” .
L’art. 3 comma 4 del D.L. 6 febbraio 2020 prevede che la violazione delle misure di contenimento sia punita ai sensi dell’art. 650 c.p. e, sul punto, gli interpreti si stanno già da diverso tempo confrontando al fine di comprendere quale sia il tipo di rinvio che il decreto legge ha fatto all’art. 650 cit., se quoad factum o quoad poenam, nonché allo scopo di meglio sondare la “legalità” del provvedimento a monte di cui è sanzionata la trasgressione; non è questo l’ambito tematico su cui queste brevi note si concentreranno, prefissandosi esse il proposito di fornire alcuni spunti di riflessione, senza pretesa di certezza e di esaustività, sulla collaterale questione della configurabilità dei reati in materia di falso, in capo al soggetto che dovesse rendere false dichiarazioni all’organo accertatore in fase di controllo in strada, in particolare nell’atto di declinare dati personali o informazioni giustificative dello spostamento da casa.
La questione si fa particolarmente pregnante, avuto riguardo all’inserimento online sul sito web del Ministero dell’Interno di un modello di “autodichiarazione” ai sensi degli artt. 46 e 47 DPR 445/2000, di recente aggiornato alle sopravvenienze normative, con cui ciascun cittadino è chiamato a dichiarare le proprie generalità, di essere a conoscenza delle misure di contenimento del contagio; di non essere sottoposto alla misura della quarantena; di non essere risultato positivo al virus COVID-19; di essere a conoscenza delle sanzioni previste dal combinato disposto dell’art. 3, comma 4, del D.L. 23 febbraio 2020, n. 6 e dell’art. 4, comma 2, del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri dell’ 8 marzo 2020 in caso di inottemperanza delle predette misure di contenimento (art. 650 c.p. salvo che il fatto non costituisca più grave reato); il privato si dichiara, nel modulo, “consapevole delle conseguenze penali previste in caso di dichiarazioni mendaci a pubblico ufficiale (art. 495 c.p.)”.
2. Il reato di cui all’art. 495 c.p. “Falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identità o su qualità personali proprie o di altri”. Preme dunque innanzitutto ragionare sulla configurabilità del reato di cui all’art. 495 c.p., che punisce con la pena della reclusione da uno a sei anni chi dichiara o attesta falsamente al pubblico ufficiale l’identità, lo stato o altre qualità della propria o dell’altrui persona.
Per “identità” devono intendersi il nome, il cognome, la data e il luogo di nascita, la paternità e la maternità; per “stato” si intendono invece cittadinanza, capacità di agire, stato libero o coniugale, parentela, affinità, patria potestà etc.
Nel concetto di “altre qualità” rientrano indicazioni, cui l’ordinamento riconnette effetti giuridici, che concorrono a stabilire le condizioni della persona, ad individuare il soggetto e consentire la sua identificazione, quali
ogni attributo
3 Per le tre dizioni, si veda Cass. sez. V, 5 marzo 2019, n. 19695, Rv. 275920; Cass. sez. V, 4 marzo 2016, n. 9195; Cass. sez. V, 8 novembre 2011 n. 1789, Rv. 251713; Cass. sez. V, 19 aprile 1977, n. 7462; Cass. sez. III, 27 febbraio 1967.
la residenza e il domicilio, la professione, la dignità, il grado accademico, l’ufficio pubblico ricoperto, l’essere convivente, una precedente condanna eche serva ad integrare la individualità della persona .
Venendo al nodo centrale del discorso, attinente alla questione se chi venga fermato per un controllo e dichiari o attesti il falso al pubblico ufficiale rischi una denuncia per violazione dell’art. 495 c.p., si può rispondere in maniera affermativa solo se l’oggetto del mendacio abbia riguardato gli elementi innanzi citati.
Nel caso in cui, ad esempio, ad essere falsa sia la motivazione sulla propria presenza in strada, non potrà applicarsi l’art. 495 c.p., nonostante quest’ultimo sia richiamato in maniera verosimilmente onnicomprensiva nel modulo di autodichiarazione reperibile sul sito ministeriale.
Secondo una tesi di recente esposta, la falsità riguardante il non trovarsi
posto in quarantena e il non essere positivo al virus rientrerebbe nelle maglie
letterali dell’art. 495 cit., avuto riguardo alla dizione delle “altre qualità”, già 4
analizzate .
L’orientamento proposto, particolarmente interessante, sollecita comunque
l’osservazione secondo cui non rientra nella nozione di “qualità” personale
ogni connotato della persona cui l’ordinamento riconnette effetti giuridici,
ma solo quello che abbia, a monte, capacità di individuazione del soggetto
nella comunità sociale; si nutrono forti dubbi quindi che l’attributo di
“soggetto non sottoposto a quarantena” o di “soggetto non positivo al virus”
soddisfi adeguatamente detto requisito.
Vero è che con una recente pronunzia di legittimità, la Corte di cassazione ha
sancito che «la tutela penale della fede pubblica — ancorché abbia sempre ad
oggetto i connotati della persona che ne costituiscono l’identità o lo status —
si estende anche ad altri connotati della persona, integrativi o sostitutivi che
siano, se una particolare norma collega loro effetti giuridici e, quindi, se
determinate situazioni di fatto che attengono alla persona costituiscano
5 presupposti o condizioni di legittimazione nei rapporti intersoggettivi» , ma
tale dictum, che a primo acchito potrebbe esporsi ad una lettura ampia, si riferisce, come già indicato in premessa, alla qualità di “convivente”, che avrebbe consentito al soggetto di accedere nell’istituto penitenziario per intrattenere il colloquio con un soggetto ivi ristretto.
3. Il reato di cui all’art. 483 c.p. “Falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico”.
Più complesso il discorso inerente all’applicabilità dell’art. 483 c.p. alle false dichiarazioni rese al pubblico ufficiale diverse da quelle rientranti nel tessuto operativo dell’art. 495 c.p., si pensi – principalmente – alla falsa motivazione che il privato rende al p.u. per giustificare il proprio spostamento da casa; tale falsa dichiarazione verrà di regola inserita per iscritto dal privato nell’autodichiarazione che egli personalmente consegnerà al p.u. su richiesta di quest’ultimo. Giova preliminarmente ripercorrere alcune coordinate dogmatiche in merito alla configurazione della fattispecie delittuosa in parola.
Orbene, l’art. 483 cit. punisce con la pena della reclusione fino a due anni
chiunque attesta falsamente al pubblico ufficiale, in un atto pubblico, fatti dei
quali l’atto è destinato a provare la verità.
Va subito chiarito che, per giurisprudenza consolidata, il reato di cui all’art.
483 c.p. è escluso quando l’atto non provi la verità di fatti, attuali ed
obbiettivi, bensì includa manifestazioni di volontà, intendimenti o propositi
6 futuri .
Secondo un filone giurisprudenziale particolarmente accreditato, il delitto di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico sussiste quando l’atto in cui è stata trasfusa la dichiarazione del privato sia destinato a provare la verità dei fatti narrati, cioè quando una norma giuridica obblighi il privato a dichiarare il vero ricollegando specifici effetti all’atto-documento in cui la
7 sua dichiarazione sia stata inserita dal pubblico ufficiale ricevente .
Tale principio costituisce applicazione dell’insegnamento delle Sezioni unite
le quali nel 1999 si espressero più volte in accoglimento della concezione
formale, secondo cui “il reato di cui all’art. 483 c.p. presuppone che il privato
dichiarante abbia il dovere giuridico – stabilito, esplicitamente o
implicitamente, dalla legge – di esporre la verità in ordine a un fatto in un atto
pubblico che sia destinato – per disposizione di legge – a provare la verità delle
8 dichiarazioni in esso raccolte” .
È stato precisato infatti che l’art. 483 c.p. richiede, per la definizione del suo contenuto precettivo, il collegamento con una diversa norma – eventualmente di carattere extrapenale – che conferisca attitudine probatoria all’atto in cui confluisce la dichiarazione inveritiera, così dando luogo
9 all’obbligo per il dichiarante di attenersi alla verità .
Occorre dunque in primo luogo che una “norma giuridica” specifica obblighi il privato a dire il vero, non potendo peraltro ricercarsi tale obbligo nell’art. 483 c.p., che, al contrario, lo presuppone esistente aliunde nell’ordinamento; in questo modo il p.u. che raccoglie la dichiarazione formerà un documento dotato di efficacia probatoria circa la verità dei fatti narrati.
L’obbligo di verità può trovare anche un aggancio “implicito” e non necessariamente “esplicito” in una norma di legge.
La giurisprudenza di legittimità pare aver fatto uso di tale impostazione, che
rinviene implicitamente il monito di legge alla veridicità delle affermazioni,
prescindendo in certi casi dalla esistenza di un obbligo di verità
espressamente sancito da una norma scritta.
Ad esempio, nel caso dello smarrimento della carta di identità o della patente
di guida, la Corte di legittimità ha ancorato la configurabilità del reato di cui
all’art. 483 c.p. in assenza di una norma che esplicitasse il dovere di verità in
capo al privato in sede di denuncia di smarrimento, ma rinvenendo detto
dovere nella previsione normativa di un obbligo di denuncia e nel fatto che
detta denuncia funge da presupposto per l’avvio dell’iter amministrativo
volto alla formazione e al rilascio del relativo duplicato in favore del
11 denunziante .
In altri termini, viene depotenziato il requisito della preesistenza di un obbligo di verità codificato ma esso, lungi dall’essere negletto, viene ricavato implicitamente dalla necessaria confluenza della dichiarazione del privato in un iter amministrativo di cui si pone quale doveroso incipit.
Sul punto, autorevole dottrina ha inoltre rilevato che «non sempre è agevole
stabilire in quali casi tale obbligo veramente sussista, una volta escluso che
dallo stesso art. 483 sia ricavabile un generale dovere di veridicità nelle
attestazioni che i privati fanno ai pubblici ufficiali», e che pertanto «in linea di
principio il privato dovrà ritenersi tenuto a dichiarare il vero, ogni qual volta
una norma giuridica ricolleghi specifici effetti a determinati fatti, allorché essi
vengano da un privato attestati a un pubblico ufficiale che deve documentarne
12 l’attestazione» .
Tale riflessione, animata da una esigenza di semplificazione in una materia complessa quale quella dei reati di falso, finisce per costituire l’abbrivio per una concezione sostanzialistica in ossequio alla quale si genera un dovere di verità in capo al privato qualora l’ordinamento ricolleghi specifici effetti ai fatti da lui narrati e raccolti dal p.u. in un atto pubblico sicché, parrebbe intendersi, l’obbligo di verità scaturisce in questo caso dall’attivazione di un principio di autoresponsabilità in capo al privato, il quale deve dichiarare il vero laddove la sua dichiarazione verbalizzata sia foriera di conseguenze rilevanti per l’ordinamento.

Va poi ricostruita sinteticamente l’interazione tra la fattispecie criminosa de qua e i documenti noti nella prassi come “autocertificazioni”, nelle quali eventualmente si annidi il mendacio.
Giova focalizzare l’attenzione sul fatto che l’attestazione della motivazione per cui il privato si trovi a derogare all’obbligo di permanenza nella propria abitazione non può rientrare sotto l’egida dell’art. 46 DPR 445/2000, il quale consente al privato di comprovare con dichiarazioni, anche contestuali all’istanza, sottoscritte dall’interessato e prodotte in sostituzione delle normali certificazioni, stati, qualità personali e fatti tassativamente indicati, i quali sarebbero, in assenza di autocertificazione, rinvenibili in pubblici registri o comunque sarebbero già di dominio della pubblica amministrazione. L’attestazione può, al più, rientrare nell’alveo operativo dell’art. 47 DPR cit., il quale consente al privato di sostituire l’atto di notorietà con una dichiarazione sostitutiva che abbia ad oggetto, tra gli altri, “fatti che siano a diretta conoscenza dell’interessato” (co. 1); prevede inoltre la norma che, «fatte salve le eccezioni espressamente previste per legge, nei rapporti con la pubblica amministrazione […], tutti gli stati, le qualità personali e i fatti non espressamente indicati nell’articolo 46 sono comprovati dall’interessato mediante la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà» (co. 3).
I requisiti sanciti dalla giurisprudenza sull’obbligo di verità del privato e sulla efficacia probatoria dell’atto ai fini della configurabilità dell’art. 483 c.p. paiono essere adeguatamente soddisfatti dalla lettura congiunta degli artt. 47 co. 3 e art. 76 DPR 445/2000.
L’art. 47 conferisce al privato il potere di “comprovare” i fatti a sua conoscenza con la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà; così facendo l’ordinamento, in un’ottica di semplificazione amministrativa, ha consentito al privato di sostituire certificati ufficiali con una propria dichiarazione, cui viene attribuita efficacia probatoria.
L’art. 76, invece, assume la generale funzione di vietare il mendacio nella elaborazione dell’autodichiarazione, rinviando per le sanzioni alle norme del codice penale in materia di falso; ed inoltre sancisce che «le dichiarazioni sostitutive rese ai sensi degli articoli 46 e 47 […] sono considerate come fatte a pubblico ufficiale», in questo modo legandosi funzionalmente al tessuto normativo di cui all’art. 483 c.p., il quale prevede, per operare, che le false dichiarazioni siano (appunto) rese al pubblico ufficiale. In sintesi, da un lato la norma imputa al privato l’obbligo di verità; dall’altro, in virtù della fictio ora descritta, le dichiarazioni sono considerate come rese al pubblico ufficiale. Pertanto, chi inserisce in una dichiarazione sostitutiva di atto notorio affermazioni non veritiere è considerato al pari di chi rende al p.u. dichiarazioni false che il secondo, conseguentemente, inserisce in un atto che è destinato a costituire prova della verità del fatto recepito.

Sussistono conseguentemente tutti i requisiti strutturali dell’art. 483 c.p.:
obbligo di verità, efficacia probatoria dell’atto, equivalenza tra
autodichiarazione e dichiarazioni rese al p.u.
L’impostazione giurisprudenziale sul punto è pacifica; si consideri in via del
tutto esemplificativa la massima «in tema di falso documentale, integra il
reato di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico (art. 483 cod.
pen.) la presentazione di una dichiarazione sostitutiva che attesti falsamente
la regolarità contributiva (c.d. DURC), stante l’obbligo di dichiarare il vero, ex
13
art. 76, d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445» , dalla quale risaltano sia
l’interazione tra l’art. 483 c.p. e le dichiarazioni sostitutive affette da falsità, sia il rinvenimento dell’obbligo di dichiarare il vero proprio nell’art. 76 DPR 445/2000.
Orbene, in attesa di una sedimentazione giurisprudenziale avente ad oggetto le fattispecie che si consumano in questo periodo segnato dall’emergenza epidemiologica, può condursi una preliminare riflessione critica circa la condotta di chi, fermato in queste ore in strada dal pubblico ufficiale che gli chieda di dar contezza dei motivi per cui è fuori casa, renda delle dichiarazioni non conformi al vero, mediante consegna dell’autodichiarazione scritta, la quale potrà essere stata compilata prima di lasciare la propria abitazione o durante il controllo delle forze dell’ordine.
V’è in primo luogo da chiedersi se dietro lo schermo “motivazionale” si celi un fatto, come la norma incriminatrice richiede espressamente.
Orbene, posto che irrilevante nel caso di specie è il fatto obbiettivo della presenza in strada del cittadino sottoposto a controllo, occorre porre l’attenzione su altri aspetti, fermo restando che le circostanze obbiettive in cui il soggetto è rinvenuto al momento dell’accertamento potranno a posteriori tornare utili per gli sviluppi investigativi del caso, quando ad esempio denotino prima facie significative incongruenze.
In linea di principio, il privato potrà attestare un “fatto” già compiuto, o meglio già concretizzatosi nella realtà esteriore: il privato può infatti dichiarare di essere in strada per “aver compiuto” una certa azione (es. “sono stato a lavoro presso la sede sita in …”; “sto tornando a casa dopo aver portato generi alimentari e medicinali a mia madre anziana”, etc.) che trovi il proprio fondamento di tutela nei DPCM (lavoro, salute, stretta necessità). In questo caso siamo con ogni probabilità dinanzi ad un “fatto” suscettibile di essere riferito e attestato, in quanto trattasi di un evento della vita o una circostanza che sono prospettati come già realizzati e/o materializzati in rerum natura. Ciò che è accaduto o già venuto ad esistenza può essere oggetto di narrazione ai nostri fini.
Altro è il fatto ancora non verificatosi ma oggetto di una semplice intenzione (es. “sto andando a fare la spesa”; “sto andando a lavoro”; “sto andando in farmacia per acquistare il medicinale X”); questo caso pare rientrare in quei divieti giurisprudenziali anzidetti che non consentono di ritenere configurata la fattispecie delittuosa, in quanto ad essere attestato è un mero intento, un proposito, salvo voler considerare “fatti” rilevanti per il nostro proposito i presupposti fattuali, già esistenti ed eventualmente dichiarati, che costituiscano gli elementi strutturali della esigenza tutelata dalla normativa emergenziale (es. “sto andando a fare la spesa e la porterò a mia madre anziana che è rimasta sprovvista di Y”).
Le argomentazioni che precedono devono essere confrontate con il documento di derivazione ministeriale (aggiornato al DPCM del 22/03/2020), che infatti si compone, per quanto qui di interesse, di due sezioni rilevanti: la prima consta di un breve elenco di motivazioni tra cui spuntare quella giustificativa dello “spostamento”: comprovate esigenze lavorative, assoluta urgenza (per gli spostamenti tra comuni diversi), situazioni di necessità (per gli spostamenti nell’ambito del medesimo territorio comunale), motivi di salute; la seconda consta di uno spazio in cui inserire una dichiarazione tendenzialmente esplicativa del motivo sopra indicato.
Orbene, l’interprete dovrà attentamente verificare, alla luce della lettura congiunta e coordinata delle due sezioni e soppesando sapientemente le parole utilizzate, se il privato abbia dichiarato un “fatto” o piuttosto una “intenzione”: nell’un caso, il dichiarante potrà essere tacciato di falsità; nell’altro caso, la condotta pare sfuggire alle maglie della punibilità in ossequio alla giurisprudenza su richiamata.
Va precisato, e lo si anticipava, che, ai sensi della Direttiva del Ministro dell’Interno del 8 marzo 2020, il pubblico ufficiale, nel caso in cui il privato fosse sfornito della dichiarazione sostitutiva, è abilitato a consegnargli il modulo all’atto del controllo e, previa compilazione dello stesso da parte del soggetto fermato, a controfirmarlo. Le osservazioni sinora svolte valgono anche in questo caso, che si differenzia dal primo solo per il momento in cui avviene la compilazione dell’atto.
Più impervia appare invece la strada verso il riconoscimento della punibilità di chi, sprovvisto dell’autodichiarazione ed interrogato dal p.u. sui motivi della propria presenza in strada, renda dichiarazioni false che il p.u. recepisca a verbale (o di chi, avendo compilato l’autodichiarazione in maniera parziale, la “integri” con dichiarazioni rese oralmente e raccolte nel verbale).
In questa ipotesi, la Corte di cassazione ha ritenuto, in casi assimilabili, che il reato di cui all’art. 483 c.p. non si configuri quando in un controllo stradale il privato renda dichiarazioni mendaci all’agente accertatore, «posto che il verbale della polizia, contenente le dichiarazioni del privato, non è destinato ad attestare la verità dei fatti dichiarati ed il reato in questione è ravvisabile quando l’atto pubblico, nel quale sia trasfusa la dichiarazione del privato, sia
Trattasi comunque di ipotesi marginale e del tutto teorica, avuto riguardo alla direttiva ministeriale anzidetta, la quale prescrive al pubblico ufficiale di consentire al privato di realizzare pur sempre un’autodichiarazione in un modulo che l’appartenente alle forze dell’ordine gli fornirà al momento, e non di raccogliere in un proprio verbale le dichiarazioni del soggetto sottoposto a controllo.
4. Reati di falso e diritto di mentire. Considerazioni lapidarie.
E’ stato autorevolmente sostenuto che ulteriori problemi potrebbero registrarsi in merito alla configurazione dei reati di falso, nell’ipotesi fattuale sinora affrontata, sul piano dell’antigiuridicità, in quanto tale stadio della sistematica del reato verrebbe escluso dall’applicazione del principio “nemo tenetur se detegere”, declinato nel senso che il privato che abbia mentito al pubblico ufficiale per occultare la propria trasgressione delle misure di contenimento non sarebbe punibile in quanto, per definizione, il colpevole

16 illecito, sia sul terreno specifico dei reati di falso .
Sul piano generale – di sistema – la Corte attribuisce al diritto di mentire una natura ed una rilevanza prettamente processuale e non sostanziale, nel senso che la facoltà di taluno di rendere dichiarazioni mendaci all’Autorità trova il proprio alveo epifanico dopo l’apertura di un formale procedimento penale a carico di costui e non precede tale momento. Peraltro, lo stesso diritto di mentire nel procedimento penale a proprio carico incontra forti limitazioni, come quella attinente al divieto di sconfinare nella calunnia, e non si qualifica
17 pertantointerminidiassolutezza .
Sullo speciale terreno dei reati di falso, la Corte pare assegnare posizione prioritaria all’esigenza di affidabilità e veridicità del documento in cui le dichiarazioni confluiscono, sulla cui verità viene riposto affidamento. Peraltro, destinato a provare la verità dei fatti attestati» .
ha diritto di mentire
Orbene, sul punto ci si limita ad osservare che la Cassazione pare aver adottato nel tempo una soluzione difforme, fornendo delle indicazioni sia sul piano generale della esistenza di un diritto generalizzato di mentire al fine di tutelarsi da conseguenze legali per un proprio precedente comportamento può soggiungersi che, con riguardo all’applicazione della causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di mentire al reato di cui all’art. 495 c.p., non vi sarebbe spazio per il principio “nemo tenetur” in quanto, già a livello procedimentale, che costituirebbe in astratto – come detto – il settore di maggior tutela per l’imputato/indagato, esso è escluso dall’obbligo, incondizionato, di verità relativo alle proprie generalità.
Né sarebbe possibile ritenere, a parere di chi scrive, che la richiesta del pubblico ufficiale al privato di indicare le ragioni della sua presenza in strada o altri dati caratterizzanti si collochi in un terreno lato sensu procedimentale, considerato che il privato è eventualmente attinto da indizi di reità solo dopo aver illustrato le proprie ragioni o aver fornito i su indicati dati ed essere incorso in incongruenze che attivino un più approfondito controllo sulla fondatezza delle asserzioni giustificative fornite.
Pertanto, si ritiene che il nucleo tematico su cui si annidano le maggiori problematiche di configurazione dei reati di falso in merito alla fattispecie concreta oggetto del presente contributo non pare essere rappresentato dallo stadio sistematico della antigiuridicità ma da quello della tipicità, per le motivazioni espresse ai paragrafi 2 e 3.

La longa manus del Coronavirus sulla giustizia penale e sulle carceri

La longa manus del Coronavirus sulla giustizia penale e sulle carceri.

Il “Coronavirus”, meglio definito come “Covid–19”, dichiarato ormai pandemia dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, è divenuto un fenomeno planetario, che ha interessato tutti gli aspetti della nostra vita e anche quello della giustizia, mettendo a dura prova gli artt. 101 e seguenti della Costituzione ed, in particolare, l’art. 111, primo comma, secondo cui “La giurisdizione si attua mediante il giusto processo, regolato dalla legge…”.

A disciplinare la materia nella fase di emergenza è intervenuto di recente, a seguito del Decreto legge n. 11/2020 e dei DD.PP.CC.MM. in data 4 marzo 2020, 8 marzo 2020 e 12 marzo 2020, anche il Decreto legge del 17 marzo 2020, n. 18, pubblicato nella G.U. n. 70 del 18 marzo 2020 (nonché in questa Rivista, ivi), che ha previsto (nonché in questa Rivista, ivi), all’art. 83, nuove misure urgenti per contrastare l’emergenza epidemiologica da Covid-19 e contenerne gli effetti in materia di giustizia civile, penale, tributaria e militare, alcune delle quali di dubbia costituzionalità.

1. Il rinvio delle udienze e la sospensione dei termini.

In particolare, è previsto dall’art. 83 del provvedimento normativo che dal 9 marzo al 15 aprile 2020 le udienze dei procedimenti civili e penali pendenti presso tutti gli uffici giudiziari sono rinviate d’ufficio a data successiva al 15 aprile 2020. Inoltre, nello stesso periodo è sospeso il decorso dei termini per il compimento di qualsiasi atto dei procedimenti civili e penali. Si intendono pertanto sospesi, per quello che ci riguarda, “i termini stabiliti per la fase delle indagini preliminari, per l’adozione di provvedimenti giudiziari e per il deposito della loro motivazione, per la proposizione degli atti introduttivi del giudizio e dei procedimenti esecutivi, per le impugnazioni e, in genere, tutti i termini procedurali. Ove il decorso del termine abbia inizio durante il periodo di sospensione, l’inizio stesso è differito alla fine di detto periodo. Quando il termine è computato a ritroso e ricade in tutto o in parte nel periodo di sospensione, è differita l’udienza o l’attività da cui decorre il termine in modo da consentirne il rispetto…”.

Già il Presidente della Suprema Corte di Cassazione, con atto n. 36/2020, depositato il 13 marzo, supportando il compito dell’autorità amministrativa, aveva disposto la sospensione dei termini di qualsiasi atto giudiziario.

E ancora prima, in data 11 marzo 2020, la relazione illustrativa trasmessa dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri al Senato, avente oggetto il disegno di legge di conversione del citato decreto legge n. 11/2020, aveva ribadito la necessità di provvedere, da un lato, all’immediato e generalizzato rinvio delle udienze fino al 22 marzo e, dall’altro, di introdurre disposizioni rivolte a tutti gli uffici giudiziari per garantire il rispetto delle indicazioni igienico sanitarie fornite dal Ministero della Salute.

Come chiarisce la relazione illustrativa e tecnica al provvedimento normativo n. 18/2020, la disposizione ripropone, in unico articolo, il contenuto degli artt. 1 e 2 del decreto legge 8 marzo 2020, n. 11, mediante la introduzione delle medesime disposizioni con taluni adeguamenti nella formulazione delle norme al fine di chiarirne l’effettiva portata applicativa e le integrazioni necessarie per il completamento della disciplina emergenziale in atto. Inoltre, con riferimento alla pendenza dei giudizi, la norma ha eliminato ogni dubbio e ha esteso gli effetti della sospensione anche agli atti introduttivi del giudizio, ove per il loro compimento sia previsto un termine.

I Tribunali stanno adottando procedure diversificate. Ad esempio il Tribunale di Milano sta disponendo rinvii d’ufficio delle udienze penali con comunicazione del rinvio ad opera della cancelleria; altri tribunali, come quello di Venezia, hanno richiesto al consiglio dell’ordine degli avvocati di assicurare la presenza di un difensore che sia presente in ciascuna udienza da nominare sostituto ex art. 97, comma 4, del codice di procedura penale per ricevere la comunicazione delle date di rinvio per non gravare le cancellerie del relativo incombente; altri tribunali hanno raggiunto un accordo con il locale Consiglio dell’Ordine e i verbali d’udienza dei rinvii verranno comunicati a cura della cancelleria agli avvocati titolari. Queste ultime due prassi, anche se non contra legem, appaiono frutto di un’interpretazione forzata della norma.

2. Le eccezioni ai rinvii e alla sospensione.

Per i profili di interesse, il comma 3, lettera b) prevede che le disposizioni di cui ai commi 1 e 2, non operano nei “procedimenti di convalida dell’arresto o del fermo, procedimenti nei quali nel periodo di sospensione scadono i termini di cui all’art. 304 del codice di procedura penale, procedimenti in cui sono applicate misure di sicurezza detentive o è pendente la richiesta di applicazione di misure di sicurezza detentive e, quando i detenuti, gli imputati, i proposti o i loro difensori espressamente richiedono che si proceda, altresì i seguenti: 1. procedimenti a carico di persone detenute, salvo i casi di sospensione cautelativa delle misure alternative, ai sensi dell’art. 51-ter della legge 26 luglio 1975, n.374; 2. procedimenti in cui sono applicate misure cautelari o di sicurezza; 3. procedimenti per l’applicazione di misure di prevenzione o nei quali sono disposte misure di prevenzione”.

La lettera c) prevede, inoltre, che le citate disposizioni non si applicano ai “procedimenti che presentano carattere di urgenza, per la necessità di assumere prove indifferibili, nei casi di cui all’art. 392 del codice di procedura penale. La dichiarazione d’urgenza è fatta dal giudice o dal presidente del collegio, su richiesta di parte, con provvedimento motivato e non impugnabile”.

A parte l’infelice formulazione letterale della norma di cui alla lettera b), la citata relazione precisa, al fine di superare le incertezze venutesi a creare con il citato decreto legge n. 11/2020, che, ferme restando le eccezioni previste, la sospensione dei termini, investendo qualsiasi atto del procedimento e non solo del processo, riguarda in buona sostanza tutti i termini procedurali. Si è, poi, optato, per non ledere i diritti della parte nei cui confronti decorre il periodo di sospensione, di un meccanismo di differimento dell’udienza o della diversa attività cui sia collegato il termine, in modo da farlo decorrere ex novo ed integralmente al di fuori del periodo di sospensione per un meccanismo di differimento dell’udienza o della diversa attività cui sia collegato il termine.

3. La celebrazione delle udienze a porte chiuse e tramite videoconferenza.

Il comma 7 dello stesso articolo prevede, poi, alla lettera e) la celebrazione a porte chiuse, ai sensi dell’art. 472, comma 3, del codice di procedura penale, di tutte le udienze penali pubbliche o di singole udienze e, ai sensi dell’art.128 del codice di procedura civile, delle udienze civili pubbliche. Viene, quindi riproposta, adeguandola, la disposizione già presente nell’art. 2 del citato decreto legge n. 11/2020. Si tratta una norma dettata dal buon senso e che non va ad incidere sulle garanzie costituzionali del cittadino.

Il comma 12 del dettato normativo in argomento prevede, anche, che “Ferma l’applicazione dell’art. 472, comma 3, del codice di procedura penale, dal 9 marzo 2020 al 30 giugno 2020, la partecipazione a qualsiasi udienza delle persone detenute, internate o in stato di custodia cautelare è assicurata, ove possibile, mediante videoconferenze o con collegamenti da remoto individuati e regolati con provvedimento del Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia, applicate, in quanto compatibili, le disposizioni di cui ai commi 3,4 e 5 dell’art,146-bis del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271”.

La norma, in considerazione dell’eccezionale momento emergenziale, si può ritenere legittima, a condizione che non abbia un’applicazione prolungata nel tempo.

4. La sospensione della prescrizione.

Il comma 8 prevede che “per il periodo di efficacia dei provvedimenti di cui ai commi 5 e 6 che precludano la presentazione della domanda giudiziale è sospesa la decorrenza di termini di prescrizione e di decadenza dei diritti che possano essere esercitati esclusivamente mediante il compimento delle attività precluse dai provvedimenti medesimi”; in particolare, il successivo comma 9 statuisce che “nei procedimenti penali il corso della prescrizione e i termini di cui agli artt. 303, 308, 309, comma 9, 311, commi 5 e 5 bis, e 324, comma 7, del codice di procedura penale e agli artt. 24, comma 2,e 27, comma 6, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n.159, rimangono sospesi per il tempo il tempo in cui il procedimento è rinviato ai sensi del comma 7, lett. g) e, in ogni caso, non oltre il 30 giugno 2020”.

Il comma 10 prosegue disponendo che “ai fini del computo di cui all’art. 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89, nei procedimenti rinviati a norma del presente articolo non si tiene conto del periodo compreso tra l’8 marzo e il 30 giugno”.

Le norme in questione appaiono di dubbia legittimità costituzionale, in quanto non sono dettate da motivazioni di ordine sanitario, come le successive, e incidono pesantemente sullo status dell’imputato, prevedendo una ingiustificata sospensione della prescrizione.

5. Il sistema di notificazioni telematiche presso il difensore di fiducia.

Come precisa la menzionata relazione, ha invece carattere innovativo il sistema delineato dai commi 13, 14 e 15 dello stesso art. 83. Viene, infatti, prevista una deroga al sistema delle notificazioni e delle comunicazioni attualmente previsto dal codice di procedura penale, al fine di consentire agli uffici giudiziari, nella situazione di emergenza, di comunicare celermente e senza la necessità di impegno degli organi notificatori i provvedimenti destinati ad essere portati a conoscenza delle parti processuali, in particolare quelli che stabiliscono le date delle udienze fissate in ragione del rinvio d’ufficio.

Viene, quindi, suggerito il ricorso al sistema di notificazioni e comunicazioni telematiche, disciplinato dal decreto legge n. 179/2012, convertito con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, quali modalità di partecipazione dei provvedimenti sopra descritti e di qualsiasi altro avviso. Si potranno prevedere, altresì, ulteriori strumenti telematici individuati dalla Direzione Generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della Giustizia, favorendo uffici che hanno già adottato sistemi telematici alternativi, nonché di accedere al sistema di comunicazioni telematiche penali, ai sensi dell’art, 16, lettere a) e b), del menzionato decreto legge n. 179/2012.

Al fine di rendere più agevole il notevole carico di lavoro imposto alle cancellerie per le comunicazioni e le notificazioni dei provvedimenti di rinvio, si deroga al sistema di notificazioni previsto per tutti gli atti processuali penali introducendo, per la notificazione dei provvedimenti specificamente disciplinati dai decreti legge adottati per far fronte all’emergenza sanitaria in atto, la notifica ex lege presso il difensore di fiducia dell’imputato e di tutte le parti private, da effettuarsi tramite invio all’indirizzo di posta elettronica certificata di sistema. Nel caso di difensore d’ ufficio, continuerà ad applicarsi il regime codicistico ordinario.

La norma è dettata da indubbie ragioni di ordine sanitario e, quindi, sotto tale profilo si appalesa legittima.

Tuttavia, si ritiene che la stessa non sarà sufficiente ad alleggerire il carico delle cancellerie, già al collasso ed ulteriormente in difficoltà dal più accentuato ricorso al telelavoro previsto dalle vigenti norme emergenziali.

Inoltre, la stessa norma potrebbe ledere alcuni principi di costituzionalità ed, in particolare, il terzo comma dell’art. 111 della costituzione, secondo cui “Nel processo penale, la legge assicura che la persona accusata di un reato, sia nel più breve tempo possibile informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico…”. Per cui, passata la tempesta, si può prevedere che fioccheranno le eccezioni di legittimità costituzionale della disposizione.

6. Gli interventi sul sistema penitenziario: il regime dei colloqui per i detenuti.

Ma il decreto legge n. 18/2020 cerca di regolamentare anche il clima rovente che si sta creando nelle carceri, in cui già si sono verificati contagi in capo ai detenuti, e che è testimoniato dalle numerose rivolte di questi giorni, che hanno determinato evasioni in massa, come è avvenuto nel carcere di Foggia ed anche il decesso di dodici detenuti, come verificatosi nel carcere di Modena.

Per far fronte a queste esigenze è intervenuto il comma 16 della citata norma dell’art. 83 del decreto secondo cui “Negli istituti penitenziari e negli istituti penali per minorenni a decorrere dal 9 marzo 2020 e sino alla data del 22 marzo 2020, i colloqui con i congiunti o con altre persone cui hanno diritto i condannati, gli internati e gli imputati a norma degli artt. 18 della legge 26 luglio 1975, n. 354, 37 del decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n.230, e 19 del decreto legislativo 2 ottobre 2018, n.121, sono svolti a distanza, mediante, ove possibile, apparecchiature e collegamenti di cui dispone l’amministrazione penitenziaria e minorile o mediante corrispondenza telefonica, che può essere autorizzata oltre i limiti di cui all’art. 39, comma 2, del predetto decreto del Presidente della Repubblica n230 del 2000 e all’art. 19, comma 1, del decreto legislativo n. 121 del 2018”.

La norma appare ragionevole, anche se probabilmente non sarà insufficiente a sedare le rivolte nelle carceri, in cui il fuoco ancora arde sotto la brace.

Il successivo comma 17 dispone, invece, che “Tenuto conto delle evidenze rappresentate dall’autorità sanitaria, la magistratura di sorveglianza può sospendere, nel periodo compreso tra il 9 marzo 2020 ed il 31 maggio 2020, la concessione dei permessi premio di cui all’art. 30 – ter della legge 26 luglio 1975, n. 354, del regime di semilibertà ai sensi dell’art. 48 della medesima legge e del decreto legislativo 2 ottobre 201, n.121”.

Anche questa disposizione appare non conforme ai principi costituzionali ed in particolare alla norma di cui all’art. 27 della costituzione, che implicitamente tutela la salute del recluso, cui deve consentirsi di effettuare anche, in caso di necessità, il periodo di quarantena che, per ovvi motivi, non può essere garantito in istituto.

7. Gli interventi sul sistema penitenziario: le disposizioni in materia di detenzione domiciliare e di licenze premio straordinarie per i detenuti in regime di semilibertà.

Sotto altro aspetto, importanti disposizioni in materia di detenzione domiciliare e di licenze premio ai detenuti in regime di semilibertà sono contenute negli artt. 123 e 124 del decreto legge.

Come precisato nella relazione illustrativa, l’esigenza di contrastare il contagio deve interessare anche l’ambiente carcerario nel quale l’ampia concentrazione di personale di polizia penitenziaria, di detenuti e di operatori impone di alleggerire tale concentrazione ed attenuare il cronico problema dell’affollamento degli istituti penitenziari. Per tale motivo il legislatore ha ritenuto di ripercorrere il modello operativo sperimentato con la legge n.199/2010, sulla base delle impellenti esigenze sanitarie dei giorni nostri. Si osserva, anche, che lo strumento utilizzato non elude il principio rieducativo previsto dall’art. 27 della costituzione e garantisce la tutela della sicurezza pubblica.

L’art. 123, al comma 1, dispone che in deroga a quanto previsto dai commi 1, 2 e 4 dell’art. 1 della legge 26 novembre 2010, n. 199, dalla data di entrata in vigore del provvedimento normativo la pena detentiva è eseguita, su istanza, presso l’abitazione del condannato o in altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza ove la pena da scontare non sia superiore ai 18 messi, anche se constituenti residuo di una maggior pena.

Sono esclusi da tale beneficio i condannati per i delitti indicati dall’art. 4-bis della legge n.354/1975, per i delitti di minacce o molestie tali da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita, per i reati di maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli, i delinquenti abituali, professionali o per tendenza, i detenuti che sono sottoposti al regime di sorveglianza particolare, ai sensi dell’art. 14-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, salvo che sia stato accolto il reclamo previsto dall’art. 14-ter della medesima legge, i detenuti che nell’ultimo anno siano stati sanzionati per infrazioni disciplinari, i detenuti nei cui confronti sia stato redatto rapporto disciplinare, in quanto coinvolti nei disordini e nelle sommosse a far data dal 7 marzo 2020, i detenuti privi di domicilio effettivo.

Il magistrato di sorveglianza adotta il provvedimento che dispone l’esecuzione della pena presso il domicilio, salvo che ravvisi gravi motivi alla concessione ostativi alla concessione della misura.

Si tratta di una previsione che attribuisce ampia discrezionalità alla magistratura e che, forse, potrebbe affievolire la portata del provvedimento.

Prosegue la disposizione stabilendo che, salvo si tratti di condannati minorenni o di condannati la cui pena non è superiore a sei mesi, è applicata la procedura di controllo mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici resi disponibili per i singoli istituti penitenziari. La procedura di controllo, alla cui prestazione il condannato deve prestare il consenso, viene disattivata quando la pena residua da espiare scende sotto la soglia dei sei mesi.

A tal fine “Con decreto del capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia, d’intesa con il Capo della Polizia-Direttore Generale della Pubblica Sicurezza, adottato entro il termine di dieci giorni dall’entrata in vigore del presente decreto e periodicamente aggiornato è individuato il numero dei mezzi elettronici e degli altri strumenti tecnici da rendere disponibili, nei limiti delle risorse finanziarie disponibili a legislazione vigente, che possono essere utilizzati per l’esecuzione della pena con le modalità stabilite dal presente articolo, tenuto conto anche delle emergenze sanitarie rappresentate dalle autorità competenti. L’esecuzione del provvedimento nei confronti dei condannati con pena residua da eseguire superiore a sei mesi avviene progressivamente a partire dai detenuti che devono scontare la pena residua inferiore”.

Si tratta di una disposizione di difficile attuazione, anche per le limitate disponibilità finanziarie, e il cui termine di attuazione deve ritenersi certamente ordinatorio.

Il comma 6 disciplina, poi, le attestazioni cui è tenuta la direzione dell’istituto penitenziario, ed in particolare l’indicazione del luogo esterno di detenzione (abitazione o altro luogo o privato di cura, assistenza e accoglienza), mentre il successivo comma 7 dispone che, per i condannati minorenni, l’ufficio servizio sociale minorenni territorialmente competente, in raccordo con l’equipe dell’istituto, provvederà, entro trenta giorni, alla redazione di un programma educativo.

L’eliminazione della relazione da parte della direzione dell’istituto penitenziario sul complessivo comportamento tenuto dal condannato durante la detenzione è dovuta alla necessità di semplificare gli incombenti, ma è basata anche sulla considerazione che gli unici elementi di valutazione sono quelli definiti preclusivi dal comma 1, come precisato dalla citata relazione illustrativa.

Il successivo art. 124 della norma statuisce poi che “Ferme le ulteriori disposizioni di cui all’art. 52 della legge 26 luglio 1975, n.354, anche in deroga al complessivo limite temporale massimo di cui al comma 1 del medesimo articolo, le licenze concesse al condannato ammesso al regime di semilibertà possono avere durata sino al 30 giugno 2020”.

La disposizione interviene sulla disciplina delle licenze concedibili ai condannati ammessi al regime di semilibertà, consentendo che l’estensione temporale delle licenze sino al 30 giugno 2020 possa eccedere l’ordinario ammontare di quarantacinque giorni previsto, in via ordinaria, come limite massimo della loro durata.

Tale intervento, unitamente a quelli previsti dall’art. 123, intende contribuire, nell’attuale situazione di emergenza, a contenere le occasioni di contagio, senza mettere a rischio la sicurezza pubblica, ed è quindi pienamente condivisibile.

8. La violazione dell’art. 650 cod. pen.

In ultimo, pare utile segnalare un ulteriore vulnus cui il sistema della giustizia penale assisterà nei prossimi mesi a causa del rinvio all’art. 650 del codice penale operato dall’art. 4 del D.P.C.M. 8 marzo 2020, che al secondo comma recita: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, il mancato rispetto degli obblighi di cui al presente decreto è punito ai sensi dell’art. 650 del codice penale, come previsto dall’art. 3, comma 4, del decreto legge 23 febbraio 2020, n. 6 ”.

Per effetto di questa disposizione tutti gli obblighi contenuti nel provvedimento risultano sanzionati con il reato contravvenzionale ex art. 650 del codice penale, mentre per le numerose raccomandazioni ivi previste, il medesimo testo non prevede sanzioni.

Ricompreso nel libro III (Delle contravvenzioni in particolare), titolo I, capo I, Sezione I (Delle contravvenzioni concernenti l’ordine pubblico e la tranquillità pubblica), l’art. 650 statuisce che “Chiunque non osserva un provvedimento legalmente dato dall’Autorità per ragione di giustizia o di sicurezza pubblica, o d’ordine pubblico o d’igiene, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a duecentosei euro”.

Il D.P.C.M. dell’8 marzo 2020, incarica i Prefetti territorialmente competenti di garantire il rispetto dei limiti e delle regole ivi previste, che potranno avvalersi delle forze di polizia, dei vigili del fuoco e delle forze armate.

Alla data del 18 marzo 2020, secondo fonti del Ministero dell’Interno, sono state accertate circa 43 mila violazioni che, nella maggioranza dei casi, sfoceranno in procedimenti penali per le prevedibili opposizioni dei contravventori.

A queste violazioni si devono aggiungere le sanzioni per le ipotesi di dichiarazioni mendaci a pubblico ufficiale previste dall’art. 76 del D.P.R. n. 445/2000, che richiama i reati di falso previsti agli articoli 483 e art. 495 del codice penale.

9. Conclusioni.

Certamente le disposizioni normative e le indicazioni del Governo, anche se necessarie, incidono pesantemente sul nostro sistema penale, già al collasso.

In conclusione, si deve rilevare che siamo di fronte ad un fenomeno di tale gravità, che i suoi effetti si rifletteranno anche sul funzionamento di tutto il nostro sistema pubblico, in tutte le sue componenti, compreso quello giudiziario. Deve, perciò, auspicarsi che l’impegno di tutte le componenti sociali, ed anche della magistratura, dei dipendenti del Ministero della Giustizia e dell’Avvocatura, possa contribuire a controllare questo fenomeno invasivo come i tentacoli di una piovra quasi invincibile.

P. Gentilucci

l reato di epidemia ai tempi del Coronavirus

l reato di epidemia ai tempi del Coronavirus

Il Coronavirus ha suscitato un rinnovato interesse per i reati di epidemia dolosa (art. 438 c.p.) ed epidemia colposa (art. 452 c.p.).

Alcune Procure della Repubblica, infatti, stanno conducendo accertamenti sulle procedure adottate per prevenire il contagio da Coronavirus in alcuni ospedali.

L’ipotesi di reato – a carico di ignoti – è quella di epidemia colposa prevista dall’art. 452 c.p.

Commette il reato di epidemia colposa, ad es., colui che, consapevole di aver contratto il Coronavirus, continui a circolare liberamente diffondendo la malattia per negligenza o imprudenza, senza cioè osservare le disposizioni precauzionali imposte dal DPCM 8-3-2020.

Di seguito uno schema sulle principali caratteristiche dei due reati e l’estratto di una sentenza della Cassazione.

1. Epidemia dolosa (art. 438 c.p.)

Il delitto di epidemia, sconosciuto al codice Zanardelli, è stato introdotto dal legislatore del ‘30 in base alla considerazione che l’evoluzione scientifica ha incrementato la possibilità di procurarsi colture di germi patogeni e di diffonderli.
Il delitto di epidemia apre la serie delle norme poste a tutela dell’incolumità pubblica nel particolare settore della salute pubblica: il legislatore vuole evitare che una malattia infettiva, che abbia già interessato un certo numero di individui, ne colpisca altri, in modo da incrinare la sicurezza delle condizioni di salute della collettività.

La salute pubblica è un bene di rilevanza costituzionale (art. 32 Cost.) suscettibile di diverse interpretazioni.
Taluni autori attribuiscono al termine “salute” un significato ampio, che si identifica con l’equilibrio psico-fisico-ambientale, cioè con l’armonico equilibrio delle funzioni fisiche e mentali.
Un altro orientamento ritiene, invece, che il codice penale prenda in considerazione esclusivamente le cause che presentino una concreta attitudine a provocare una infermità o una malattia suscettibili di turbare in modo rilevante l’equilibrio anatomico-funzionale o psichico della persona.

In dottrina è discussa la natura di danno o di pericolo del delitto di epidemia.

Secondo un orientamento, la lesione della salute pubblica deve concretizzarsi in un danno effettivo consistente nella diffusione di determinate malattie. Si tratta, pertanto, di un reato di danno per la salute pubblica. È il danno che caratterizza la fattispecie, mentre il pericolo per la salute pubblica costituisce un effetto eventuale del delitto in relazione all’ulteriore capacità espansiva e diffusiva dell’epidemia.

Parte della dottrina ritiene, invece, che si tratti di un reato di pericolo concreto, che richiede una minaccia concreta per una collettività indeterminata di persone. Il numero elevato di persone colpite non viene in rilievo di per sé, bensì in quanto segno di diffusione incontenibile della malattia. È il pericolo per la pubblica incolumità, connesso alla diffusività del male, che caratterizza il delitto di epidemia. Se l’epidemia richiede la diffusività della malattia, senza tale pericolo non vi è epidemia.

Secondo la tesi preferibile, affinché la fattispecie punita dall’art. 438 c.p. possa ritenersi integrata occorre che la condotta del reato di epidemia, consistente nella diffusione dì germi patogeni, cagioni un evento definito come la manifestazione collettiva di una malattia infettiva umana che si diffonde rapidamente in uno stesso contesto di tempo in un dato territorio, colpendo un rilevante numero di persone. L’evento che ne deriva è quindi, al contempo, un evento di danno e di pericolo, costituendo la malattia (danno) come il fatto iniziale di ulteriori possibili danni (pericolo), cioè il concreto pericolo che il bene giuridico protetto dalla norma, rappresentato dall’incolumità e dalla salute pubblica, possa essere ulteriormente leso.

Il delitto di epidemia è un reato di evento a forma vincolata, in quanto il soggetto deve cagionare l’evento dell’epidemia mediante quel particolare comportamento consistente nella diffusione di germi patogeni.
La diffusione può avvenire tramite spargimento in terra, acqua, aria, ambienti e luoghi di ogni tipo, di germi patogeni idonei; liberazione di animali infetti; messa in circolazione di portatori di germi o di cose provenienti da malati; inoculazione di germi a determinati individui; scarico di rifiuti in acqua ecc.

Secondo una tesi restrittiva la norma punisce chi cagioni l’epidemia mediante diffusione di germi patogeni di cui abbia il possesso (per esempio, animali da laboratorio), mentre deve escludersi che una persona affetta da malattia contagiosa abbia il possesso dei germi che la affliggono.
Deve ritenersi, al contrario, che ai fini della diffusione non sia necessario che il soggetto agente e i germi siano entità separate, ben potendo aversi epidemia quanto l’agente sia esso stesso il vettore dei germi patogeni. Ciò significa che commettere il reato anche colui il quale, consapevole di aver contratto un virus, continui a circolare liberamente, diffondendo la malattia.

Con il termine epidemia si intende una malattia infettiva suscettibile di colpire contemporaneamente un gran numero di persone e di diffondersi ulteriormente per contagio, per poi attenuarsi dopo aver compiuto il suo corso. Epidemia, quindi, non è qualunque malattia infettiva e contagiosa, ma soltanto quella suscettibile di diffondersi nella popolazione per la facile propagazione dei suoi germi, in modo da colpire in un unico contesto temporale un elevato numero di persone.
Al riguardo la giurisprudenza ha indicato come elementi dell’epidemia:
– il carattere contagioso del morbo;
– la rapidità della diffusione e la durata del fenomeno limitata nel tempo;
– il numero elevato di persone colpite, tale da destare un notevole allarme sociale e un correlativo pericolo per un numero indeterminato e notevole di persone;
– l’estensione territoriale ampia (normalmente, regionale). È escluso, quindi, che possa integrare il delitto in esame un focolaio epidemico che si manifesti in ambiente ristretto e rimanga localizzato, come per esempio in una comunità familiare o una struttura ospedaliera.

L’epidemia riguarda esclusivamente le malattie umane e non le malattie infettive degli animali o delle piante, le quali possono eventualmente configurare il delitto di cui all’art. 500 c.p. (Diffusione di una malattia delle piante o degli animali) o il reato di danneggiamento Se, tuttavia, la diffusione delle malattie alle piante o agli animali, per la propagazione dei germi patogeni, colpisce anche le persone, determinandosi così un pericolo per la salute di un indeterminato numero di individui, sussiste il reato di epidemia.

Il dolo è generico e consiste nella coscienza e volontà di diffondere germi patogeni, unite alla rappresentazione e volontà del contagio di un certo numero di persone.

Secondo un’opinione il dolo sarebbe caratterizzato dall’intenzione di cagionare l’epidemia, per cui l’unica forma di dolo ammissibile sarebbe quella del dolo intenzionale. Questa tesi è stata, però, respinta in quanto il dolo eventuale è perfettamente compatibile con la struttura del reato: si pensi all’ipotesi di uno sperimentatore che manipoli germi patogeni accettando il rischio di una loro diffusione epidemica.

Il reato si consuma al momento del verificarsi dell’epidemia e il tentativo è configurabile qualora si sia avuta diffusione di germi patogeni senza che sia derivata l’epidemia, o se il contagio si sia arrestato a pochi casi.
L’idoneità degli atti compiuti deve essere valutata sia in relazione alla qualità dei germi diffusi sia alle modalità della diffusione.

2. Epidemia colposa (artt. 438 e 452 c.p.)

Anche per l’epidemia colposa gli elementi costitutivi, in senso materiale, del reato sono la diffusione, la diffusibilità, l’incontrollabilità del diffondersi del male in un dato territorio e su un numero indeterminato o indeterminabile di persone. Il reato deve, perciò, escludersi se l’insorgere e lo sviluppo della malattia si esauriscano in un ambito circoscritto (ad esempio, nell’ambito di un ente ospedaliero).

Per l’epidemia colposa si deve stabilire se vi sia stata una diffusione imprudente, negligente, imperita ecc. di germi patogeni idonei a cagionare quell’epidemia realmente verificatasi.

La regola prudenziale violata può essere sociale o giuridica: per quest’ultima si può ipotizzare, ad esempio, l’inosservanza delle disposizioni per la prevenzione del Coronavirus.

Perché ci sia colpa, secondo i principi generali, oltre alla violazione della regola precauzionale occorrono:
– la prevedibilità dell’evento (l’agente, quindi, deve conoscere la qualità patogenetica dei germi);
– il superamento del rischio consentito.

Seguendo una tesi restrittiva, non incorre nel reato di epidemia colposa chiunque, in qualsiasi modo, provochi un’epidemia. come ad es. chi, sapendosi affetto da male contagioso, si mescoli alla folla pur prevedendo che infetterà altre persone. Infatti, la norma non punisce chiunque cagioni un’epidemia, ma chi la cagioni mediante la diffusione di germi patogeni di cui abbia il possesso, anche “in vivo” (animali di laboratorio), mentre deve escludersi che una persona, affetta da malattia contagiosa abbia il possesso dei germi che l’affliggono.

***

Cass. pen., IV, 12-12-2017, n. 9133

Massima

In tema di epidemia colposa, non è configurabile la responsabilità a titolo di omissione, in quanto l’art. 438 c.p., con la locuzione “mediante la diffusione di germi patogeni”, richiede una condotta commissiva a forma vincolata incompatibile con il disposto dell’art. 40, co. 2, c.p., riferibile esclusivamente alle fattispecie a forma libera.

(estratto della motivazione)

Secondo l’accezione accreditata dalla scienza medica, per epidemia si intende ogni malattia infettiva o contagiosa suscettibile, per la propagazione dei suoi germi patogeni, di una rapida e imponente manifestazione in un medesimo contesto e in un dato territorio, colpendo un numero di persone tale da destare un notevole allarme sociale e un correlativo pericolo per un numero indeterminato di individui.

La nozione giuridica di epidemia è più ristretta e circoscritta rispetto all’omologo concetto elaborato in campo scientifico, in quanto il legislatore, con la locuzione “mediante la diffusione di germi patogeni” prevista nell’art. 438 c.p., ha inteso circoscrivere la punibilità alle condotte caratterizzate da determinati percorsi causali.

La dottrina maggioritaria nonché la giurisprudenza di merito e anche di legittimità (Sez. 4, n. 2597 del 26/1/2011, Ceriello) hanno infatti sottolineato che il fatto tipico previsto nell’art. 438 c.p. è modellato secondo lo schema dell’illecito causalmente orientato, in quanto il legislatore ha previsto anche il percorso causale, con la conseguenza che il medesimo evento realizzato a seguito di un diverso percorso, difetta di tipicità.

Pertanto l’epidemia costituisce l’evento cagionato dall’azione incriminata la quale deve estrinsecarsi secondo una precisa modalità di realizzazione, ossia mediante la propagazione volontaria o colpevole di germi patogeni di cui l’agente sia in possesso.

La materialità del delitto è costituita sia da un evento di danno, rappresentato dalla concreta manifestazione, in un certo numero di persone, di una malattia eziologicamente ricollegabile a quei germi patogeni, sia da un evento di pericolo, rappresentato dall’ulteriore propagazione della stessa malattia a causa della capacità di quei germi patogeni di trasmettersi ad altri individui anche senza l’intervento dell’autore della originaria diffusione.

La norma evoca, all’evidenza, una condotta commissiva a forma vincolata di per sé incompatibile con il disposto dell’art. 40, co. 2, c.p., riferibile esclusivamente alle fattispecie a forma libera o a quelle la cui realizzazione prescinde dalla necessità che la condotta presenti determinati requisiti modali.

Un indirizzo dottrinario del tutto minoritario inquadra la fattispecie di cui all’art. 438 c.p. e del correlato art. 452, co. 2, c.p., nella categoria dei c.d. “reati a mezzo vincolato”.

Secondo tale opzione ermeneutica il legislatore, con la locuzione “mediante la diffusione di germi patogeni”, avrebbe inteso solo demarcare il tipo di evento rilevante, ovvero le malattie infettive, e non già indicare una puntuale tipologia di condotta.

Detta ricostruzione interpretativa risulta riduttiva in quanto finisce per disapplicare la predetta locuzione, che rappresenta uno degli elementi essenziali della fattispecie; né può fondatamente ritenersi che l’espressione contenuta nell’art. 438 c.p. sia meramente pleonastica o addirittura tautologica

Coronavirus: cosa rischia chi esce di casa senza validi motivi

coronavirus
Le regole imposte dal Governo richiamano al rispetto di uno dei più supremi valori, sia umani che costituzionali: la salute.

Il rispetto delle misure imposte appare, anzitutto, una faccenda etica, coinvolgendo la salvaguardia sia della propria persona che degli altri consociati, in considerazione del bene che potrebbe risultarne compromesso. Ma se la coscienza non basta entra in campo la legge con pene severissime: infatti all’imputazione genericamente richiamata dal DPCM (art. 650 c.p.) se ne possono sommare ulteriori.

In soli sei giorni oltre 26mila denunce.
Sono migliaia, in pochi giorni, in tutta la penisola, le persone denunciate per aver violato le prescrizioni dei Decreti governativi finalizzate al contenimento e alla gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid-19, molte delle quali sono state sorprese a transitare in strada senza valida giustificazione: tra l’11 ed il 15 marzo su 665.480 controllati, 26.954 sono i denunciati ex art. 650 c.p., 662 ex art. 495 e 496 c.p. (rispettivamente, Falsa attestazione o dichiarazione a P.U. e False dichiarazioni sulla identità o su qualità personali proprie o di altri). A questi numeri si aggiungono 317.951 esercizi commerciali controllati, di cui 1.102 titolari denunciati ex art. 650 c.p.

Chi contravviene alle misure del DPCM
Il DPCM 8 marzo 2020, il Decreto Legge n. 9/2020 e il Decreto Legge n. 11/2020 prevedono, per le violazioni delle misure in essi contenute, l’imputazione per il reato contravvenzionale ex art. 650 c.p. (Inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità), che sanziona con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a 206 euro chi trasgredisce alle norme contenute nei decreti che proibiscono di spostarsi senza motivo.

Ad esempio:

più passeggeri (non conviventi) nella stessa auto non rispettano la distanza minima di un metro,
un guidatore e un passeggero non conviventi viaggiano sulla stessa moto, non essendo materialmente possibile la distanza interpersonale di un metro,
chi svolge attività sportiva o motoria all’aperto (anche in bicicletta) senza osservare la distanza di sicurezza interpersonale di almeno un metro,
chi non “comprova” (quindi, non è in grado di dimostrare) che sta andando o tornando dal lavoro, oppure che sta si spostando per ragioni di salute o altre necessità.
Chi rende autocertificazione fasulla o mendace
Chi attesta in modo non veritiero una delle tre cause che permettono di spostarsi (motivi di salute, esigenze lavorative, altri stati di necessità) sarà denunciato per falsa attestazione a un pubblico ufficiale, così rischiando da uno a sei anni di reclusione. È anche previsto l’arresto facoltativo in flagranza.

I pubblici ufficiali che non denunciano i reati
Per i reati procedibili d’ufficio, come quello riguardante la falsa attestazione di una delle tre cause che consentono di muoversi, chiunque ha facoltà di segnalare le ipotesi di cui sia venuto e, per l’effetto far innescare il procedimento penale.

Tutti i pubblici ufficiali (appartenenti alle forze di polizia e armate, ai vigili del fuoco ed urbani, i magistrati nell’esercizio delle loro funzioni, i notai, i medici ospedalieri) sono obbligati a denunciare i reati procedibili d’ufficio di cui giungano a conoscenza, altrimenti rischiano loro stessi penalmente fino a un anno di reclusione (art. 361 c.p., recante “Omessa denuncia di reato da parte del pubblico ufficiale”).

Chi ha sintomi e non si mette in quarantena
Ogni giorno i mass media elencano i sintomi caratteristici del Covid-19 (tosse, febbre, affanno, ecc.). Chi presenta tali sintomi deve avvertire le Autorità sanitarie (telefonando ai numeri dedicati all’emergenza epidemiologica) e mettersi in quarantena.

I DPCM stabiliscono il divieto di uscire di casa per chi ha sintomi da infezione respiratoria e febbre maggiore di 37,5°, in caso contrario rischia, oltre all’imputazione per violazione dei provvedimenti dell’autorità, l’imputazione per lesioni personali volontarie, nella forma consumata o tentata, come pure l’omicidio doloso.

Più in dettaglio, se la condotta, sorretta dal dolo eventuale, e quindi tramite l’accettazione del rischio di contagiare altri, cagioni lesioni o addirittura la morte, l’imputazione si eleva a lesioni personali e fino all’omicidio doloso. Identica pena si applica a chi ha avuto contatti con persone positive al virus e prosegue ad avere rapporti sociali, oppure a lavorare con altri individui senza adottare precauzioni o informarle.

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Chi nasconde di essere positivo
La fattispecie è stata già ampliamente elaborata dalla giurisprudenza per i malati di HIV che, nella consapevolezza della contagiosità della patologia di cui sono portatori, e quindi con intenzione (dolo diretto) non adottano le necessarie cautele per evitare il contagio.

Similmente, chi è consapevole di avere il coronavirus ma non lo dichiara, contravvenendo alle regole di isolamento domiciliare e quarantena, oltre all’imputazione ex art. 650 c.p. (Inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità), rischia l’imputazione di lesioni personali e di omicidio volontario, anche solo nella forma tentata.

Più precisamente, qualora dolosamente si ponga in contatto con altri soggetti, e a causa di tale condotta ne provochi la morte, rischia le severissime pene (fino a 21 anni di reclusione) per l’omicidio volontario

Denuncia per violazione dell’art. 650 c.p.: è ammessa l’oblazione?

L’istituto dell’oblazione figura tra le cause estintive del reato ed è contemplata negli art. 162 e 162 bis del codice penale[1].

Nel linguaggio corrente sta a significare offerta, contribuzione volontaria e spontanea, pienamente in sintonia con l’accezione latina oblatio, corrispondente appunto di offerta. Giuridicamente l’oblazione, istituto di natura strettamente sostanziale, si configura come il pagamento di una determinata somma di denaro da parte del contravventore per mezzo del quale quest’ultimo estingue il reato in questione.
La necessità di prevedere giuridicamente tale istituto e di estenderne il più possibile l’ambito di applicazione fu avvertita già dal legislatore del ’30 con la finalità tanto pratica quanto giuridica di rendere rapidi e minimi i già numerosi procedimenti penali per reati contravvenzionali.

Occorre sottolineare a questo proposito l’interessante rapporto che intercorre tra l’oblazione stessa e l’istituto della depenalizzazione poiché infatti maggiormente numerosi saranno i reati penali depenalizzati minore sarà il campo operativo fornito dal beneficio di oblare.
Il nuovo codice di procedura penale infatti rivela una spiccata preferenza per il ricorso agli strumenti processuali finalizzati ad evitare lo svolgimento del dibattimento, scelta codicistica giustificata ampiamente dall’esperienza dei paesi anglosassoni dove si è ritenuto “del tutto incongruo e antieconomico prevedere il passaggio alla fase dibattimentale in caso di ammissione da parte dell’imputato delle proprie responsabilità, cioè in situazioni in cui l’unico aspetto controverso può essere la determinazione in concreto della pena”.

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La funzione deflattiva riconosciuta all’oblazione viene ribadita dall’art. 141 disp. att. la cui ratio ispiratrice si identifica in una sollecitazione della definizione dei procedimenti mediante l’avvalimento dell’oblazione, qualora naturalmente ne sussistano i presupposti.

Inoltre reciprocamente al disposto dell’art. 464, secondo comma, c.p.p. 1988[2], si impone l’obbligo di informare l’imputato nel decreto penale della facoltà di poter chiedere di essere ammesso al beneficio del pagamento e della conseguente estinzione del reato.
Tuttavia l’avviso non si rende necessario quando provenga dal pubblico ministero all’interessato in qualsiasi momento anteriore alla richiesta di emissione del decreto penale attribuendo così al pubblico ministero stesso, in accordo con la sua posizione nel nostro processo, in chiaro impulso processuale per la sollecita definizione dl procedimento in alternativa al dibattimento.
Qualora l’avviso in oggetto non venga formulato logica vorrebbe escludere la produzione di effetti giuridici invalidanti l’atto e il processo poiché la facoltà di beneficiare dell’oblazione non viene pregiudicata da tale omissione.
Tutto quanto detto aiuta sicuramente a ritenere il procedimento oblativo appartenente al genus dei procedimenti semplificati; con il ricorso all’oblazione infatti si ottiene l’effetto di evitare alcune fasi tipiche dello schema ordinario del processo penale attuando la funzione deflattiva propria dell’oblazione finalizzata a scoraggiare la celebrazione del dibattimento.
In questo senso l’oblazione pur essendo contemplata in singole disposizioni normative piuttosto che essere situata nel libro IV del nuovo codice di procedura penale (art. 438 e ss.) va ritenuta una tipologia procedimentale alternativa, sia sul piano logico vista la natura dell’istituto, e sia su quello strettamente letterale con il dato formale dell’intestazione della rubrica dell’art. 141 disp. att., coord. trans. 1989 sul “procedimento di oblazione”.
Comparativamente con gli altri procedimenti speciali quello dell’oblazione, a dispetto degli altri istituti caratterizzati dalla discrezionalità del rappresentante dell’accusa nella prestazione dell’eventuale consenso e dall’assenza di un penetrante controllo giudiziale, rimette la decisione del giudice al rispetto di parametri valutativi determinati dalla legge.

Si legga anche:”Denunce penali ex art. 650 c.p. e misure di contenimento al fine di evitare la diffusione del coronavirus”

Infatti mentre l’oblazione, anche quella cosiddetta discrezionale, può essere ammessa in presenza di precisi presupposti il “patteggiamento” sul rito o sul merito invece non dipende da vincoli giuridici ben determinati.
Tuttavia in questo modo la figura del pubblico ministero nell’esercizio delle sue funzioni assume un ampio margine discrezionale che appare non del tutto giustificabile in un ordinamento giuridico caratterizzato dall’obbligatorietà dell’azione penale (art.112 Cost.) e dall’indipendenza del pubblico ministero (art.108, II comma, Cost.)[3]; nei sistemi infatti dove l’organo dell’accusa dipende dal potere esecutivo la discrezionalità nell’esercizio dell’azione penale trova un corrispettivo nella responsabilità politica del governo mentre diversamente il beneficio della discrezionalità per la pubblica accusa non regolata e limitata per legge deve considerarsi una forma di discrezionalità ingiustificata e inaccettabile[4].
La Corte Costituzionale a sostegno di tale opinione con alcune sue pronunce successive all’entrata in vigore del nuovo codice del 1988 ha ribadito la necessità di un rapido recupero dei poteri del giudice sulle determinazioni del pubblico ministero.

L’oblazione inoltre si caratterizza al pari di altri istituti deflattivi per la ricerca di strumenti alternativi sia al processo, quale strumento di verità, sia al sistema carcerario, quale trattamento indifferenziato del comportamento criminale, anticipando la conclusione del procedimento in una fase anteriore al dibattimento e preferendo la pena pecuniaria a quella detentiva breve.

Già al tempo del codice abrogato numerosi autori furono divisi nel definire la natura giuridica dell’oblazione poiché mentre alcuni, in accordo con l’opinione più diffusa, riconoscevano all’oblazione carattere di transazione, di amichevole componimento, di conciliazione[5], altri invece in accordo col pensiero di Pessina negavano la presenza di ogni idea di componimento, costituendo l’oblazione un atto di riconoscimento della propria reità da parte dell’imputato e di volontario assoggettamento alla pena[6].

Una terza tesi proposta dal Manzini[7] e accolta nei lavori preparatori del codice attuale definisce l’oblazione un diritto soggettivo individuale che produce l’effetto caratteristico di trasformare l’illecito penale in un illecito amministrativo.

Infatti l’imputato godendo del beneficio in questione rende da un lato possibile alla pubblica amministrazione di realizzare direttamente il suo fine repressivo e dall’altro di trasformare in sanzione amministrativa quella che secondo la norma rappresenta “la pena” comminata per il fatto commesso il quale, proprio grazie all’oblazione, non può più essere considerato come illecito penalmente punibile.
Quindi appare lecito affermare che l’atto di oblazione, in quanto manifestazione di una volontà diretta ad impedire il promovimento o la prosecuzione dell’azione penale, assume carattere di negozio giuridico unilaterale[8].
Per effettuare l’oblazione non si rendono necessarie la domanda scritta o raccolta a processo verbale essendo invece sufficiente il versamento in tempo utile presso l’ufficio del registro dell’importo determinato e qualora vi siano le condizioni di un certificato rilasciato dal cancelliere competente che attesti le spese occorse.
Successivamente cura dell’oblatore sarà di depositare presso la cancelleria dell’Autorità giudiziaria di primo grado, investita del procedimento e che può essere anche l’Alta Corte di Giustizia, la ricevuta che attesti l’avvenuto pagamento con la indicazione del procedimento cui si riferisce.
Nel caso in cui l’ammissione al beneficio venga proposta mediante domanda scritta o processo verbale, questa risulta essere completamente esente da tassa di bollo essendo atto in materia penale; non occorre che per la regolarità della domanda sia allegato il documento che prova il pagamento potendo tale pagamento effettuarsi anche in tempo successivo, sempre prima dell’apertura del dibattimento.

Dagli stessi articoli che regolano l’oblazione è possibile notare una sostanziale differenza giuridica con la conseguenza che la domanda di oblazione disciplinata dall’art. 162 dà luogo ad una situazione giuridica tutelata nelle forme del diritto soggettivo mentre l’art. 162 bis ad una fattispecie protetta dal diritto affievolito poiché in questo caso il godimento del beneficio è subordinato alla volontà discrezionale del giudice.
Se esistono divergenze tuttavia tra i due articoli non mancano punti di contatto come l’obbligo da parte del contravventore di una domanda espressa per poter godere del beneficio da presentare entro termini prestabiliti a pena di decadenza, la determinazione della somma di denaro da versare a titolo di oblazione che deve essere considerata sulla base di quanto disposto nell’art. 162 bis e che per effetto dell’ avvenuta oblazione non possono essere applicate misure di sicurezza e pene accessorie.
L’effetto proprio dell’oblazione è quello di estinguere il reato con la conseguente pronuncia del giudice di non potersi procedere oltre a causa dell’avvenuto pagamento effettuato dal contravventore, pronuncia che può essere decisa in qualsiasi momento del processo salvo la possibilità concessa al pubblico ministero di impugnarla con i mezzi consentiti in base al momento processuale in questione.

Fatto da sottolineare sia sotto il profilo giuridico che materiale consiste nel non dover ritenere in alcun modo la pronuncia del giudice una sentenza di condanna poiché non c’è nessuna decisione riguardo il merito penale antecedentemente paralizzato dal pagamento.
Inoltre spetterà al giudice civile stabilire una eventuale responsabilità del contravventore non importando mai l’oblazione forme di colpevolezza nei confronti di chi ha usufruito del beneficio.
Per quanto riguarda i termini relativi a tale istituto l’art. 162 c.p. consente il pagamento “prima dell’apertura del dibattimento, ovvero prima del decreto di ” condanna”.
Tuttavia in dottrina si è molto discusso sia della perentorietà sia del fondamento giuridico di tali termini ed è stato osservato che essendo l’oblazione uno strumento posto dalla legge a difesa dei propri diritti l’apposizione di una “scadenza” rappresenterebbe unicamente un limite temporale alla rappresentazione delle proprie ragioni “determinato dalla necessità di un ordinato svolgimento della difesa in relazione alle fasi e ai momenti processuali”.
In particolar modo ci si è chiesti se nel caso di rinvio del dibattimento di primo grado a nuovo ruolo ex art. 432 c.p.p. (trasmissione custodia del fascicolo per il dibattimento) il diritto al beneficio possa essere ancora consentito prima del dibattimento.

La dottrina a proposito ha dato parere favorevole affermando che l’art. 162 c.p. non intende l’espressione “per la prima volta” con riferimento all’apertura del dibattimento contemplata dall’art. 430 c.p.p. e aggiungendo che l’art. 432 c.p.p. stabilisce nel caso di rinvio che le parti possano attuare tutti i diritti a loro riconosciuti nel corso degli atti preliminari al giudizio salvo quelli per i quali si sia verificata decadenza, la quale non si determina in nessuna norma per il diritto all’oblazione.
In ogni modo quando si affronta il tema delle cause estintive del reato il discorso inevitabilmente non può che spostarsi sulla problematica della punibilità, cerchio all’interno del quale l’oblazione trova collocazione, limiti e regole di disciplina.

Innanzitutto bisogna premettere che in riferimento proprio alle cause estintive del reato l’orientamento della dottrina si traduce in una molteplicità di opinioni ciascuna delle quali analizza il problema dell’unitarietà di trattamento di ciascuna causa estintiva proponendone la relativa soluzione riguardo “una loro sistemazione dogmatica come autonoma categoria giuridica”[9].
Infatti pieno accordo è stato trovato unicamente nel ritenere inesatta la formula “cause di estinzione del reato” poiché il reato stesso in quanto atto pratico e volontario del soggetto non si può estinguere, factum infectum fieri nequit, e nel dover continuare ad usare tale terminologia, nonostante tutto, perché radicata nell’uso comune.
Il concetto stesso di estinzione è stato bersaglio di numerose critiche quando si considera il reato la causa e la pena l’effetto; non si può naturalmente pensare di poter eliminare la causa quando questa ha già prodotto i suoi effetti giuridici.
Tali contrasti dottrinari hanno legittimamente dato vita ad una serie diversa di tesi, larga parte della dottrina ritiene infatti che commesso un illecito penale lo Stato abbia il compito e il dovere giuridico di punire la persona in virtù di un rapporto punitivo che si viene dunque a creare in conseguenza dell’avvenuto reato.
Tuttavia un’altra parte della dottrina, altrettanto cospicua, ritiene invece che dalla commissione del reato nasca la cosiddetta punibilità, ossia la possibilità concreta di applicazione della pena prevista dall’ordinamento giuridico per il reato di specie da parte dello Stato[10].
Gli effetti propri della punibilità sono quelli di prevedere dunque in capo allo Stato la facoltà di punire mentre per il reo la assoggettabilità alla pena, quindi conseguenza del reato e non elemento costitutivo di esso; necessari, anche se talvolta non sufficienti, perché di punibilità possa parlarsi sono dunque la violazione di una qualsiasi norma del codice penale e soprattutto l’assenza di cause personali di esenzione della pena.
La teoria della estinzione della punibilità presta tuttavia il fianco ad opportune critiche nel momento in cui distingue una punibilità in astratto eliminata dalle cause di estinzione del reato da una punibilità in concreto nei confronti della quale operano le cause di estinzione della pena.

Nascendo la punibilità come conseguenza del reato è stato obiettato che la distinzione assume unicamente un carattere nominalistico lasciando immotivato l’interrogativo circa la domanda del perché alcune cause mantengano in vita alcuni effetti del reato lasciando ad altre il “compito” di estinguerli e non chiarendo inoltre il motivo di una trattazione non uniforme della punibilità stessa che si trasforma in una moltitudine di situazioni giuridiche alcune estinguibili contrariamente ad altre[11].
La legge prevede inoltre le cosiddette cause estintive della punibilità, cause speciali legislativamente disciplinate e distinte in due classi che possono, considerate nelle loro caratteristiche peculiari, estinguere il reato o la pena.
Gli effetti che tali cause estintive producono sono diversi poiché alcune di esse eliminano unicamente la pena principale, talvolta quelle accessorie; spesso tutti o alcuni degli effetti penali della condanna potendo anche generare una sospensione che solo in seguito si trasforma in estinzione al verificarsi di precise condizioni.
Legittimato a godere del beneficio dell’oblazione è naturalmente l’imputato.
Il problema sorge nel momento in cui quest’ultimo sia in particolari condizioni psico-fisiche o minore degli anni quattordici o diciotto.
Infatti qualora l’imputato non raggiunga i quattordici anni o sia infermo totale di mente la domanda per l’oblazione dovrà essere necessariamente avanzata dal rappresentante legale mentre il minore degli anni diciotto o l’infermo parziale di mente sono legittimati essi stessi a presentare domanda e nel caso in cui rifiutino legittimato sarà chi ne ha l’assistenza, anche contro la loro stessa volontà.

Facoltà di oblare è riconosciuta anche al concorrente nel reato e al contumace.
Per quanto riguarda il concorrente appare evidente quanto giusto riconoscergli il diritto all’oblazione quando risulti tale nel corso del dibattimento e potrà beneficiare di tale occasione quando comparirà per la prima volta in udienza, mentre il contumace dovrà non solo dimostrare di non conoscere l’esistenza del procedimento a suo carico ma anche la contestazione dell’avvenuta contravvenzione.
Per quanto riguarda le prospettive a quest’istituto da tempo è stata mossa la critica secondo cui l’oblazione soffrirebbe di “una manchevolezza organica ad estinguere l’azione penale ed a distruggere il reato, proprio un fatto mercè il quale l’autore riconosce e la sussistenza del reato stesso e l’obbligazione penale, che a suo carico deriva!”.
E’ stato osservato che tale opinione appare suscettibile di critiche poiché in primo luogo il reato è sottoposto ad una causa estintiva sempre in ragione del sentimento di giustizia imposto dalla legge e poi perché l’oblazione riconosce l’esigenza in pieno l’esigenza del legislatore penale in fatto di economia di giudizi.
Tuttavia spesso il legislatore “ dimentica” questa corrente di pensiero e commina sanzioni penali pecuniarie per punire reati la cui gravità è molto vicina a quella per le quali è disposta la depenalizzazione espandendo l’ambito di applicazione dell’oblazione almeno sul piano teorico.
Inoltre l’oblazione corre il rischio di essere contestata perché da molti ritenuta in contrasto con l’art. 27 comma 3 della costituzione (le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato).
Tuttavia l’ordinamento ha risposto a tale osservazione non solo nell’applicazione delle sanzioni interdittive e di controllo ma anche meramente pecuniarie ribadendo che “la pena nel nostro diritto è (…) frutto del compromesso tra le diverse necessità a cui lo Stato, come in ogni altro Stato moderno, sente di dover provvedere nella lotta contro il delitto, di cui la pena stessa continua e continuerà ad essere per tutto il complesso di ragioni e nonostante l’immancabile evoluzione storica, il mezzo principale”.
L’istituto dell’oblazione può dunque ancora rispettare il compito per il quale il legislatore ritenne opportuno legiferare mostrando addirittura un possibile allargamento della sfera di applicazione, come nel caso di delitti puniti unicamente con la multa, contribuendo così in maggior misura ad assottigliare il numero dei procedimenti penali pendenti.

Confermando ciò nonostante la necessità di rivalutare in maniera decisa le sanzioni visto che la pena pecuniaria rappresenta oggi l’equivalente tra il fatto commesso e l’atteggiamento di risposta dell’ordinamento penale al fatto compiuto e ritenuto criminale, deve dirsi che l’oblazione ha una sua precisa e ben definita collocazione giuridica anche in un momento dove si ricerca disperatamente l’esigenza di pene “alternative”, segno da molti ritenuto evidente della crisi del nostro sistema generale.
I limiti penali e temporali dell’oblazione
Il tribunale di Ravenna nel 2 agosto 1961 condannò il sig. Italo Monti, reo di aver posseduto copia del romanzo opera di Glenn Sire “I liberatori” per scopi commerciali recante in copertina immagini contrarie alla pubblica decenza[12], al pagamento di un’ammenda pari a lire 10.000: ricorrendo per Cassazione, l’imputato contestò la violazione dell’art. 475 n. 3 c. p. p.[13], in relazione all’art. 524 n. 3 stesso codice per mancanza e contraddittorietà di motivazione; violazione e inosservanza degli art. 162 c. p., 185 n. 3 c. p. p. in relazione ai nn. 1 e 3 dell’art. 524 e n. 5 dell’art. 539 stesso codice processuale; illegittimità costituzionale dell’art. 162 c. p. in relazione all’art. 24, II comma della Costituzione.
L’istituto dell’oblazione è stato oggetto di tale sentenza per due principali aspetti; uno di carattere costituzionale, quando ci si riferisce ad un contrasto tra l’art. 24 Cost. comma II (relativo all’inviolabilità della difesa in ogni stato e grado del procedimento) e l’art. 162 c. p. il quale prevede la possibilità di oblare unicamente prima dell’apertura del dibattimento o del decreto di condanna, e un altro di carattere strettamente processuale relativo alla possibilità di esercitare il diritto all’oblazione anche quando la fattispecie in oggetto non lo prevede espressamente ma venga considerato tale successivamente al decorso del termine di cui all’art. 162 c. p.
In entrambe le ipotesi l’oblazione è ammessa.
Tuttavia nel primo caso di fondamentale importanza è la legittimità del termine previsto dal codice penale mentre nel secondo il problema è rappresentato dal nomen juris precedente che non ne consentiva l’ammissibilità.
L’oblazione da sempre rappresenta un mezzo difensivo[14] con il quale l’imputato esercita una causa di estinzione del reato comportando la pronuncia di improcedibilità sul piano processuale; dunque il decorso del termine previsto dall’art. 162 c. p. non pregiudica il diritto alla difesa proprio della parte ma limita notevolmente l’applicazione dell’istituto.
L’art. 162 c. p. contiene un duplice termine sia in ordine all’emissione del decreto penale di condanna e sia in riferimento all’apertura del dibattimento che, come osserva autorevole dottrina[15], si riferisce non solo ai procedimenti ordinari ma anche quando adottata la procedura monitoria sia stata presentata opposizione.
In riferimento al decreto di condanna operano due termini, uno in vigore con la pronuncia del provvedimento stesso l’altro in conseguenza dell’opposizione che elimina il procedimento[16] prospettando uno scenario non molto diverso da quello del procedimento ordinario escluse le ipotesi di mancata comparizione dell’opponente.
Con ciò abbiamo fornito una risposta a quanti ritengono che per l’oblazione di reati giudicati per procedura monitoria si debba tener conto solamente del termine indicato dall’emissione del decreto e non quello dell’apertura del dibattimento: questa rappresenta una restrizione tanto illogica quanto inammissibile che conduce ad una interpretazione restrittiva dell’art. 162 c. p. che non opera distinzione tra dibattimento successivo a procedimento ordinario e dibattimento a seguito di opposizione al decreto.
Inoltre tale restrizione risulta negata dalla considerazione che l’apertura del dibattimento rappresenta un momento processuale della fase del giudizio e che proprio il dibattimento, non considerando la contumacia dell’opponente[17], si realizza con l’opposizione[18].

L’emissione del decreto di condanna ha dunque la funzione di termine preclusivo quando non intervenga un atto come l’opposizione che sostituisce il giudizio ordinario a quello speciale.
Si può allora affermare che alla parte può essere negata l’applicabilità dell’oblazione per effetto della preclusione di cui all’art. 162 c. p. se il termine di decadenza per l’esperibilità di tale istituto è riferito al momento processuale nel quale l’organo si appresta a giudicare in fatto e in merito: non sembra giusto quindi che chiunque non abbia esercitato tale diritto prima non possa poi farlo successivamente.
La Corte ha poi risposto in modo negativo al quesito circa l’ammissibilità dell’oblazione nei confronti di fatti inizialmente in suscettivi di oblazione e successivamente qualificati oblazionabili[19].
Sembrerebbe non potersi obiettare nulla a tale decisione; tuttavia la Corte di cassazione non ha sottolineato la completa assenza di un reato per il quale sia prevista l’oblazione.
L’art. 162 c. p. stabilisce infatti che l’applicabilità di tale istituto è riservata a casistiche ben precise sia dal punto di vista soggettivo (il contravventore) che oggettivo (le contravvenzioni per le quali la legge stabilisce…) escludendo ogni forma di utilizzo generica.
Quindi mancando il presupposto necessario per la sua attuazione la Corte non può escluderne il godimento a causa del mancato esercizio di colui al quale spettava.
Invece seguendo l’orientamento del Supremo Collegio l’imputato dovrebbe effettuare una duplice previsione; dovrebbe infatti calcolare il possibile mutamento del nomen juris e la formazione del nuovo reato (previsione da fare nel più totale buio giuridico) con la conseguente considerazione della sanzione prevista per questo.
Per di più se tutto questo non facesse perderebbe la possibilità di poter fare istanza di oblazione.
In sostanza si prospettano due principali ipotesi, l’una dell’improcedibilità del giudice tenuto a consentire l’oblazione per essersi trovato di fronte una situazione giuridica diversa, e l’altra per cui il mutamento del nomen juris non rimarrebbe tale ma configurerebbe una fattispecie verso la quale la parte avrebbe a sua volta potuto difendersi in modo diverso.

Entrambe le tesi, nessuna prevale infatti sull’altra, sono a sostegno del diritto di partecipazione della parte alla difesa e prevedono l’esperibilità dell’oblazione che ancora una volta si conferma non solo come mezzo deflattivo dell’apparato processuale penale, ma anche vero e proprio istituto difensivo.
L’oblazione e le pene accessorie

In riferimento ad una sentenza del 10 luglio 1935 del pretore di Savigliano con la quale fu condannato per commercio di olio di semi di arachide non addizionato col prescritto 5% di olio di sesamo a reazione cromatica[20] il contravventore presentò istanza di oblazione prima dell’apertura del dibattimento; il Pretore in risposta negò tale possibilità poiché “l’art. 162 c. p. ammette l’oblazione nelle contravvenzioni per le quali la legge stabilisce la sola pena dell’ammenda non superiore a diecimila lire. Quando la legge stabilisce anche una pena accessoria, l’ammenda non è più unica pena, per cui l’oblazione non è possibile. Per l’art. 19 terzo comma c. p. pena accessoria è la pubblicazione della sentenza penale di condanna. Il reato imputato, di cui ora si tratta, richiede non solo la pena pecuniaria stabilita dagli articoli 48 e 49 del R. D. 15 ottobre 1925 n. 2033 ma anche la pubblicazione della sentenza di condanna stabilita dall’art. 61 dello stesso R. D.
E’ manifesto che questa pubblicazione di sentenza di condanna è una pena accessoria, che pertanto impedisce l’oblazione”.
Questa la fattispecie e la motivazione addotta in sentenza dal Pretore con la quale respingeva le istanze del contravventore.
Tuttavia la difesa contestando le decisioni assunte dal pretore obbiettava che sotto l’impero del codice Zanardelli, al contrario di quanto accadeva nel 1925, la pubblicazione della sentenza di condanna non era prevista come pena; poteva essere ben considerata sanzione accessoria, ma non una pena.
Di conseguenza la pubblicazione accompagna unicamente una sentenza di condanna che in questo caso poteva essere evitata con l’accoglimento da parte del pretore della domanda del contravventore a godere del beneficio dell’oblazione.
Al rifiuto del pretore, il quale stabiliva che se anche il codice Zanardelli ancora non prevedeva la pubblicazione della sentenza come una vera e propria pena a questa, disposta d’ufficio, non poteva togliersi il carattere stesso di pena a tutti gli effetti seppur ignota al codice del 1889, il contravventore presentò ricorso in Cassazione contestando la violazione dell’art. 162 c. p. e la mancanza di considerazione della sua domanda di oblazione in violazione degli artt. 162 e 17 a 20 c. p.[21], 474 e 475 c. p. p.[22].
La Suprema Corte[23], cassando quanto deciso dal pretore, dichiarò che l’art. 162 c. p. non vieta la possibilità di oblare contravvenzioni cui alla pena pecuniaria è stato possibile aggiungere una pena accessoria, pur riconoscendo al contrario la limitazione per le contravvenzioni punite con la sola pena dell’ammenda in opposizione a quelle sanzionate con la pena detentiva.
Inoltre la stessa Corte con una analoga pronuncia[24] aveva cassato le decisioni del pretore di Gorizia dichiarando che per quanto riguarda l’istituto dell’oblazione la legge intende riferirsi unicamente a quelle principali e non accessorie le quali rappresentano una conseguenza della sentenza di condanna, evitabile proprio con l’oblazione.
Indubbiamente le persone che quotidianamente subiscono denuncie riguardo questo tipo di contravvenzioni ricevono un vantaggio sia di natura morale, evitando spiacevoli situazioni vergognose nei confronti della pubblica stampa, sia di natura economica poiché il contravventore in questo modo riesce ad evitare spese giudiziali, risparmia rispetto a quanto dovuto in caso di condanna con l’aggiunta di non veder il suo nome accompagnato ad una sentenza di condanna pubblicato in chissà quale mezzo di stampa.
Ambito e presupposti di applicazione dell’oblazione discrezionale
La norma che disciplina l’oblazione discrezionale dichiara l’applicabilità dell’istituto dell’oblazione ai reati contravvenzionali puniti con la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda non menzionati dall’art. 162, che riguarda unicamente le contravvenzioni sanzionate con l’ammenda[25].
Mentre infatti l’oblazione processuale prevista dall’art. 162 estende il proprio ambito di applicazione alle contravvenzioni non depenalizzate ai sensi degli art. 32 ss. della legge 24 novembre 1981, n. 689, e rappresenta un diritto soggettivo pubblico di carattere individuale proprio dell’imputato, l’oblazione contemplata nell’art. 162 bis resta invece vincolata alla valutazione discrezionale del giudice in relazione alla gravità del fatto richiamato dalla fattispecie penale[26].

La giurisprudenza è d’accordo nel ritenere che la domanda di ammissione al beneficio possa essere accolta nonostante il parere contrario del pubblico ministero, stabilendo l’art. 141 d.lg. 271 del 1989 che il p.m. esprima il suo parere ma non presti il suo consenso. Il giudice è tenuto ad indicare le ragioni a fondamento di un suo eventuale rifiuto della domanda di oblazione; presupponendo tale parere negativo il giudizio contrario anche del pubblico ministero, se quest’ultimo si limita nell’esposizione dei motivi a sostegno alla sola opposizione all’oblazione, il giudice è impedito di produrre una motivazione contraria[27].
I criteri di gravità del reato sono disciplinati dal comma 3 dell’art. 162 bis e indicati nella sussistenza della recidiva reiterata aggravata o dell’abitualità e professionalità nelle contravvenzioni in relazione agli art. 99, 104 e 105 c.p., nella permanenza delle conseguenze dannose o pericolose del reato eliminabili da parte del responsabile della contravvenzione.
Inoltre la giurisprudenza concorda nel ritenere che il metro di giudizio riguardo la gravità del reato debbano essere intese nel senso più ampio possibile dalle indicazioni dell’art. 133 comma 1[28].
Qualora la domanda di oblazione venga rigettata per la gravità del fatto, essendo tale causa prevista dall’art. 162 bis come una possibile di giustificazione del rigetto, la dottrina ritiene necessaria una specifica motivazione sulle ragioni di detta gravità.

Contrariamente quando il giudice accoglie la domanda, non essendoci il parere negativo del pubblico ministero circa la gravità del fatto, deve solamente dimostrare di aver esaminato accuratamente la fattispecie e di averne dedotto che “il fatto non risulta di gravità tale da costituire impedimento all’applicazione dell’oblazione”[29].
La giurisprudenza non sempre è stata concorde, per quanto riguarda l’individuazione dei reati oblabili, con l’operato dell’art. 127 della l. 689 del 1981 che ha ampliato l’ambito di applicazione dell’oblazione prevista dall’art. 162 bis ai reati indicati nella lettera g) (reati contravvenzionali sulla disciplina per gli alimenti per la prima infanzia e dei prodotti dietetici di cui alla l. 29 marzo 1951, n. 27), nella lettera h) (reati contravvenzionali concernenti l’inquinamento atmosferico), nella lettera ) (i reati contravvenzionali relativi all’impiego pacifico dell’energia nucleare di cui alla l. febbraio 964, n. 185 e l. 31 dicembre 1962, n. 186), nella lettera n) (reati contravvenzionali relativi alla prevenzione degli infortuni sul lavoro ed all’igiene sul lavoro)dell’art. 34 comma 1 l. 689 del 1981.
Inizialmente la Corte di Cassazione riteneva che l’art. 127 della l. 689 del 1981, in relazione all’art. 34 l.c., prevede in modo assolutamente non equivoco i reati ai quali è applicabile l’oblazione i cui all’art. 126 (che ha introdotto l’art. 162 bis); tra tali reati non compaiono tuttavia quelli contemplati dalla l. 319 del 1976 sulla tutela delle acque dall’inquinamento, con la conseguenza di doverli ritenere esclusi dal beneficio dell’oblazione[30].
Successivamente l’orientamento della Suprema corte muta, adeguandosi alla prevalente giurisprudenza di merito, in modo tale da ritenere che le disposizioni di cui all’art. 127 l. 689 del 1981 sona da considerare nel senso che le contravvenzioni ivi disciplinate sono da ritenere oblabili solo in seguito al positivo esercizio del potere discrezionale del giudice, anche se sanzionabili con la sola ammenda; mentre al tempo stesso nessuna norma esclude che i reati previsti nelle altre lettere nel medesimo articolo possano essere estinti mediante oblazione di cui agli art. 162 e 162 bis a seconda delle pene astrattamente previste [31].
Nella stessa direzione è stato stabilito che l’art. 127 l. 24 novembre 1981, n. 689, in base alla quale le disposizioni di cui all’art. 162-bis si applicano anche ai reati indicati nelle lettere f), h), ), n) del comma 1 dell’art. 34, deve essere interpretato nel senso della applicabilità della sola oblazione “discrezionale” a questi reati, anche se punibili con la sola ammenda, anziché dell’oblazione ordinaria di cui all’art. 162.
Tuttavia una parte della dottrina ha ritenuto che una tale scelta delle contravvenzioni destinate ratione materiae all’oblazione più onerosa prevista dall’art. 162 bis sia del tutto arbitraria, almeno nel diritto del lavoro, poiché introdurrebbe disparità di trattamento rispetto a casi di analoga importanza.[32]
Per quanto riguarda invece le violazioni tributarie, a seguito dell’entrata in vigore della l. 7 agosto 1982, n. 516, la quale prevedeva numerose ipotesi contravvenzionali astrattamente assimilabili al dato normativo di cui all’art. 162-bis, la giurisprudenza non ha preso una stabile posizione oscillando il suo giudizio continuamente; un intervento delle Sezioni unite della Cassazione ha successivamente risolto il problema.

In primo luogo infatti la giurisprudenza ha ritenuto possibile l’oblazione discrezionale nell’ambito delle contravvenzioni tributarie sanzionate con pene alternative[33] sulla base del tenore generale dell’art. 162-bis, e conseguentemente dell’applicabilità dello stesso alle contravvenzioni sanzionate con pene alternative; sia quando le fattispecie criminose sono previste dal codice penale che da leggi speciali.
Un altro indirizzo giurisprudenziale ha invece sottolineato l’inapplicabilità dell’oblazione “discrezionale” alle violazioni tributarie, sulla scorta dell’applicazione del principio di specialità tra le norme di cui agli art. 13 e 14 l. 4 del 1929 e 162-bis [34].
In merito sono intervenute le Sezioni unite[35] le quali hanno ritenuto l’applicabilità dell’art. 162-bis anche nel caso di violazione finanziaria.
Più precisamente le Sezioni unite hanno riconosciuto un’identità di ratio tra la norma generale prevista dal codice e quella di cui alla legge speciale, sottolineando che entrambe sono finalizzate alla “deprocessualizzazione” della fattispecie mediante un rapido congedo dell’imputato dal sistema penale e l’assenza di operatività del principio di specialità in tale materia.

E’ una conclusione che deriva dall’accertamento, in primo luogo, dell’abrogazione sopraggiunta del principio di “fissità” determinato per le leggi finanziarie dall’art. della l. 7 gennaio 1929, n.4, e, in secondo luogo, che l’oblazione prevista dall’art. 14 della l.c. riguarda solamente le contravvenzioni finanziarie sanzionate con la sola pena pecuniaria, mentre invece quella disciplinata dall’art. 162-bis ha ad oggetto tutte le contravvenzioni punite con pena alternativa; di conseguenza, escludendo ogni possibile ipotesi di conflitto tra le due norme, l’applicazione del principio di specialità determinato dall’art. 15 del c.p. risulta sostanzialmente improponibile[36].
La giurisprudenza non è concorde per la concreta applicabilità dell’art. 162-bis in relazione al concetto dell’avvenuta eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato da parte del contravventore.
Per quanto riguarda le contravvenzioni tributarie, infatti, si ritiene necessario il preventivo pagamento del tributo evaso dal contravventore, mentre in altri casi l’evasione non costituisce l’evento dannoso previsto dalla norma.
Sia in dottrina che in giurisprudenza si è discusso in merito al regime applicabile alle ipotesi di reato punite con la pena alternativa unicamente nelle forme aggravate, poiché dalla tipologia della contestazione deriva il parere sull’ammissione al beneficio di oblare.

Un primo orientamento ha ritenuto che per le contravvenzioni punite necessariamente con l’arresto sia necessario operare una distinzione con riferimento al caso in cui la circostanza aggravante sia determinata tassativamente dal legislatore, ad esempio il caso previsto dall’art. 669 comma 3 c.p., in cui ci si dovrebbe attenere alla regola della contestazione, rispetto al caso l’applicabilità di una pena diversa sia diretta conseguenza della presenza di un’aggravante indefinita”, fatto ostativo dell’ammissibilità all’oblazione ab origine.
In questa seconda ipotesi l’applicazione della pena detentiva al posto di quella pecuniaria deriverebbe unicamente da un giudizio riferito alla gravità accertata dal giudice in concreto e non con riferimento alla contestazione originaria[37].
Un’altra parte della dottrina contrariamente ritiene che questa diversificazione rispetto al termine entro cui deve essere presentata la domanda di ammissione al beneficio sanerebbe un difetto del diritto di difesa, non escludendo che in qualsiasi caso originariamente in base alla contestazione possa essere non prevedibile la presenza di una circostanza aggravante[38].

La giurisprudenza ha successivamente escluso la possibilità di godere del beneficio dell’oblazione “discrezionale” per quei reati che diverrebbero oblazionabili quoad poenam, in presenza di una circostanza attenuante indefinita, più precisamente nel caso in cui sia possibile ipotizzare la presenza dell’attenuante ad effetto speciale della “lieve entità”.
In questo caso l’applicazione del regime sanzionatorio più lieve deriva da un giudizio di
merito ad opera del giudice[39].
Più precisamente nella fattispecie prevista dall’art. 4 commi 2 e 3, della l. 110 del 1975, sanzionata sia con la pena detentiva dell’arresto che con quella pecuniaria dell’ammenda, è stato osservato che il fatto di lieve entità previsto dalla seconda parte del comma 3 non costituisce un’ipotesi autonoma di reato, ma circostanza attenuante speciale.
In questo caso non si applica l’oblazione discrezionale di cui all’art. 162 bis neanche quando ricorra la circostanza attenuante[40].
La Corte costituzionale ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 162, 162-bis c.p. e 604 c.p.p. oltre agli artt.126 e 137 l. 689/81, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, quando dispongono che la sentenza che dichiara estinto il reato in seguito ad oblazione deve essere iscritta nel casellario giudiziario, se oggetto della pronuncia è una contravvenzione punibile con la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda, mentre non è iscritta se la contravvenzione è punibile con la sola ammenda; non vi è identità per le situazioni regolate poiché la iscrivibilità della sentenza nel primo caso a differenza della contravvenzione oblata, sanzionata unicamente con l’ammenda, è giustificata dalla maggior gravità della pena edittale e per il diverso ruolo dell’intervento del giudice (sentenza costitutiva in un caso, dichiarativa nell’altro)[41].
La Corte costituzionale ha inoltre ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata, riguardo all’art. 3 della Costituzione, dell’art. 162-bis nella parte n cui non prevede l’applicazione dell’istituto ai delitti puniti con la sola pena della multa.
La Corte ha stabilito che prevederne o meno l’estinzione per oblazione rientra nel potere discrezionale del legislatore; questa discrezionalità appare essere esercitata in modo del tutto razionale [42].
Analogamente la Corte ha giudicato manifestamente inammissibile la questione sollevata con riferimento all’esclusione dei delitti puniti con la pena alternativa della reclusione e della multa dall’applicazione dell’istituto in esame, richiamando in questo caso le sentenze n. 148 del 1984[43] e 350 del 1985[44] e l’ordinanza n. 267 del 1986[45].

Una parte della dottrina meno recente ritiene che il contravventore, nel caso di oblazione discrezionale, è tenuto a corrispondere contestualmente alla domanda, una somma pari alla metà del massimo della pena pecuniaria prevista.
E’ considerata inammissibile la domanda qualora il deposito della somma in questione o la
somma stessa venga depositata tardivamente[46].
La giurisprudenza successivamente si è orientata nel ritenere che il legislatore delegato del 1989 abbia avuto intenzione di stilare una disciplina generale del procedimento di oblazione[47], in base alla quale il giudice, accolta la domanda di oblazione, determina la somma da versare.
Precisamente al caso di annullamento con rinvio di ordinanza con la il g.i.p. dichiarava inammissibile l’opposizione, ed esecutivo il decreto, per non aver l’imputato versato la somma corrispondente alla metà del massimo dell’ammenda prevista, la Corte di cassazione ha sottolineato la mancanza di coordinamento tra l’art. 162-bis c.p. e il comma 4 dell’art. 141 disp. att. c.p.p. Infatti, ritiene la Corte, seppur vero che il contravventore deve depositare una somma corrispondente alla metà del massimo dell’ammenda prevista, è altrettanto vero che se il giudice ammette la domanda di oblazione deve fissare la domanda da versare, dandone avviso all’interessato; da questo deriva che in virtù dell’art. 15 disp. prel. c.c., lex posterior derogat priori, la prima norma deve giudicarsi abrogata [48].
Inoltre è stato sottolineata come unica condizione processuale imposta dall’art. 162-bis c.p. il deposito di una somma pari alla metà del massimo dell’ammenda prevista; non necessariamente le spese relative al processo[49].
Le problematiche legate all’applicabilità della norma anche nel caso delle contravvenzioni commesse in un tempo antecedente all’entrata in vigore della l. 689 del 1981 sono ormai superate.
La Corte di cassazione ha dichiarato che la disposizione dell’art. 126 della l. 24 novembre 1981, n. 689 che introduce l’art. 162-bis, non era applicabile a quei procedimenti che, al momento dell’entrata in vigore della legge, fossero oltre l’inizio della discussione finale del dibattimento di primo grado[50].
Tuttavia la dottrina ritiene che tale orientamento possa ritenersi valido solamente nel momento in cui venga riproposta istanza di oblazione precedentemente respinta per motivi riguardanti la gravità del fatto[51].
La giurisprudenza si divide sulla possibilità di ammettere l’oblazione nella fase delle indagini preliminari.
Negando tale possibilità si è ritenuto che il tono dell’art. 162-bis, il quale stabilisce la facoltà di oblare nella fase compresa tra gli atti preliminari al dibattimento di primo grado e la chiusura del dibattimento stesso, consente di ritenere che anche in questa ipotesi di estinzione del reato sia valido lo stesso principio che riguarda l’oblazione di cui all’art. 162, cioè l’impossibilità di applicazione nella fase delle indagini preliminari.
Poiché unicamente il giudice della cognizione piena può compiere determinate valutazioni di merito previste dai commi 3 e 4 dello stesso art. 162-bis [52].
L’ideologia positiva ha invece ritenuto di dover accogliere la possibilità di poter oblare ex art. 162-bis anche prima della fase degli atti preliminari al dibattimento, perché il contenuto dell’articolo in questione non prevede un termine iniziale, ma unicamente finale oltre il quale si decade dalla possibilità di poter usufruire del beneficio[53].
L’art. 162-bis comma 3 prevede le ipotesi nelle quali l’oblazione non può essere ammessa, per motivi oggettivi quanto soggettivi.
La giurisprudenza ha affermato attraverso numerose pronunce che l’esclusione dal godimento del beneficio dell’oblazione “discrezionale” non può essere determinata dall’attribuzione di una normale qualifica soggettiva come la declaratoria di abitualità o professionalità nella contravvenzione e la contestazione espressa della recidiva[54], quanto semmai alla presenza dei dati normativi e fattuali che consentono tale dichiarazione[55], preceduti dalla ricognizione di tale status soggettivo desumibile dal certificato penale[56].
E’ stato inoltre precisato che la nuova disciplina della recidiva, prevista dalla l. 7 giugno 1974, n. 220, ha dichiarato unicamente la facoltatività dell’aumento di pena e non di tutti gli altri effetti penali riconducibili alla recidiva stessa; di conseguenza la presenza della condizione di recidiva reiterata crea un ostacolo all’ammissibilità dell’oblazione di cui all’art. 162-bis[57].
La dottrina ha sollevato obiezioni circa l’applicabilità della declaratoria di abitualità nelle contravvenzioni e della professionalità nel reato, che non derivano mai da una presunzione normativa ma unicamente da un accertamento del giudice, basato su elementi strettamente oggettivi, come la natura e la gravità dei reati, il tempo nel quale sono stati commessi e in genere sulla cosiddetta capacità a delinquere del soggetto, fondati sulla condotta e sul genere di vita del colpevole.
E’ tuttavia indiscusso che la sentenza che dichiara estinto il reato per intervenuta oblazione non ha comunque effetti su una possibile declaratoria di recidiva, abitualità, professionalità del reato.
In base all’art. 106 comma 2, infatti, le sentenze attraverso le quali è stata applicata una causa estintiva del reato che estingue anche gli effetti penali della condanna non vengono tenute di conto.[58]
Le preclusioni oggettive invero riguardano tutte alla gravità del fatto per il quale si procede e sono disciplinate dalla norma in questione ai commi 3 e 4.
L’oblazione non è ammessa quando sussistono le condizioni dannose o pericolose del reato eliminabili da parte del contravventore.
La giurisprudenza ha sottolineato tuttavia che la permanenza di conseguenze dannose o pericolose eliminabili da parte del reo risulta essere condizione ostativa per l’imputato di poter beneficiare dell’oblazione di cui all’art. 162-bis; il giudice quindi è tenuto ad accertare, anche d’ufficio, se l’ostacolo non esista, o venga meno, spiegando il suo convincimento con una motivazione, prima di ammettere l’imputato all’oblazione.

Note:
[1] Così il codice penale articoli 162 e 162-bis: “Nelle contravvenzioni, per le quali la legge stabilisce la sola pena dell’ammenda, il contravventore è ammesso a pagare, prima dell’apertura del dibattimento, ovvero prima del decreto di condanna, una somma corrispondente alla terza parte del massimo della pena stabilita dalla legge per la contravvenzione commessa, oltre le spese del procedimento.
Il pagamento estingue il reato.
Nelle contravvenzioni per le quali la legge stabilisce la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda, il contravventore può essere ammesso a pagare, prima dell’apertura del dibattimento, ovvero prima del decreto di condanna, una somma corrispondente alla metà del massimo dell’ammenda stabilita dalla legge per la contravvenzione commessa oltre le spese del procedimento.
Con la domanda di oblazione il contravventore deve depositare la somma corrispondente alla metà del massimo dell’ammenda.
L’oblazione non è ammessa quando ricorrono i casi previsti dal terzo capoverso dell’articolo 99, dall’articolo 104 o dall’articolo 105, né quando permangono conseguenze dannose o pericolose del reato eliminabili da parte del contravventore.
In ogni altro caso il giudice può respingere con ordinanza la domanda di oblazione, avuto riguardo alla gravità del fatto.
La domanda può essere riproposta sino all’inizio della discussione finale del dibattimento di primo grado.
Il pagamento delle somme indicate nella prima parte del presente articolo estingue il reato.
[2] Codice di procedura penale, art. 464 comma 2, “il giudice, se è presentata domanda di oblazione contestuale all’opposizione, decide sulla domanda stessa prima di emettere i provvedimenti a norma del comma 1.
[3] In tali artt. la Cost. oltre a stabilire l’obbligo per il pubblico ministero di esercitare l’azione penale, garantisce anche “l’indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali, del pubblico ministero presso di esse, e degli estranei che partecipano all’amministrazione della giustizia”.
[4] BETTIOL, In tema di antinomie penalistiche, in BETTIOL, Scritti giuridici, II, Padova, 1966, 1029.
[5] SANTORO, voce Estinzione del reato e della pena (Diritto penale comune), Novissimo Digesto Italiano, vol. I, Torino, 1961, pag. 991.
[6] PESSINA, Relazione al Senato sul progetto del Codice Penale del 1889; RENDE e MALGERI, L’oblazione volontaria nel Codice Penale e nelle leggi speciali, Milano, 1912, pag. 9; ROCCO, Trattato della cosa giudicata come causa di estinzione dell’azione penale, vol. II, Modena, 1904, pag. 315.
[7] Così l’Autore in Trattato di diritto penale italiano, vol. III, 1961, pag. 602.
[8] MANZINI, op. cit., pag. 604; PANNAIN, Manuale di diritto penale, vol. I, Torino, 1962, pag. 882; MAZZANTI, Contestazione di un delitto e possibilità di oblazione , in Riv. it. dir. e proc. pen., 1962, 625.
[9] RAMACCI, Corso di diritto penale II reato e conseguenze giuridiche, Giappichelli editore, Torino, 1993.
[10] In tema, ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, parte generale, Giuffrè editore, Milano, 1997.

[11] RAMACCI, op. cit., pag. 326.
[12] Art. 725 c. p., “Chiunque espone alla pubblica vista o, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, offre in vendita o distribuisce scritti, disegni o qualsiasi altro oggetto figurato, che offenda la pubblica decenza, è punito con l’ammenda da lire ventimila a due milioni”.
Il libro presentava una sovracoperta in carta patinata contenente il titolo dell’opera stampato a due colori (le prime sillabe: “I libera…” in colore bianco, e le ultime sillabe: “i tori”, in colore rosso), nonché la immagine di un essere maschile senza volto nell’atto di ghermire una donna nuda. La sovracopertina era a sua volta accompagnata da una fascetta orizzontale mobile, portante la scritta: ”…distruggevano e violentavano per sentirsi eroi…”. A parere del giudice di merito, il frazionamento del titolo in due monconi, con sottinteso richiamo alla impetuosa maschilità dei “tori”, e la immagine stilizzata del maschio nell’atto di stringere a se una donna nuda costituivano- dal punto di vista obiettivo-una condotta sconveniente con parallela offesa del bene giuridico della pubblica decenza; quindi l’applicabilità della norma incriminatrice ex art. 725 c. p.
[13] Così il c. p. p. all’art. 475 n. 3, “L’imputato allontanato può essere riammesso nell’aula di udienza, in ogni momento, anche di ufficio. Qualora l’imputato debba essere nuovamente allontanato, il giudice può disporre con la stessa ordinanza che sia espulso dall’aula, con divieto di partecipare ulteriormente al dibattimento se non per rendere le dichiarazioni previste dagli artt. 503 e 523 comma 5”.
[14] In tal senso, AA. VV., Mutamento del titolo del reato e conseguente diritto di oblazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1958, 46 ss.; tale indirizzo è stato condiviso anche dalla Cass., 11 luglio 1958, in Giust. pen. 1958, III, 827 ss.
[15] Cfr., SABATINI GIUS., Trattato dei procedimenti speciali e complementari nel processo penale, 1956, p. 94; SABATINI GU., Istituzioni di diritto penale, 1946, III, p. 102; VANNINI, Manuale di diritto processuale penale italiano, 1956, p. 170; SALTELLI-ROMANO, Commento teorico-pratico del nuovo codice penale, 1940, II, p. 304; Cass. 12 marzo 1951, Mass. pen., 1951, 933; id. 17 febbraio 1944, Giur. compl. Cass. pen., 1944, 65; id. 2 marzo 1942, Riv. dir. penit., 1942, 656; id. 6 luglio 1942, Giust. pen., 1943, II, 76; id. 26 maggio 1942, ivi, 1943, II, 199.
Contra BELLAVISTA, Il processo penale monitorio, 1938, p. 119.
[16] Per tutti, SABATINI GIUS., Trattato dei procedimenti speciali, cit. pg. 61 ss. L’Autore precisa come, una volta eliminata la situazione derivante dall’emissione del decreto penale, il processo riprende il suo corso dall’opposizione con la fase del giudizio di primo grado, in quanto l’emissione del decreto è considerata dalla legge non più come atto conclusivo di una sua fase, cioè della fase istruttoria.
[17] Per la mancata comparizione e i suoi effetti, Corte cost. 18 marzo 1957 con nota di CONSO, Anticostituzionalità dell’art. 510, comma 1 c.p.p., in Riv. dir. proc. pen., 1957, 373; SABATINI, Trattato, cit., p. 95; BELLAVISTA, Voce decreto penale, in Noviss. Dig. It., 1960, 305; LEONE, Trattato di diritto processuale penale, 1961, II, p. 483; VASSALLI, Sulla mancata comparizione dell’imputato come rinuncia all’opposizione, in Giur. Costit., 1957, 596; MASSA, La mancata presentazione dell’opponente all’udienza, in Riv. dir. proc. pen., 1957, 517; MANZINI, Trattato di diritto processuale penale italiano, 1956, IV, pg. 286.
[18] Sulla natura dell’opposizione cfr., LEONE, Trattato, cit., II, pg. 474 ss.; BELLAVISTA, voce Decreto penale, cit. pg 303; MANZINI, Trattato, cit., IV, p. 283, per i quali essa costituisce un mezzo d’impugnazione. In senso diverso DELITALA, Il divieto della reformatio in peius nel processo penale, 1927, pg. 11 il quale configura l’opposizione come la ricusazione di un giudizio svoltosi senza contraddittorio (sulla stessa linea si muove il SANTORO, Manuale di diritto processuale penale, 1954, p. 616), mentre il SABATINI GIUS., Trattato, cit. pg. 61, la qualifica “procedimento introduttivo”, diretto alla reintroduzione dell’esercizio “normale dell’azione penale con l’impedire che si consolidi la situazione processuale prodottasi con l’emissione del decreto”.
[19] Nello stesso senso cfr., Cass. 14 marzo 1958, in Giust. pen., 1958, II, 769. A diversa soluzione era, invece, in precedenza giunta la giurisprudenza con decisioni della Cass. 16 maggio 1939, in Annali, 1939, 397; id. 23 maggio 1935, in Giust. pen., 1936, III, 543; id. 21 novembre 1956, in Mass. pen., 1957, n. 40; Trib. Trento 6 marzo 1956, in Giur. it., 1956, II, 225.
[20] Contravvenzione all’art. 1 terzo comma R. D. L. 30 dicembre 1929 n. 2316 e sanzionata dagli articoli 48, 49, e 61 R. D. 15 ottobre 1925 n. 2033.
[21][21] Così l’art. 17 c. p., “Le pene principali stabilite per i delitti sono: la morte, l’ergastolo, la reclusione, la multa. Le pene principali stabilite per le contravvenzioni sono: l’arresto, l’ammenda.
Così l’art. 18 c. p., “Sotto la denominazione di pene detentive o restrittive della libertà personale la legge comprende: l’ergastolo, la reclusione e l’arresto. Sotto la denominazione di pene pecuniarie la legge comprende: la multa e l’ammenda.
Così l’art. 19 c. p., “Le pene accessorie per i delitti sono: l’interdizione dai pubblici uffici, l’interdizione da una professione o da un’arte, l’interdizione legale, l’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese, l’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione, la decadenza o la sospensione dall’esercizio della potestà dei genitori. Le pene accessorie per le contravvenzioni sono: la sospensione dall’esercizio di una professione o di un’arte, la sospensione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese. Pena accessoria comune ai delitti e alle contravvenzioni è la pubblicazione della sentenza penale di condanna. La legge penale determina gli altri casi in cui le pene accessorie stabilite per i delitti sono comuni alle contravvenzioni.
Così l’art. 20 c. p., “Le pene principali sono inflitte dal giudice con sentenza di condanna; quelle accessorie conseguono di diritto alla condanna, come effetti penali di essa.
[22] Così l’art. 474 c. p. p., “L’imputato assiste all’udienza libero nella persona, anche se detenuto, salvo che in questo caso siano necessarie cautele per prevenire il pericolo di fuga o di violenza.
Così l’art. 475 c. p. p., “L’imputato che, dopo essere stato ammonito, persiste nel comportarsi in modo da impedire il regolare svolgimento dell’udienza, è allontanato dall’aula con ordinanza del presidente. L’imputato allontanato si considera presente ed è rappresentato dal difensore. L’imputato allontanato può essere riammesso nell’aula di udienza, in ogni momento, anche di ufficio. Qualora l’imputato debba essere nuovamente allontanato, il giudice può disporre con la stessa ordinanza che sia espulso dall’aula, con divieto di partecipare ulteriormente al dibattimento se non per rendere le dichiarazioni previste dagli artt. 503 e 523 comma 5.
[23] Corte di Cassazione, I sezione penale, 12 febbraio 1936.
[24] Al riguardo, Giust. pen., Codice, 1935, 1388, 527.
[25] V. Cass., 25 maggio 1996, Piras, C.E.D. Cass., n. 204671; Cass., 7 marzo 1996, Zagari, ivi, n.204063
[26] In giurisprudenza, sul punto, v. Cass., 18 febbraio 1986, Cass. pen. 1987, 1522; in dottrina, in relazione alla differenza di struttura e funzione dei due istituti, v. CADOPPI, Oblazione “vecchia” e “nuova” e principi costituzionali, in Riv. it. dir. e proc. pen. 1983, 178; PANARIA, Questioni di diritto penale dell’economia. L’art. 162 bis del codice penale nella prospettiva di alcune leggi speciali, in Rass. Trib. 1987, I, 135.
[27] In merito, Cass., 8 marzo 1993, C.E.D. Cass., n.194161.
[28] V. Cass., 25 febbraio 1992, Proni, Riv. giur. it., voce Oblazione nelle contravvenzioni, 1992, n.7, 2905; in dottrina, sulla nozione di fatto come comprensiva della dimensione soggettiva e oggettiva del reato NUVOLOSE, I limiti taciti della norma penale,Prilla, 1947, 10, 37, 45.
[29] Si veda Cass., 8 marzo 1993, Capitani, C.E.D. Cass., n. 194162.
[30] V. Cass., 27 maggio 1983, Girotti, Cass. pen. 1985, 369, con nota contraria di RAMPIONI, Inquinamento idrico, oblazione ex art. 162-bis c.p. e permanenza delle conseguenze dannose o pericolose del reato; MUCCIARELLI, L’istituto dell’oblazione ex art. 162- bis c.p. in due sentenze della Corte di Cassazione: qualche rilievo critico.
[31] V. Cass., 6 marzo 1984, Coppo, Cass. pen. 1985, 1101.
[32] PADOVANI, Diritto penale del lavoro, Giuffrè, 1983, 290.
[33] In tema, Cass., 22 aprile 1985, Critelli, Giur. it. 1986, II, 222; Foro it. 1986,II, 11, con nota di BOSCHI; in senso contrario, DELL’ANNO, In tema di oblazione delle contravvenzioni tributarie a norma dell’art. 162-bis c.p., in Giust. pen. 1986, III, 134; in dottrina, CADOPPI, Punti di tangenza fra due novità: oblazione di cui all’art. 162-bis c.p. e le nuove contravvenzioni tributarie, in Riv. it. dir. e proc. pen. 1984, 1160; DI DIO, L’oblazione nel diritto penale tributario, in Riv. pen. 1986, 137.
[34] V. Cass. 7 ottobre 1986, Zottino, Foro it. 1987, II, 144; Cass., 9 marzo 1987, Del Rito, Cass. pen. 1987, 1830; Cass., 24 marzo 1987, Aldegheri, ivi, 1988, 1278; in dottrina sul punto, DELL’ANNO, Ancora sull’inammissibilità dell’oblazione in materia di contravvenzioni alla normativa tributaria penale punita con pena alternativa, in Giust. pen. 1987, II, 271; DI DIO, Non più oblazionabili le contravvenzioni tributarie ounibili con pene alternative, Riv. pen. 1987, 430; MUCCIARELLI, Oblazione ex art. 162-bis c.p. e contravvenzioni tributarie ounite con pena alternativa: una nuova e discutibile sentenza della Corte di cassazione, ivi 1986, 1350.
[35] Sezioni Unite, 21 maggio 1988, Meneghin, Cass. pen. 1988, 1555.
[36] V. Cass., 24 maggio 1988, Stefanuto, C.E.D. Cass. n. 178700.
[37] In dottrina, MAZZA, voce Oblazione volontaria, in Enc. dir., vol. XXIX, Giuffrè, 1979, 562; in giurisprudenza v. Cass., 12 maggio 1986, Bellemo, Riv. pen. 1987, 507.
[38] BELLAVISTA, In tema di termini per la presentazione della domanda di oblazione, Riv. pen. 1992, 823.
[39] In merito v. Cass., 17 giugno 1994, De Marco, C.E.D. Cass., n. 199733; Cass., 21 gennaio 1992, Allegrucci, Cass. pen. 1993, 658.
[40] In riferimento la Cassazione ha pronunciato il 13 giugno 1999, Maggiore, C.E.D. Cass., n. 212775; Cass., 25 ottobre 1996, ivi, n. 206736; Cass., 22 gennaio 1996, Ferravamo, ivi, n. 203802; Cass. 3 novembre 1992, Gilistro, ivi, n. 194365.
[41] Per tutte Cass., 13 aprile 1983, Vezzali, Cass. pen. 1984, 2430, con nota di ROMEO, Oblazione speciale e iscrizione nel casellario: un problema di interpretazione risolto ed una questione di legittimità costituzionale ancora aperta, in Cass. pen. 1984.
[42] Corte cost., 12 novembre 1987, n. 462, Rubino, Giur. cost. 1987, I, 317; Foro it. 1988, I, 3156.
[43] V. Corte cost., 24 maggio 1984, n. 148, Foro it. 1984, I, 1444.
[44] V. Corte cost., 17 dicembre 1985, n. 350, ivi, 1986, I, 3 con nota di LA GRECA.
[45] V. Corte cost., 15 dicembre 1986, n. 267, Giur. cost. 1986, I, 2185.
[46] Tesi sostenuta dalla Cass., 27 ottobre 1995, Di Martino, Giur. it. 1997, II, 164; Cass., 30 marzo 1994, Ibbadu, C.E.D. Cass., n. 198606.
[47] Ricavabile dalla rubrica del capo decimo e dell’art. 141 disp. att. c.p.p.
[48] V. Cass., 26 settembre 1997, Di Ceno, C.E.D. Cass., n. 209365; Cass., 19 dicembre 1997, Gulli, Cass. pen. 1999, 871; Cass., 14 ottobre 1999, Tomasi, C.E.D. Cass., n. 214838; contra, Cass., 12 maggio 1999, Noleno, ivi, n. 214067; in dottrina per tutti, SELVAGGI, Commentario Chiavario, in La normativa complementare, (art. 14 att.), vol. I, 1992, 531.
[49] Ad esempio, Cass., 10 aprile 1997, Rettondini, C.E.D. Cass., n. 208690.
[50] V. Cass., 26 novembre 1983, Cordaro, Cass. pen. 1984, 2415.
[51] Tesi sostenuta in dottrina da MUCCIARELLI, in Dolcini-Mucciarelli-Paliero-Riva-Crugnola, Commentario delle “Modifiche al sistema penale”, Giuffrè, 1982, 5299.
[52] V. Cass., 26 novembre 1983, Cordaro, cit.
[53] V. Cass., 22 aprile 1985, Cristalli, Riv. pen. 1986, 1073.
[54] In tal senso, v. Cass. 15 giugno 1990, Cipolla, Riv. pen. 1991, 279.
[55] V. Cass., 28 settembre 1994, Casentino, C.E.D. Cass., 199166; Cass., 18 marzo 1993, Mughetto, Riv. pen. 1993, 1110; Cass., 22 ottobre 1992, Petri, ivi, 1993, 891.
[56] Così la Cass., 18 settembre 1992, Petrì, C.E.D. Cass., n. 192077.
[57] V. Cass., 20 maggio 1993, Mighetto, ivi, n. 195128.
[58] In dottrina, STORTONI, Estinzione del reato e della pena, in Dir. pen. 1990, IV, 342.