conseguenze denuncia per truffa

Conseguenze denuncia per Truffa
La Truffa è tra i reati maggiormente conosciuti anche da coloro che nella vita non si occupano di questioni di giustizia, e di frequente nelle Aule di Tribunale si assiste alla celebrazione di processi per tale reato: ma quali sono le conseguenze e i rischi di una denuncia per il reato di Truffa ?

Con il delitto di Truffa viene punito il soggetto che, con artifici e raggiri, abbia ingannato la vittima del reato, inducendola in errore al fine di procurare per sé o altri un ingiusto profitto (solitamente un atto di disposizione patrimoniale indebito da parte della persona offesa).

E’ bene premettere che il reato di Truffa “semplice” (ovvero senza la presenza di circostanze aggravanti) è procedibile a querela di parte, motivo per cui una semplice denuncia (atto ben differente dalla querela) non porterà neanche all’instaurazione di un procedimento penale.

Qualora invece il reato di Truffa si presenti in forma aggravata (da una circostanza specificamente dettata per tale reato dall’art. 640 del Codice penale o da una circostanza cosiddetta “comune”) sarà procedibile d’ufficio, e quindi la denuncia per Truffa avrà come conseguenza l’apertura di un procedimento penale a carico dell’accusato.

Terminate le indagini preliminari il Pubblico Ministero potrà citare a giudizio il responsabile per rispondere del reato in oggetto: il processo penale si svolgerà innanzi al Giudice monocratico del Tribunale penale competente in relazione al luogo di commissione del reato.

Anche a livello di pena applicabile al colpevole le conseguenze e i rischi di una denuncia per Truffa variano in relazione alla presenza o meno delle aggravanti speciali previste dall’art. 640 del Codice penale; per il caso di Truffa “semplice” (non aggravata) o aggravata da circostanze di natura comune (quelle dettate dall’art. 61 del Codice penale per tutti i reati), la pena applicabile sarà la reclusione da sei mesi a tre anni e la multa da Euro 51 a Euro 1.032.

Invece, per le ipotesi di truffa aggravata dalle specifiche circostanze di cui al capoverso dell’art. 640 del Codice penale, la pena prevista è quella della reclusione da uno a cinque anni e della multa da Euro 309 a Euro 1.549.

Tra le possibili conseguenze di una denuncia per il reato di Truffa vi è la possibilità di essere condannati (solo nel caso in cui la vittima del reato di costituisca parte civile nel processo penale e l’imputato venga riconosciuto colpevole del delitto di Truffa) al risarcimento dei danni cagionati alla persona offesa con il reato commesso.

Nella maggior parte dei casi si tratta quanto meno della restituzione delle somme indebitamente erogate a causa del reato di truffa (ovvero l’ingiusto profitto conseguito dal reo) oltre alla liquidazione di una somma a titolo di ristoro dei danni di natura non patrimoniale (cosiddetto danno morale) subito dalla vittima del reato.

denuncia per calunnia cosa si rischia

Spesso la persona che sappia di aver ricevuto una denuncia per calunnia si chiede quali rischi corra, e quali possano essere le conseguenze di tale evento, anche in tema di eventuale risarcimento danni per la calunnia commessa.

Si ricorda che il delitto di calunnia consiste nella falsa attribuzione di un reato nei confronti di una persona che si sa innocente: in altre parole accusare falsamente qualcuno di un reato, essendo ben consapevoli della falsità delle accuse.

E’ bene notare come la calunnia sia un reato procedibile di ufficio, talché per l’inizio di un procedimento penale non sarà necessario che qualcuno presenti una querela o una denuncia, ma basterà che l’Autorità Giudiziaria venga a conoscenza del fatto.

Nel caso di denuncia per calunnia si rischia innanzitutto l’apertura di un procedimento penale, la cui competenza sarà incardinata presso la Procura della Repubblica del luogo in cui sia stato commesso il reato: l’eventuale processo penale si svolgerà innanzi al Tribunale in composizione monocratica, salvo il caso di particolari forme aggravate del reato, che fanno attribuire la competenza al Tribunale in composizione collegiale.

Con riferimento alla pena irrogabile da parte del Tribunale, i rischi di una denuncia per calunnia sono la reclusione da due a sei anni per la fattispecie ordinaria, pena che potrà subire un aggravamento se il falso reato attribuito alla persona innocente avrebbe potuto essere punito con una pena superiore nel massimo ai dieci anni di reclusione.

La pena sarà invece da quattro a dodici anni di reclusione se dalla calunnia sia derivata un’ingiusta condanna a pena superiore a cinque anni, e da sei a venti anni se dalla calunnia sia derivata un’ingiusta condanna all’ergastolo.

Ma i rischi di una denuncia per calunnia non si esauriscono nell’eventuale pena che potrà essere inflitta in caso di condanna: infatti il colpevole, se la persona offesa dal reato si sia costituita parte civile, potrà essere condannato al risarcimento dei danni per la calunnia commessa.

L’entità del danno da risarcire potrà dipendere da molti fattori, e potrà accadere che il Giudice penale emetta condanna generica al risarcimento del danno, riservando ad un successivo giudizio civile la determinazione esatta dell’ammontare del risarcimento.

DELITTI CONTRO LA P.A.: RESISTENZA A PUBBLICO UFFICIALE

In via preliminare, si osserva che la fattispecie penale incriminatrice della resistenza a pubblico ufficiale è da considerare come un delitto di medio allarme sociale. Tuttavia, l’allarme sociale generato e prodotto dal predetto reato può, talvolta, crescere ulteriormente ed essere, quindi, il presupposto, l’antefatto per la realizzazione di più gravi reati quali ad esempio l’omicidio.

Il legislatore penale colloca la resistenza a un pubblico ufficiale nel libro II del codice penale, nel titolo II (Dei delitti contro la pubblica amministrazione), nel Capo II (Dei delitti dei privati contro la pubblica amministrazione). Pertanto, l’articolo 337 del vigente codice penale stabilisce che: “Chiunque usa violenza o minaccia per opporsi a un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio, mentre compie un atto di ufficio o di servizio, o a coloro che, richiesti, gli prestano assistenza, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni”.

Si tratta di un reato comune, giacché può essere commesso da una qualsiasi persona fisica, di danno , in quanto richiede l’offesa in senso naturalistico del bene protetto, di mera condotta ed a forma libera, poiché può essere realizzato con qualsiasi condotta idonea al raggiungimento dello scopo. Inoltre, il tentativo è pienamente configurabile.

Il soggetto passivo del reato in commento può essere un pubblico ufficiale[1], un incaricato di un pubblico servizio ovvero chiunque, da questi richiesto, presti loro assistenza. Tuttavia, si deve correttamente rilevare che non rientrano fra i soggetti passivi gli esercenti un servizio di pubblica necessità (ad esempio gli avvocati).

In tema di resistenza a pubblico ufficiale il bene giuridico protetto è quello della sicurezza e della libertà di azione, di movimento del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio contro specifici fatti di opposizione violenta. In particolare, per la configurabilità dell’elemento materiale della violenza nel reato di resistenza a pubblico ufficiale non è necessario che la condotta violenta ponga in pericolo l’integrità fisica del soggetto passivo, poiché il delitto di cui all’articolo 337 c.p. è un reato contro la Pubblica Amministrazione e non contro la persona. Infatti, è sufficiente l’esistenza di una condotta idonea ad impedire l’esecuzione dell’atto di ufficio. Si ritiene che la materialità del delitto di resistenza al pubblico ufficiale sia integrata pure dalla violenza cosiddetta impropria, la quale, pur non aggredendo direttamente il predetto soggetto, si ripercuote sfavorevolmente nell’esplicazione della relativa funzione pubblica, impedendola o semplicemente ostacolandola.

Inoltre, la condotta penalmente rilevante deve intendersi rappresentata da qualunque attività commissiva od omissiva che si trasponga in un atteggiamento, anche talora implicito, purché percepibile “ex adverso”, che impedisca, ostacoli, intralci ed valga a compromettere, anche solo parzialmente e temporaneamente la regolarità del compimento dell’atto di ufficio o di servizio da parte del pubblico ufficiale o dell’ incaricato di un pubblico servizio. Dalla lettura della norma viene in evidenza che l’atto dell’ufficio o del servizio deve aver avuto almeno un principio di esecuzione. Infatti, l’utilizzazione normativa dell’avverbio “mentre” determina la necessaria contestualità tra la resistenza e l’attività del pubblico funzionario.

Tuttavia, non ogni reazione minacciosa è valida ad integrare il reato in commento. Infatti, non integra il reato di cui all’art. 337 codice penale la reazione minacciosa posta in essere nei confronti del pubblico ufficiale dopo che questi abbia già svolto l’atto del proprio ufficio e senza, dunque, la finalità di opporvisi. (Cassazione penale, sezione VI, sentenza 2 marzo 2011, n. 8340) Inoltre, estranea ai confini della condotta violenta o minacciosa è la cosiddetta resistenza passiva consistente in comportamenti meramente difensivi quali buttarsi a terra o rifiutarsi di obbedire, anche nel caso in cui il pubblico ufficiale sia costretto ad adoperare violenza per vincerla (si veda in tal senso la Cassazione penale, Sezione VI sentenza 06 novembre 2012 n. 10136).

Il coefficiente psicologico[2] ricercato è il dolo specifico[3], in quanto oltre alla coscienza e volontà della violenza o minaccia è richiesta l’ulteriore finalità di impedire che l’agente pubblico esegua l’atto del suo ufficio. Tuttavia, si deve osservare che nel reato in commento sono estranei, per l’individuazione dell’elemento soggettivo, la causa ed il fine del soggetto del reato.

Secondo un importante insegnamento del Supremo Collegio, l’elemento intenzionale del delitto di resistenza a pubblico ufficiale si concreta nella coscienza e volontà dell’agente di usare violenza o minaccia per opporsi al soggetto tutelato mentre sta compiendo o si sta adoperando per compiere il proprio atto d’ufficio o di servizio, senza che abbia rilevanza il fatto che la violenza o minaccia cada su cose anziché sulle persone, quando essa sia idonea ad impedire o, comunque, turbare od ostacolare l’attività funzionale del pubblico ufficiale. (Cassazione penale, sezione VI, sentenza del 27 maggio 1986 nr. 4325) In sostanza, il predetto principio di diritto, correttamente enucleato dalla Cassazione, chiarisce che per la realizzazione ed il perfezionamento del reato in commento è indifferente che la condotta antigiuridica della violenza o della minaccia avvenga ed cada su cose piuttosto che sulle persone.

Nel reato di resistenza a pubblico ufficiale l’elemento psicologico consiste nella coscienza e volontà di precludere al pubblico ufficiale con una condotta minacciosa e violenta l’atto d’ufficio ritenuto pregiudizievole per i propri interessi. Ne consegue che risponde del reato su indicato colui il quale abbia nei confronti di un vigile urbano in servizio e che gli richieda dei documenti per l’identificazione una condotta tanto violenta da produrgli delle lesioni personali. (Cassazione penale, sezione VI, sentenza 14 marzo 1986, n. 2089)

La resistenza a pubblico ufficiale è, purtroppo, un reato molto diffuso e di frequente verificazione nell’attuale società civile. Si pensi, solo per fare un esempio, alla condotta del conducente di un automezzo che, senza fermarsi all’alt degli agenti di un organo di polizia stradale, decida di speronare violentemente ed a forte velocità l’autovettura di servizio degli agenti di polizia proprio al fine di non consentire loro l’espletamento di un atto d’ufficio.

Inoltre, desta particolare interesse per la sua portata chiarificatrice una sentenza della Corte di Cassazione che affronta la problematica del reato continuato , del concorso formale di reati ed anche quella del rapporto fra il tentato omicidio e la resistenza a pubblico ufficiale. Il giudice delle leggi, in riferimento a quanto esposto in precedenza, ha stabilito che : “Il reato di resistenza a pubblico ufficiale assorbe soltanto quel minimo di violenza necessario per impedire al pubblico ufficiale il compimento di un atto del suo ufficio, mentre l’omicidio, travalicando detto limite, attenta direttamente alla vita od all’incolumità del soggetto passivo; i due reati possono concorrere, stante la diversità dei beni giuridici tutelati e le differenze qualitative e quantitative della violenza esercitata contro il pubblico ufficiale”. Nella predetta fattispecie la Suprema Corte ha opportunamente ed correttamente ravvisato il concorso formale tra i reati di resistenza a pubblico ufficiale e tentato omicidio nella condotta dell’indagato che, in fuga a bordo di un’autovettura appena rapinata, aveva a più riprese tentato di investire la motocicletta a bordo della quale due agenti di P.G. lo inseguivano. (Cassazione penale, sezione II, sentenza 18 ottobre 2007, n. 38620).

Si osserva, nuovamente, che nella resistenza a pubblico ufficiale può essere applicato anche l’istituto giuridico del reato continuato (art. 81 c.p.). Infatti, la plurima violazione della legge penale può avere ad oggetto la stessa norma prevista dall’articolo 337 c.p. Pertanto, solo per fare un esempio, qualora la pubblica funzione sia esercitata da una pluralità di pubblici ufficiali o incaricati di un pubblico servizio attraverso singole azioni che si integrano a vicenda, la pluralità delle contrapposte reazioni minacciose o violente con cui l’autore della resistenza intenda bloccare le predette complesse funzioni rientra nel paradigma del reato continuato.

Inoltre, merita di essere brevemente trattato anche il profilo del concorso di persone nel reato. Proprio in riferimento a quest’ultimo punto, si osserva che la mancanza del previo concerto non condiziona la configurabilità del concorso di persone nel reato, essendo sufficiente l’intesa anche spontanea intervenuta nel corso dell’esecuzione del fatto criminoso.

In riferimento ai rapporti che intercorrono con altre fattispecie penali incriminatrici molto interessante ed articolato si presente il seguente principio di diritto: “Quando la violenza esercitata, per assicurarsi il possesso della cosa oggetto del reato di rapina o l’impunità, nei confronti del pubblico ufficiale, al fine di opporsi mentre compie un atto dell’ufficio, eccede il fatto di percosse e volontariamente provoca lesioni personali, si determina il concorso tra i delitti di rapina e resistenza e quello di lesioni, e per quest’ultimo sussiste l’aggravante della connessione teleologica, a nulla rilevando che reato – mezzo e reato – fine siano integrati dalla stessa condotta materiale”. (Cassazione penale, sezione II, sentenza 18 luglio 2005 nr. 26435)

Sempre in riferimento ai rapporti con altri reati la giurisprudenza di legittimità ha enucleato il seguente principio di diritto : “È configurabile il reato di resistenza a pubblico ufficiale, e non quello previsto dall’art. 336 c.p., nella condotta di colui che minaccia un agente di polizia per opporsi all’esecuzione di un sequestro, quando dopo l’apprensione materiale della res sia ancora necessario provvedere alla compilazione degli atti conseguenti al sequestro”. (Cassazione penale, sezione VI, 10 ottobre 2008, n. 38566)

Orbene, sulla base della precedente riflessione e considerazione, si osserva che è proprio il criterio cronologico che differenzia la resistenza a p.u. dalla violenza o minaccia a p.u. Infatti quando l’atto attende ancora di essere compiuto (prima dell’inizio della sua esecuzione) è possibile il delitto di violenza o minaccia mentre, invece, quando l’atto è iniziato (in via di compimento) e sino al termine della sua esecuzione è possibile il delitto di resistenza.

Restano ancora da analizzare alcune brevi note procedurali per il reato in commento. Si tratta di un reato procedibile d’ufficio che è di competenza del Tribunale in composizione monocratica (art. 33 – ter c.p.p.) ; la misura pre-cautelare dell’arresto[4] è facoltativa mentre, invece, il fermo di persona indiziata di delitto non è consentito. Inoltre, la misura cautelare della custodia cautelare in carcere è consentita al pari di tutte le altre misure cautelari personali. L’azione penale si esercita con il decreto di citazione diretta a giudizio e l’udienza preliminare non è prevista. Il reato si prescrive nel termine di sei anni e la declaratoria di non punibilità per tenuità del fatto risulta essere possibile.

Al delitto di resistenza a pubblico ufficiale si applica, altresì, l’esimente di cui all’articolo 393-bis c.p. (Causa di non punibilità). Infatti, secondo l’insegnamento della Cassazione Penale, sezione VI, sentenza 14 aprile 2011, n. 18841, è configurabile l’esimente della reazione ad atti arbitrari del pubblico ufficiale qualora il privato opponga resistenza al pubblico ufficiale che pretenda di sottoporlo a perquisizione personale finalizzata alla ricerca di armi e munizioni in assenza di elementi obiettivi idonei a giustificare l’atto, e dopo averlo accompagnato coattivamente in caserma in ragione del precedente rifiuto non già di declinare le generalità, ma di esibire i documenti di identità. In sintesi, la causa di non punibilità, di cui all’articolo 393 bis c.p., deve essere applicata ogni qual volta il pubblico ufficiale, l’incaricato di un pubblico servizio ovvero il pubblico impiegato abbiano dato causa al fatto previsto dall’articolo 337 c.p., eccedendo con degli atti arbitrari i limiti delle loro proprie attribuzioni di legge.

In ultima analisi, si osserva come sussiste l’elemento soggettivo del delitto di resistenza a pubblico ufficiale allorchè l’autore del fatto sia consapevole che il soggetto contro il quale è diretta la violenza o la minaccia rivesta la qualità di pubblico ufficiale e stia svolgendo un’attività del proprio ufficio. (Cassazione penale, sezione VI, sentenza 16 aprile 2004, n. 17701)

(A cura del Dott. Alessandro Amaolo, Specializzato nelle Professioni Legali con indirizzo Giudiziario – Foresnse ed abilitato all’esercizio della professione di avvocato presso la Corte di Appello di Ancona)

[1] Le guardie giurate, ancorché in servizio presso pubbliche amministrazioni, svolgono esclusivamente compiti di tutela delle entità patrimoniali affidate alla loro sorveglianza e non possono assumere, pertanto, la qualità di pubblici ufficiali o di incaricati di pubblico servizio quando intervengano, al di fuori delle loro attribuzioni istituzionali, per sedare una lite insorta fra un privato ed un pubblico dipendente. Infatti, nella predetta fattispecie la Suprema Corte ha escluso la configurabilità del reato di cui all’art. 337 c.p. (Cassazione penale, sezione VI, sentenza 05 dicembre 2008, n. 45444)

[2] Nel delitto di resistenza a pubblico ufficiale, l’elemento psicologico consiste nella coscienza e volontà di precludere, con la propria condotta minacciosa o violenta, la possibilità di compiere l’atto di ufficio ritenuto pregiudizievole ai propri interessi. (Cassazione penale, sezione VI, sentenza 5 febbraio 1988, n. 1506)

[3] In tema di resistenza a pubblico ufficiale il dolo specifico si concreta nella coscienza e volontà di usare violenza o minaccia al fine di opporsi al compimento di un atto dell’ufficio, mentre del tutto estranei sono lo scopo mediato ed i motivi di fatto avuti di mira dall’agente. (Cassazione penale, sezione VI, sentenza 25 agosto 1995, n. 9119)

[4] In tema di arresto facoltativo in flagranza, il controllo, che il giudice che procede alla convalida dell’arresto è tenuto a compiere ai sensi dell’art. 391 c.p.p., deve limitarsi all’accertamento delle condizioni di legittimità dell’arresto stesso (quali la flagranza del reato e i presupposti indicati dagli artt. 385 e 386 cod. proc. pen.), non potendosi estendere alla verifica dei presupposti per l’affermazione di responsabilità, che, per la complessità dei canoni di riferimento, deve ritenersi riservata al giudice della cognizione. (Cassazione penale, sezione VI, sentenza 17 febbraio 2009, n. 6878)

Covid-19, misure di contenimento e reati di falso: aspetti problematici dell’autodichiarazione

Sommario. 1. Premessa. – 2. Il reato di cui all’art. 495 c.p. “Falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identità o su qualità personali proprie o di altri”. – 3. Il reato di cui all’art. 483 c.p. “Falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico”. – 4. Reati di falso e diritto di mentire. Considerazioni lapidarie.

1. Premessa.
La recente emergenza epidemiologica da diffusione del Covid-19 (c.d. Coronavirus) è stata fronteggiata dal legislatore con l’adozione di atti normativi di fonte primaria (in particolare decreti-legge considerata la sussistenza dei presupposti di necessità ed urgenza) e di fonte secondaria (in particolare decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri).
Con tali atti normativi sono state previste e regolamentate le misure di contenimento da imporre ai cittadini e agli esercenti attività imprenditoriali al fine di far fronte all’espansione del contagio; tali misure incidono su libertà costituzionalmente rilevanti degli individui, quali quelle di circolazione, riunione, esercizio di attività economica, le quali sono fortemente inibite, salve deroghe espresse, come accade, con riferimento al diritto di spostamento, «per gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero spostamenti per motivi di salute»1; quanto alle situazioni di necessità, trattasi di impellenze legate al fabbisogno primario della persona o ad attività comunque da reputarsi imprescindibili per il ménage personale e familiare (si pensi, ad esempio, alla fruizione dei servizi bancari o assicurativi); di recente inoltre è stato previsto che gli spostamenti da un comune all’altro potranno essere realizzati, solo per motivi
2 di salute, motivi di lavoro e per “assoluta urgenza” .
L’art. 3 comma 4 del D.L. 6 febbraio 2020 prevede che la violazione delle misure di contenimento sia punita ai sensi dell’art. 650 c.p. e, sul punto, gli interpreti si stanno già da diverso tempo confrontando al fine di comprendere quale sia il tipo di rinvio che il decreto legge ha fatto all’art. 650 cit., se quoad factum o quoad poenam, nonché allo scopo di meglio sondare la “legalità” del provvedimento a monte di cui è sanzionata la trasgressione; non è questo l’ambito tematico su cui queste brevi note si concentreranno, prefissandosi esse il proposito di fornire alcuni spunti di riflessione, senza pretesa di certezza e di esaustività, sulla collaterale questione della configurabilità dei reati in materia di falso, in capo al soggetto che dovesse rendere false dichiarazioni all’organo accertatore in fase di controllo in strada, in particolare nell’atto di declinare dati personali o informazioni giustificative dello spostamento da casa.
La questione si fa particolarmente pregnante, avuto riguardo all’inserimento online sul sito web del Ministero dell’Interno di un modello di “autodichiarazione” ai sensi degli artt. 46 e 47 DPR 445/2000, di recente aggiornato alle sopravvenienze normative, con cui ciascun cittadino è chiamato a dichiarare le proprie generalità, di essere a conoscenza delle misure di contenimento del contagio; di non essere sottoposto alla misura della quarantena; di non essere risultato positivo al virus COVID-19; di essere a conoscenza delle sanzioni previste dal combinato disposto dell’art. 3, comma 4, del D.L. 23 febbraio 2020, n. 6 e dell’art. 4, comma 2, del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri dell’ 8 marzo 2020 in caso di inottemperanza delle predette misure di contenimento (art. 650 c.p. salvo che il fatto non costituisca più grave reato); il privato si dichiara, nel modulo, “consapevole delle conseguenze penali previste in caso di dichiarazioni mendaci a pubblico ufficiale (art. 495 c.p.)”.
2. Il reato di cui all’art. 495 c.p. “Falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identità o su qualità personali proprie o di altri”. Preme dunque innanzitutto ragionare sulla configurabilità del reato di cui all’art. 495 c.p., che punisce con la pena della reclusione da uno a sei anni chi dichiara o attesta falsamente al pubblico ufficiale l’identità, lo stato o altre qualità della propria o dell’altrui persona.
Per “identità” devono intendersi il nome, il cognome, la data e il luogo di nascita, la paternità e la maternità; per “stato” si intendono invece cittadinanza, capacità di agire, stato libero o coniugale, parentela, affinità, patria potestà etc.
Nel concetto di “altre qualità” rientrano indicazioni, cui l’ordinamento riconnette effetti giuridici, che concorrono a stabilire le condizioni della persona, ad individuare il soggetto e consentire la sua identificazione, quali
ogni attributo
3 Per le tre dizioni, si veda Cass. sez. V, 5 marzo 2019, n. 19695, Rv. 275920; Cass. sez. V, 4 marzo 2016, n. 9195; Cass. sez. V, 8 novembre 2011 n. 1789, Rv. 251713; Cass. sez. V, 19 aprile 1977, n. 7462; Cass. sez. III, 27 febbraio 1967.
la residenza e il domicilio, la professione, la dignità, il grado accademico, l’ufficio pubblico ricoperto, l’essere convivente, una precedente condanna eche serva ad integrare la individualità della persona .
Venendo al nodo centrale del discorso, attinente alla questione se chi venga fermato per un controllo e dichiari o attesti il falso al pubblico ufficiale rischi una denuncia per violazione dell’art. 495 c.p., si può rispondere in maniera affermativa solo se l’oggetto del mendacio abbia riguardato gli elementi innanzi citati.
Nel caso in cui, ad esempio, ad essere falsa sia la motivazione sulla propria presenza in strada, non potrà applicarsi l’art. 495 c.p., nonostante quest’ultimo sia richiamato in maniera verosimilmente onnicomprensiva nel modulo di autodichiarazione reperibile sul sito ministeriale.
Secondo una tesi di recente esposta, la falsità riguardante il non trovarsi
posto in quarantena e il non essere positivo al virus rientrerebbe nelle maglie
letterali dell’art. 495 cit., avuto riguardo alla dizione delle “altre qualità”, già 4
analizzate .
L’orientamento proposto, particolarmente interessante, sollecita comunque
l’osservazione secondo cui non rientra nella nozione di “qualità” personale
ogni connotato della persona cui l’ordinamento riconnette effetti giuridici,
ma solo quello che abbia, a monte, capacità di individuazione del soggetto
nella comunità sociale; si nutrono forti dubbi quindi che l’attributo di
“soggetto non sottoposto a quarantena” o di “soggetto non positivo al virus”
soddisfi adeguatamente detto requisito.
Vero è che con una recente pronunzia di legittimità, la Corte di cassazione ha
sancito che «la tutela penale della fede pubblica — ancorché abbia sempre ad
oggetto i connotati della persona che ne costituiscono l’identità o lo status —
si estende anche ad altri connotati della persona, integrativi o sostitutivi che
siano, se una particolare norma collega loro effetti giuridici e, quindi, se
determinate situazioni di fatto che attengono alla persona costituiscano
5 presupposti o condizioni di legittimazione nei rapporti intersoggettivi» , ma
tale dictum, che a primo acchito potrebbe esporsi ad una lettura ampia, si riferisce, come già indicato in premessa, alla qualità di “convivente”, che avrebbe consentito al soggetto di accedere nell’istituto penitenziario per intrattenere il colloquio con un soggetto ivi ristretto.
3. Il reato di cui all’art. 483 c.p. “Falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico”.
Più complesso il discorso inerente all’applicabilità dell’art. 483 c.p. alle false dichiarazioni rese al pubblico ufficiale diverse da quelle rientranti nel tessuto operativo dell’art. 495 c.p., si pensi – principalmente – alla falsa motivazione che il privato rende al p.u. per giustificare il proprio spostamento da casa; tale falsa dichiarazione verrà di regola inserita per iscritto dal privato nell’autodichiarazione che egli personalmente consegnerà al p.u. su richiesta di quest’ultimo. Giova preliminarmente ripercorrere alcune coordinate dogmatiche in merito alla configurazione della fattispecie delittuosa in parola.
Orbene, l’art. 483 cit. punisce con la pena della reclusione fino a due anni
chiunque attesta falsamente al pubblico ufficiale, in un atto pubblico, fatti dei
quali l’atto è destinato a provare la verità.
Va subito chiarito che, per giurisprudenza consolidata, il reato di cui all’art.
483 c.p. è escluso quando l’atto non provi la verità di fatti, attuali ed
obbiettivi, bensì includa manifestazioni di volontà, intendimenti o propositi
6 futuri .
Secondo un filone giurisprudenziale particolarmente accreditato, il delitto di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico sussiste quando l’atto in cui è stata trasfusa la dichiarazione del privato sia destinato a provare la verità dei fatti narrati, cioè quando una norma giuridica obblighi il privato a dichiarare il vero ricollegando specifici effetti all’atto-documento in cui la
7 sua dichiarazione sia stata inserita dal pubblico ufficiale ricevente .
Tale principio costituisce applicazione dell’insegnamento delle Sezioni unite
le quali nel 1999 si espressero più volte in accoglimento della concezione
formale, secondo cui “il reato di cui all’art. 483 c.p. presuppone che il privato
dichiarante abbia il dovere giuridico – stabilito, esplicitamente o
implicitamente, dalla legge – di esporre la verità in ordine a un fatto in un atto
pubblico che sia destinato – per disposizione di legge – a provare la verità delle
8 dichiarazioni in esso raccolte” .
È stato precisato infatti che l’art. 483 c.p. richiede, per la definizione del suo contenuto precettivo, il collegamento con una diversa norma – eventualmente di carattere extrapenale – che conferisca attitudine probatoria all’atto in cui confluisce la dichiarazione inveritiera, così dando luogo
9 all’obbligo per il dichiarante di attenersi alla verità .
Occorre dunque in primo luogo che una “norma giuridica” specifica obblighi il privato a dire il vero, non potendo peraltro ricercarsi tale obbligo nell’art. 483 c.p., che, al contrario, lo presuppone esistente aliunde nell’ordinamento; in questo modo il p.u. che raccoglie la dichiarazione formerà un documento dotato di efficacia probatoria circa la verità dei fatti narrati.
L’obbligo di verità può trovare anche un aggancio “implicito” e non necessariamente “esplicito” in una norma di legge.
La giurisprudenza di legittimità pare aver fatto uso di tale impostazione, che
rinviene implicitamente il monito di legge alla veridicità delle affermazioni,
prescindendo in certi casi dalla esistenza di un obbligo di verità
espressamente sancito da una norma scritta.
Ad esempio, nel caso dello smarrimento della carta di identità o della patente
di guida, la Corte di legittimità ha ancorato la configurabilità del reato di cui
all’art. 483 c.p. in assenza di una norma che esplicitasse il dovere di verità in
capo al privato in sede di denuncia di smarrimento, ma rinvenendo detto
dovere nella previsione normativa di un obbligo di denuncia e nel fatto che
detta denuncia funge da presupposto per l’avvio dell’iter amministrativo
volto alla formazione e al rilascio del relativo duplicato in favore del
11 denunziante .
In altri termini, viene depotenziato il requisito della preesistenza di un obbligo di verità codificato ma esso, lungi dall’essere negletto, viene ricavato implicitamente dalla necessaria confluenza della dichiarazione del privato in un iter amministrativo di cui si pone quale doveroso incipit.
Sul punto, autorevole dottrina ha inoltre rilevato che «non sempre è agevole
stabilire in quali casi tale obbligo veramente sussista, una volta escluso che
dallo stesso art. 483 sia ricavabile un generale dovere di veridicità nelle
attestazioni che i privati fanno ai pubblici ufficiali», e che pertanto «in linea di
principio il privato dovrà ritenersi tenuto a dichiarare il vero, ogni qual volta
una norma giuridica ricolleghi specifici effetti a determinati fatti, allorché essi
vengano da un privato attestati a un pubblico ufficiale che deve documentarne
12 l’attestazione» .
Tale riflessione, animata da una esigenza di semplificazione in una materia complessa quale quella dei reati di falso, finisce per costituire l’abbrivio per una concezione sostanzialistica in ossequio alla quale si genera un dovere di verità in capo al privato qualora l’ordinamento ricolleghi specifici effetti ai fatti da lui narrati e raccolti dal p.u. in un atto pubblico sicché, parrebbe intendersi, l’obbligo di verità scaturisce in questo caso dall’attivazione di un principio di autoresponsabilità in capo al privato, il quale deve dichiarare il vero laddove la sua dichiarazione verbalizzata sia foriera di conseguenze rilevanti per l’ordinamento.

Va poi ricostruita sinteticamente l’interazione tra la fattispecie criminosa de qua e i documenti noti nella prassi come “autocertificazioni”, nelle quali eventualmente si annidi il mendacio.
Giova focalizzare l’attenzione sul fatto che l’attestazione della motivazione per cui il privato si trovi a derogare all’obbligo di permanenza nella propria abitazione non può rientrare sotto l’egida dell’art. 46 DPR 445/2000, il quale consente al privato di comprovare con dichiarazioni, anche contestuali all’istanza, sottoscritte dall’interessato e prodotte in sostituzione delle normali certificazioni, stati, qualità personali e fatti tassativamente indicati, i quali sarebbero, in assenza di autocertificazione, rinvenibili in pubblici registri o comunque sarebbero già di dominio della pubblica amministrazione. L’attestazione può, al più, rientrare nell’alveo operativo dell’art. 47 DPR cit., il quale consente al privato di sostituire l’atto di notorietà con una dichiarazione sostitutiva che abbia ad oggetto, tra gli altri, “fatti che siano a diretta conoscenza dell’interessato” (co. 1); prevede inoltre la norma che, «fatte salve le eccezioni espressamente previste per legge, nei rapporti con la pubblica amministrazione […], tutti gli stati, le qualità personali e i fatti non espressamente indicati nell’articolo 46 sono comprovati dall’interessato mediante la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà» (co. 3).
I requisiti sanciti dalla giurisprudenza sull’obbligo di verità del privato e sulla efficacia probatoria dell’atto ai fini della configurabilità dell’art. 483 c.p. paiono essere adeguatamente soddisfatti dalla lettura congiunta degli artt. 47 co. 3 e art. 76 DPR 445/2000.
L’art. 47 conferisce al privato il potere di “comprovare” i fatti a sua conoscenza con la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà; così facendo l’ordinamento, in un’ottica di semplificazione amministrativa, ha consentito al privato di sostituire certificati ufficiali con una propria dichiarazione, cui viene attribuita efficacia probatoria.
L’art. 76, invece, assume la generale funzione di vietare il mendacio nella elaborazione dell’autodichiarazione, rinviando per le sanzioni alle norme del codice penale in materia di falso; ed inoltre sancisce che «le dichiarazioni sostitutive rese ai sensi degli articoli 46 e 47 […] sono considerate come fatte a pubblico ufficiale», in questo modo legandosi funzionalmente al tessuto normativo di cui all’art. 483 c.p., il quale prevede, per operare, che le false dichiarazioni siano (appunto) rese al pubblico ufficiale. In sintesi, da un lato la norma imputa al privato l’obbligo di verità; dall’altro, in virtù della fictio ora descritta, le dichiarazioni sono considerate come rese al pubblico ufficiale. Pertanto, chi inserisce in una dichiarazione sostitutiva di atto notorio affermazioni non veritiere è considerato al pari di chi rende al p.u. dichiarazioni false che il secondo, conseguentemente, inserisce in un atto che è destinato a costituire prova della verità del fatto recepito.

Sussistono conseguentemente tutti i requisiti strutturali dell’art. 483 c.p.:
obbligo di verità, efficacia probatoria dell’atto, equivalenza tra
autodichiarazione e dichiarazioni rese al p.u.
L’impostazione giurisprudenziale sul punto è pacifica; si consideri in via del
tutto esemplificativa la massima «in tema di falso documentale, integra il
reato di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico (art. 483 cod.
pen.) la presentazione di una dichiarazione sostitutiva che attesti falsamente
la regolarità contributiva (c.d. DURC), stante l’obbligo di dichiarare il vero, ex
13
art. 76, d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445» , dalla quale risaltano sia
l’interazione tra l’art. 483 c.p. e le dichiarazioni sostitutive affette da falsità, sia il rinvenimento dell’obbligo di dichiarare il vero proprio nell’art. 76 DPR 445/2000.
Orbene, in attesa di una sedimentazione giurisprudenziale avente ad oggetto le fattispecie che si consumano in questo periodo segnato dall’emergenza epidemiologica, può condursi una preliminare riflessione critica circa la condotta di chi, fermato in queste ore in strada dal pubblico ufficiale che gli chieda di dar contezza dei motivi per cui è fuori casa, renda delle dichiarazioni non conformi al vero, mediante consegna dell’autodichiarazione scritta, la quale potrà essere stata compilata prima di lasciare la propria abitazione o durante il controllo delle forze dell’ordine.
V’è in primo luogo da chiedersi se dietro lo schermo “motivazionale” si celi un fatto, come la norma incriminatrice richiede espressamente.
Orbene, posto che irrilevante nel caso di specie è il fatto obbiettivo della presenza in strada del cittadino sottoposto a controllo, occorre porre l’attenzione su altri aspetti, fermo restando che le circostanze obbiettive in cui il soggetto è rinvenuto al momento dell’accertamento potranno a posteriori tornare utili per gli sviluppi investigativi del caso, quando ad esempio denotino prima facie significative incongruenze.
In linea di principio, il privato potrà attestare un “fatto” già compiuto, o meglio già concretizzatosi nella realtà esteriore: il privato può infatti dichiarare di essere in strada per “aver compiuto” una certa azione (es. “sono stato a lavoro presso la sede sita in …”; “sto tornando a casa dopo aver portato generi alimentari e medicinali a mia madre anziana”, etc.) che trovi il proprio fondamento di tutela nei DPCM (lavoro, salute, stretta necessità). In questo caso siamo con ogni probabilità dinanzi ad un “fatto” suscettibile di essere riferito e attestato, in quanto trattasi di un evento della vita o una circostanza che sono prospettati come già realizzati e/o materializzati in rerum natura. Ciò che è accaduto o già venuto ad esistenza può essere oggetto di narrazione ai nostri fini.
Altro è il fatto ancora non verificatosi ma oggetto di una semplice intenzione (es. “sto andando a fare la spesa”; “sto andando a lavoro”; “sto andando in farmacia per acquistare il medicinale X”); questo caso pare rientrare in quei divieti giurisprudenziali anzidetti che non consentono di ritenere configurata la fattispecie delittuosa, in quanto ad essere attestato è un mero intento, un proposito, salvo voler considerare “fatti” rilevanti per il nostro proposito i presupposti fattuali, già esistenti ed eventualmente dichiarati, che costituiscano gli elementi strutturali della esigenza tutelata dalla normativa emergenziale (es. “sto andando a fare la spesa e la porterò a mia madre anziana che è rimasta sprovvista di Y”).
Le argomentazioni che precedono devono essere confrontate con il documento di derivazione ministeriale (aggiornato al DPCM del 22/03/2020), che infatti si compone, per quanto qui di interesse, di due sezioni rilevanti: la prima consta di un breve elenco di motivazioni tra cui spuntare quella giustificativa dello “spostamento”: comprovate esigenze lavorative, assoluta urgenza (per gli spostamenti tra comuni diversi), situazioni di necessità (per gli spostamenti nell’ambito del medesimo territorio comunale), motivi di salute; la seconda consta di uno spazio in cui inserire una dichiarazione tendenzialmente esplicativa del motivo sopra indicato.
Orbene, l’interprete dovrà attentamente verificare, alla luce della lettura congiunta e coordinata delle due sezioni e soppesando sapientemente le parole utilizzate, se il privato abbia dichiarato un “fatto” o piuttosto una “intenzione”: nell’un caso, il dichiarante potrà essere tacciato di falsità; nell’altro caso, la condotta pare sfuggire alle maglie della punibilità in ossequio alla giurisprudenza su richiamata.
Va precisato, e lo si anticipava, che, ai sensi della Direttiva del Ministro dell’Interno del 8 marzo 2020, il pubblico ufficiale, nel caso in cui il privato fosse sfornito della dichiarazione sostitutiva, è abilitato a consegnargli il modulo all’atto del controllo e, previa compilazione dello stesso da parte del soggetto fermato, a controfirmarlo. Le osservazioni sinora svolte valgono anche in questo caso, che si differenzia dal primo solo per il momento in cui avviene la compilazione dell’atto.
Più impervia appare invece la strada verso il riconoscimento della punibilità di chi, sprovvisto dell’autodichiarazione ed interrogato dal p.u. sui motivi della propria presenza in strada, renda dichiarazioni false che il p.u. recepisca a verbale (o di chi, avendo compilato l’autodichiarazione in maniera parziale, la “integri” con dichiarazioni rese oralmente e raccolte nel verbale).
In questa ipotesi, la Corte di cassazione ha ritenuto, in casi assimilabili, che il reato di cui all’art. 483 c.p. non si configuri quando in un controllo stradale il privato renda dichiarazioni mendaci all’agente accertatore, «posto che il verbale della polizia, contenente le dichiarazioni del privato, non è destinato ad attestare la verità dei fatti dichiarati ed il reato in questione è ravvisabile quando l’atto pubblico, nel quale sia trasfusa la dichiarazione del privato, sia
Trattasi comunque di ipotesi marginale e del tutto teorica, avuto riguardo alla direttiva ministeriale anzidetta, la quale prescrive al pubblico ufficiale di consentire al privato di realizzare pur sempre un’autodichiarazione in un modulo che l’appartenente alle forze dell’ordine gli fornirà al momento, e non di raccogliere in un proprio verbale le dichiarazioni del soggetto sottoposto a controllo.
4. Reati di falso e diritto di mentire. Considerazioni lapidarie.
E’ stato autorevolmente sostenuto che ulteriori problemi potrebbero registrarsi in merito alla configurazione dei reati di falso, nell’ipotesi fattuale sinora affrontata, sul piano dell’antigiuridicità, in quanto tale stadio della sistematica del reato verrebbe escluso dall’applicazione del principio “nemo tenetur se detegere”, declinato nel senso che il privato che abbia mentito al pubblico ufficiale per occultare la propria trasgressione delle misure di contenimento non sarebbe punibile in quanto, per definizione, il colpevole

16 illecito, sia sul terreno specifico dei reati di falso .
Sul piano generale – di sistema – la Corte attribuisce al diritto di mentire una natura ed una rilevanza prettamente processuale e non sostanziale, nel senso che la facoltà di taluno di rendere dichiarazioni mendaci all’Autorità trova il proprio alveo epifanico dopo l’apertura di un formale procedimento penale a carico di costui e non precede tale momento. Peraltro, lo stesso diritto di mentire nel procedimento penale a proprio carico incontra forti limitazioni, come quella attinente al divieto di sconfinare nella calunnia, e non si qualifica
17 pertantointerminidiassolutezza .
Sullo speciale terreno dei reati di falso, la Corte pare assegnare posizione prioritaria all’esigenza di affidabilità e veridicità del documento in cui le dichiarazioni confluiscono, sulla cui verità viene riposto affidamento. Peraltro, destinato a provare la verità dei fatti attestati» .
ha diritto di mentire
Orbene, sul punto ci si limita ad osservare che la Cassazione pare aver adottato nel tempo una soluzione difforme, fornendo delle indicazioni sia sul piano generale della esistenza di un diritto generalizzato di mentire al fine di tutelarsi da conseguenze legali per un proprio precedente comportamento può soggiungersi che, con riguardo all’applicazione della causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di mentire al reato di cui all’art. 495 c.p., non vi sarebbe spazio per il principio “nemo tenetur” in quanto, già a livello procedimentale, che costituirebbe in astratto – come detto – il settore di maggior tutela per l’imputato/indagato, esso è escluso dall’obbligo, incondizionato, di verità relativo alle proprie generalità.
Né sarebbe possibile ritenere, a parere di chi scrive, che la richiesta del pubblico ufficiale al privato di indicare le ragioni della sua presenza in strada o altri dati caratterizzanti si collochi in un terreno lato sensu procedimentale, considerato che il privato è eventualmente attinto da indizi di reità solo dopo aver illustrato le proprie ragioni o aver fornito i su indicati dati ed essere incorso in incongruenze che attivino un più approfondito controllo sulla fondatezza delle asserzioni giustificative fornite.
Pertanto, si ritiene che il nucleo tematico su cui si annidano le maggiori problematiche di configurazione dei reati di falso in merito alla fattispecie concreta oggetto del presente contributo non pare essere rappresentato dallo stadio sistematico della antigiuridicità ma da quello della tipicità, per le motivazioni espresse ai paragrafi 2 e 3.

La longa manus del Coronavirus sulla giustizia penale e sulle carceri

La longa manus del Coronavirus sulla giustizia penale e sulle carceri.

Il “Coronavirus”, meglio definito come “Covid–19”, dichiarato ormai pandemia dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, è divenuto un fenomeno planetario, che ha interessato tutti gli aspetti della nostra vita e anche quello della giustizia, mettendo a dura prova gli artt. 101 e seguenti della Costituzione ed, in particolare, l’art. 111, primo comma, secondo cui “La giurisdizione si attua mediante il giusto processo, regolato dalla legge…”.

A disciplinare la materia nella fase di emergenza è intervenuto di recente, a seguito del Decreto legge n. 11/2020 e dei DD.PP.CC.MM. in data 4 marzo 2020, 8 marzo 2020 e 12 marzo 2020, anche il Decreto legge del 17 marzo 2020, n. 18, pubblicato nella G.U. n. 70 del 18 marzo 2020 (nonché in questa Rivista, ivi), che ha previsto (nonché in questa Rivista, ivi), all’art. 83, nuove misure urgenti per contrastare l’emergenza epidemiologica da Covid-19 e contenerne gli effetti in materia di giustizia civile, penale, tributaria e militare, alcune delle quali di dubbia costituzionalità.

1. Il rinvio delle udienze e la sospensione dei termini.

In particolare, è previsto dall’art. 83 del provvedimento normativo che dal 9 marzo al 15 aprile 2020 le udienze dei procedimenti civili e penali pendenti presso tutti gli uffici giudiziari sono rinviate d’ufficio a data successiva al 15 aprile 2020. Inoltre, nello stesso periodo è sospeso il decorso dei termini per il compimento di qualsiasi atto dei procedimenti civili e penali. Si intendono pertanto sospesi, per quello che ci riguarda, “i termini stabiliti per la fase delle indagini preliminari, per l’adozione di provvedimenti giudiziari e per il deposito della loro motivazione, per la proposizione degli atti introduttivi del giudizio e dei procedimenti esecutivi, per le impugnazioni e, in genere, tutti i termini procedurali. Ove il decorso del termine abbia inizio durante il periodo di sospensione, l’inizio stesso è differito alla fine di detto periodo. Quando il termine è computato a ritroso e ricade in tutto o in parte nel periodo di sospensione, è differita l’udienza o l’attività da cui decorre il termine in modo da consentirne il rispetto…”.

Già il Presidente della Suprema Corte di Cassazione, con atto n. 36/2020, depositato il 13 marzo, supportando il compito dell’autorità amministrativa, aveva disposto la sospensione dei termini di qualsiasi atto giudiziario.

E ancora prima, in data 11 marzo 2020, la relazione illustrativa trasmessa dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri al Senato, avente oggetto il disegno di legge di conversione del citato decreto legge n. 11/2020, aveva ribadito la necessità di provvedere, da un lato, all’immediato e generalizzato rinvio delle udienze fino al 22 marzo e, dall’altro, di introdurre disposizioni rivolte a tutti gli uffici giudiziari per garantire il rispetto delle indicazioni igienico sanitarie fornite dal Ministero della Salute.

Come chiarisce la relazione illustrativa e tecnica al provvedimento normativo n. 18/2020, la disposizione ripropone, in unico articolo, il contenuto degli artt. 1 e 2 del decreto legge 8 marzo 2020, n. 11, mediante la introduzione delle medesime disposizioni con taluni adeguamenti nella formulazione delle norme al fine di chiarirne l’effettiva portata applicativa e le integrazioni necessarie per il completamento della disciplina emergenziale in atto. Inoltre, con riferimento alla pendenza dei giudizi, la norma ha eliminato ogni dubbio e ha esteso gli effetti della sospensione anche agli atti introduttivi del giudizio, ove per il loro compimento sia previsto un termine.

I Tribunali stanno adottando procedure diversificate. Ad esempio il Tribunale di Milano sta disponendo rinvii d’ufficio delle udienze penali con comunicazione del rinvio ad opera della cancelleria; altri tribunali, come quello di Venezia, hanno richiesto al consiglio dell’ordine degli avvocati di assicurare la presenza di un difensore che sia presente in ciascuna udienza da nominare sostituto ex art. 97, comma 4, del codice di procedura penale per ricevere la comunicazione delle date di rinvio per non gravare le cancellerie del relativo incombente; altri tribunali hanno raggiunto un accordo con il locale Consiglio dell’Ordine e i verbali d’udienza dei rinvii verranno comunicati a cura della cancelleria agli avvocati titolari. Queste ultime due prassi, anche se non contra legem, appaiono frutto di un’interpretazione forzata della norma.

2. Le eccezioni ai rinvii e alla sospensione.

Per i profili di interesse, il comma 3, lettera b) prevede che le disposizioni di cui ai commi 1 e 2, non operano nei “procedimenti di convalida dell’arresto o del fermo, procedimenti nei quali nel periodo di sospensione scadono i termini di cui all’art. 304 del codice di procedura penale, procedimenti in cui sono applicate misure di sicurezza detentive o è pendente la richiesta di applicazione di misure di sicurezza detentive e, quando i detenuti, gli imputati, i proposti o i loro difensori espressamente richiedono che si proceda, altresì i seguenti: 1. procedimenti a carico di persone detenute, salvo i casi di sospensione cautelativa delle misure alternative, ai sensi dell’art. 51-ter della legge 26 luglio 1975, n.374; 2. procedimenti in cui sono applicate misure cautelari o di sicurezza; 3. procedimenti per l’applicazione di misure di prevenzione o nei quali sono disposte misure di prevenzione”.

La lettera c) prevede, inoltre, che le citate disposizioni non si applicano ai “procedimenti che presentano carattere di urgenza, per la necessità di assumere prove indifferibili, nei casi di cui all’art. 392 del codice di procedura penale. La dichiarazione d’urgenza è fatta dal giudice o dal presidente del collegio, su richiesta di parte, con provvedimento motivato e non impugnabile”.

A parte l’infelice formulazione letterale della norma di cui alla lettera b), la citata relazione precisa, al fine di superare le incertezze venutesi a creare con il citato decreto legge n. 11/2020, che, ferme restando le eccezioni previste, la sospensione dei termini, investendo qualsiasi atto del procedimento e non solo del processo, riguarda in buona sostanza tutti i termini procedurali. Si è, poi, optato, per non ledere i diritti della parte nei cui confronti decorre il periodo di sospensione, di un meccanismo di differimento dell’udienza o della diversa attività cui sia collegato il termine, in modo da farlo decorrere ex novo ed integralmente al di fuori del periodo di sospensione per un meccanismo di differimento dell’udienza o della diversa attività cui sia collegato il termine.

3. La celebrazione delle udienze a porte chiuse e tramite videoconferenza.

Il comma 7 dello stesso articolo prevede, poi, alla lettera e) la celebrazione a porte chiuse, ai sensi dell’art. 472, comma 3, del codice di procedura penale, di tutte le udienze penali pubbliche o di singole udienze e, ai sensi dell’art.128 del codice di procedura civile, delle udienze civili pubbliche. Viene, quindi riproposta, adeguandola, la disposizione già presente nell’art. 2 del citato decreto legge n. 11/2020. Si tratta una norma dettata dal buon senso e che non va ad incidere sulle garanzie costituzionali del cittadino.

Il comma 12 del dettato normativo in argomento prevede, anche, che “Ferma l’applicazione dell’art. 472, comma 3, del codice di procedura penale, dal 9 marzo 2020 al 30 giugno 2020, la partecipazione a qualsiasi udienza delle persone detenute, internate o in stato di custodia cautelare è assicurata, ove possibile, mediante videoconferenze o con collegamenti da remoto individuati e regolati con provvedimento del Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia, applicate, in quanto compatibili, le disposizioni di cui ai commi 3,4 e 5 dell’art,146-bis del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271”.

La norma, in considerazione dell’eccezionale momento emergenziale, si può ritenere legittima, a condizione che non abbia un’applicazione prolungata nel tempo.

4. La sospensione della prescrizione.

Il comma 8 prevede che “per il periodo di efficacia dei provvedimenti di cui ai commi 5 e 6 che precludano la presentazione della domanda giudiziale è sospesa la decorrenza di termini di prescrizione e di decadenza dei diritti che possano essere esercitati esclusivamente mediante il compimento delle attività precluse dai provvedimenti medesimi”; in particolare, il successivo comma 9 statuisce che “nei procedimenti penali il corso della prescrizione e i termini di cui agli artt. 303, 308, 309, comma 9, 311, commi 5 e 5 bis, e 324, comma 7, del codice di procedura penale e agli artt. 24, comma 2,e 27, comma 6, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n.159, rimangono sospesi per il tempo il tempo in cui il procedimento è rinviato ai sensi del comma 7, lett. g) e, in ogni caso, non oltre il 30 giugno 2020”.

Il comma 10 prosegue disponendo che “ai fini del computo di cui all’art. 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89, nei procedimenti rinviati a norma del presente articolo non si tiene conto del periodo compreso tra l’8 marzo e il 30 giugno”.

Le norme in questione appaiono di dubbia legittimità costituzionale, in quanto non sono dettate da motivazioni di ordine sanitario, come le successive, e incidono pesantemente sullo status dell’imputato, prevedendo una ingiustificata sospensione della prescrizione.

5. Il sistema di notificazioni telematiche presso il difensore di fiducia.

Come precisa la menzionata relazione, ha invece carattere innovativo il sistema delineato dai commi 13, 14 e 15 dello stesso art. 83. Viene, infatti, prevista una deroga al sistema delle notificazioni e delle comunicazioni attualmente previsto dal codice di procedura penale, al fine di consentire agli uffici giudiziari, nella situazione di emergenza, di comunicare celermente e senza la necessità di impegno degli organi notificatori i provvedimenti destinati ad essere portati a conoscenza delle parti processuali, in particolare quelli che stabiliscono le date delle udienze fissate in ragione del rinvio d’ufficio.

Viene, quindi, suggerito il ricorso al sistema di notificazioni e comunicazioni telematiche, disciplinato dal decreto legge n. 179/2012, convertito con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, quali modalità di partecipazione dei provvedimenti sopra descritti e di qualsiasi altro avviso. Si potranno prevedere, altresì, ulteriori strumenti telematici individuati dalla Direzione Generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della Giustizia, favorendo uffici che hanno già adottato sistemi telematici alternativi, nonché di accedere al sistema di comunicazioni telematiche penali, ai sensi dell’art, 16, lettere a) e b), del menzionato decreto legge n. 179/2012.

Al fine di rendere più agevole il notevole carico di lavoro imposto alle cancellerie per le comunicazioni e le notificazioni dei provvedimenti di rinvio, si deroga al sistema di notificazioni previsto per tutti gli atti processuali penali introducendo, per la notificazione dei provvedimenti specificamente disciplinati dai decreti legge adottati per far fronte all’emergenza sanitaria in atto, la notifica ex lege presso il difensore di fiducia dell’imputato e di tutte le parti private, da effettuarsi tramite invio all’indirizzo di posta elettronica certificata di sistema. Nel caso di difensore d’ ufficio, continuerà ad applicarsi il regime codicistico ordinario.

La norma è dettata da indubbie ragioni di ordine sanitario e, quindi, sotto tale profilo si appalesa legittima.

Tuttavia, si ritiene che la stessa non sarà sufficiente ad alleggerire il carico delle cancellerie, già al collasso ed ulteriormente in difficoltà dal più accentuato ricorso al telelavoro previsto dalle vigenti norme emergenziali.

Inoltre, la stessa norma potrebbe ledere alcuni principi di costituzionalità ed, in particolare, il terzo comma dell’art. 111 della costituzione, secondo cui “Nel processo penale, la legge assicura che la persona accusata di un reato, sia nel più breve tempo possibile informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico…”. Per cui, passata la tempesta, si può prevedere che fioccheranno le eccezioni di legittimità costituzionale della disposizione.

6. Gli interventi sul sistema penitenziario: il regime dei colloqui per i detenuti.

Ma il decreto legge n. 18/2020 cerca di regolamentare anche il clima rovente che si sta creando nelle carceri, in cui già si sono verificati contagi in capo ai detenuti, e che è testimoniato dalle numerose rivolte di questi giorni, che hanno determinato evasioni in massa, come è avvenuto nel carcere di Foggia ed anche il decesso di dodici detenuti, come verificatosi nel carcere di Modena.

Per far fronte a queste esigenze è intervenuto il comma 16 della citata norma dell’art. 83 del decreto secondo cui “Negli istituti penitenziari e negli istituti penali per minorenni a decorrere dal 9 marzo 2020 e sino alla data del 22 marzo 2020, i colloqui con i congiunti o con altre persone cui hanno diritto i condannati, gli internati e gli imputati a norma degli artt. 18 della legge 26 luglio 1975, n. 354, 37 del decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n.230, e 19 del decreto legislativo 2 ottobre 2018, n.121, sono svolti a distanza, mediante, ove possibile, apparecchiature e collegamenti di cui dispone l’amministrazione penitenziaria e minorile o mediante corrispondenza telefonica, che può essere autorizzata oltre i limiti di cui all’art. 39, comma 2, del predetto decreto del Presidente della Repubblica n230 del 2000 e all’art. 19, comma 1, del decreto legislativo n. 121 del 2018”.

La norma appare ragionevole, anche se probabilmente non sarà insufficiente a sedare le rivolte nelle carceri, in cui il fuoco ancora arde sotto la brace.

Il successivo comma 17 dispone, invece, che “Tenuto conto delle evidenze rappresentate dall’autorità sanitaria, la magistratura di sorveglianza può sospendere, nel periodo compreso tra il 9 marzo 2020 ed il 31 maggio 2020, la concessione dei permessi premio di cui all’art. 30 – ter della legge 26 luglio 1975, n. 354, del regime di semilibertà ai sensi dell’art. 48 della medesima legge e del decreto legislativo 2 ottobre 201, n.121”.

Anche questa disposizione appare non conforme ai principi costituzionali ed in particolare alla norma di cui all’art. 27 della costituzione, che implicitamente tutela la salute del recluso, cui deve consentirsi di effettuare anche, in caso di necessità, il periodo di quarantena che, per ovvi motivi, non può essere garantito in istituto.

7. Gli interventi sul sistema penitenziario: le disposizioni in materia di detenzione domiciliare e di licenze premio straordinarie per i detenuti in regime di semilibertà.

Sotto altro aspetto, importanti disposizioni in materia di detenzione domiciliare e di licenze premio ai detenuti in regime di semilibertà sono contenute negli artt. 123 e 124 del decreto legge.

Come precisato nella relazione illustrativa, l’esigenza di contrastare il contagio deve interessare anche l’ambiente carcerario nel quale l’ampia concentrazione di personale di polizia penitenziaria, di detenuti e di operatori impone di alleggerire tale concentrazione ed attenuare il cronico problema dell’affollamento degli istituti penitenziari. Per tale motivo il legislatore ha ritenuto di ripercorrere il modello operativo sperimentato con la legge n.199/2010, sulla base delle impellenti esigenze sanitarie dei giorni nostri. Si osserva, anche, che lo strumento utilizzato non elude il principio rieducativo previsto dall’art. 27 della costituzione e garantisce la tutela della sicurezza pubblica.

L’art. 123, al comma 1, dispone che in deroga a quanto previsto dai commi 1, 2 e 4 dell’art. 1 della legge 26 novembre 2010, n. 199, dalla data di entrata in vigore del provvedimento normativo la pena detentiva è eseguita, su istanza, presso l’abitazione del condannato o in altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza ove la pena da scontare non sia superiore ai 18 messi, anche se constituenti residuo di una maggior pena.

Sono esclusi da tale beneficio i condannati per i delitti indicati dall’art. 4-bis della legge n.354/1975, per i delitti di minacce o molestie tali da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita, per i reati di maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli, i delinquenti abituali, professionali o per tendenza, i detenuti che sono sottoposti al regime di sorveglianza particolare, ai sensi dell’art. 14-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, salvo che sia stato accolto il reclamo previsto dall’art. 14-ter della medesima legge, i detenuti che nell’ultimo anno siano stati sanzionati per infrazioni disciplinari, i detenuti nei cui confronti sia stato redatto rapporto disciplinare, in quanto coinvolti nei disordini e nelle sommosse a far data dal 7 marzo 2020, i detenuti privi di domicilio effettivo.

Il magistrato di sorveglianza adotta il provvedimento che dispone l’esecuzione della pena presso il domicilio, salvo che ravvisi gravi motivi alla concessione ostativi alla concessione della misura.

Si tratta di una previsione che attribuisce ampia discrezionalità alla magistratura e che, forse, potrebbe affievolire la portata del provvedimento.

Prosegue la disposizione stabilendo che, salvo si tratti di condannati minorenni o di condannati la cui pena non è superiore a sei mesi, è applicata la procedura di controllo mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici resi disponibili per i singoli istituti penitenziari. La procedura di controllo, alla cui prestazione il condannato deve prestare il consenso, viene disattivata quando la pena residua da espiare scende sotto la soglia dei sei mesi.

A tal fine “Con decreto del capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia, d’intesa con il Capo della Polizia-Direttore Generale della Pubblica Sicurezza, adottato entro il termine di dieci giorni dall’entrata in vigore del presente decreto e periodicamente aggiornato è individuato il numero dei mezzi elettronici e degli altri strumenti tecnici da rendere disponibili, nei limiti delle risorse finanziarie disponibili a legislazione vigente, che possono essere utilizzati per l’esecuzione della pena con le modalità stabilite dal presente articolo, tenuto conto anche delle emergenze sanitarie rappresentate dalle autorità competenti. L’esecuzione del provvedimento nei confronti dei condannati con pena residua da eseguire superiore a sei mesi avviene progressivamente a partire dai detenuti che devono scontare la pena residua inferiore”.

Si tratta di una disposizione di difficile attuazione, anche per le limitate disponibilità finanziarie, e il cui termine di attuazione deve ritenersi certamente ordinatorio.

Il comma 6 disciplina, poi, le attestazioni cui è tenuta la direzione dell’istituto penitenziario, ed in particolare l’indicazione del luogo esterno di detenzione (abitazione o altro luogo o privato di cura, assistenza e accoglienza), mentre il successivo comma 7 dispone che, per i condannati minorenni, l’ufficio servizio sociale minorenni territorialmente competente, in raccordo con l’equipe dell’istituto, provvederà, entro trenta giorni, alla redazione di un programma educativo.

L’eliminazione della relazione da parte della direzione dell’istituto penitenziario sul complessivo comportamento tenuto dal condannato durante la detenzione è dovuta alla necessità di semplificare gli incombenti, ma è basata anche sulla considerazione che gli unici elementi di valutazione sono quelli definiti preclusivi dal comma 1, come precisato dalla citata relazione illustrativa.

Il successivo art. 124 della norma statuisce poi che “Ferme le ulteriori disposizioni di cui all’art. 52 della legge 26 luglio 1975, n.354, anche in deroga al complessivo limite temporale massimo di cui al comma 1 del medesimo articolo, le licenze concesse al condannato ammesso al regime di semilibertà possono avere durata sino al 30 giugno 2020”.

La disposizione interviene sulla disciplina delle licenze concedibili ai condannati ammessi al regime di semilibertà, consentendo che l’estensione temporale delle licenze sino al 30 giugno 2020 possa eccedere l’ordinario ammontare di quarantacinque giorni previsto, in via ordinaria, come limite massimo della loro durata.

Tale intervento, unitamente a quelli previsti dall’art. 123, intende contribuire, nell’attuale situazione di emergenza, a contenere le occasioni di contagio, senza mettere a rischio la sicurezza pubblica, ed è quindi pienamente condivisibile.

8. La violazione dell’art. 650 cod. pen.

In ultimo, pare utile segnalare un ulteriore vulnus cui il sistema della giustizia penale assisterà nei prossimi mesi a causa del rinvio all’art. 650 del codice penale operato dall’art. 4 del D.P.C.M. 8 marzo 2020, che al secondo comma recita: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, il mancato rispetto degli obblighi di cui al presente decreto è punito ai sensi dell’art. 650 del codice penale, come previsto dall’art. 3, comma 4, del decreto legge 23 febbraio 2020, n. 6 ”.

Per effetto di questa disposizione tutti gli obblighi contenuti nel provvedimento risultano sanzionati con il reato contravvenzionale ex art. 650 del codice penale, mentre per le numerose raccomandazioni ivi previste, il medesimo testo non prevede sanzioni.

Ricompreso nel libro III (Delle contravvenzioni in particolare), titolo I, capo I, Sezione I (Delle contravvenzioni concernenti l’ordine pubblico e la tranquillità pubblica), l’art. 650 statuisce che “Chiunque non osserva un provvedimento legalmente dato dall’Autorità per ragione di giustizia o di sicurezza pubblica, o d’ordine pubblico o d’igiene, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a duecentosei euro”.

Il D.P.C.M. dell’8 marzo 2020, incarica i Prefetti territorialmente competenti di garantire il rispetto dei limiti e delle regole ivi previste, che potranno avvalersi delle forze di polizia, dei vigili del fuoco e delle forze armate.

Alla data del 18 marzo 2020, secondo fonti del Ministero dell’Interno, sono state accertate circa 43 mila violazioni che, nella maggioranza dei casi, sfoceranno in procedimenti penali per le prevedibili opposizioni dei contravventori.

A queste violazioni si devono aggiungere le sanzioni per le ipotesi di dichiarazioni mendaci a pubblico ufficiale previste dall’art. 76 del D.P.R. n. 445/2000, che richiama i reati di falso previsti agli articoli 483 e art. 495 del codice penale.

9. Conclusioni.

Certamente le disposizioni normative e le indicazioni del Governo, anche se necessarie, incidono pesantemente sul nostro sistema penale, già al collasso.

In conclusione, si deve rilevare che siamo di fronte ad un fenomeno di tale gravità, che i suoi effetti si rifletteranno anche sul funzionamento di tutto il nostro sistema pubblico, in tutte le sue componenti, compreso quello giudiziario. Deve, perciò, auspicarsi che l’impegno di tutte le componenti sociali, ed anche della magistratura, dei dipendenti del Ministero della Giustizia e dell’Avvocatura, possa contribuire a controllare questo fenomeno invasivo come i tentacoli di una piovra quasi invincibile.

P. Gentilucci