Sommario. 1. Premessa. – 2. Il reato di cui all’art. 495 c.p. “Falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identità o su qualità personali proprie o di altri”. – 3. Il reato di cui all’art. 483 c.p. “Falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico”. – 4. Reati di falso e diritto di mentire. Considerazioni lapidarie.

1. Premessa.
La recente emergenza epidemiologica da diffusione del Covid-19 (c.d. Coronavirus) è stata fronteggiata dal legislatore con l’adozione di atti normativi di fonte primaria (in particolare decreti-legge considerata la sussistenza dei presupposti di necessità ed urgenza) e di fonte secondaria (in particolare decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri).
Con tali atti normativi sono state previste e regolamentate le misure di contenimento da imporre ai cittadini e agli esercenti attività imprenditoriali al fine di far fronte all’espansione del contagio; tali misure incidono su libertà costituzionalmente rilevanti degli individui, quali quelle di circolazione, riunione, esercizio di attività economica, le quali sono fortemente inibite, salve deroghe espresse, come accade, con riferimento al diritto di spostamento, «per gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero spostamenti per motivi di salute»1; quanto alle situazioni di necessità, trattasi di impellenze legate al fabbisogno primario della persona o ad attività comunque da reputarsi imprescindibili per il ménage personale e familiare (si pensi, ad esempio, alla fruizione dei servizi bancari o assicurativi); di recente inoltre è stato previsto che gli spostamenti da un comune all’altro potranno essere realizzati, solo per motivi
2 di salute, motivi di lavoro e per “assoluta urgenza” .
L’art. 3 comma 4 del D.L. 6 febbraio 2020 prevede che la violazione delle misure di contenimento sia punita ai sensi dell’art. 650 c.p. e, sul punto, gli interpreti si stanno già da diverso tempo confrontando al fine di comprendere quale sia il tipo di rinvio che il decreto legge ha fatto all’art. 650 cit., se quoad factum o quoad poenam, nonché allo scopo di meglio sondare la “legalità” del provvedimento a monte di cui è sanzionata la trasgressione; non è questo l’ambito tematico su cui queste brevi note si concentreranno, prefissandosi esse il proposito di fornire alcuni spunti di riflessione, senza pretesa di certezza e di esaustività, sulla collaterale questione della configurabilità dei reati in materia di falso, in capo al soggetto che dovesse rendere false dichiarazioni all’organo accertatore in fase di controllo in strada, in particolare nell’atto di declinare dati personali o informazioni giustificative dello spostamento da casa.
La questione si fa particolarmente pregnante, avuto riguardo all’inserimento online sul sito web del Ministero dell’Interno di un modello di “autodichiarazione” ai sensi degli artt. 46 e 47 DPR 445/2000, di recente aggiornato alle sopravvenienze normative, con cui ciascun cittadino è chiamato a dichiarare le proprie generalità, di essere a conoscenza delle misure di contenimento del contagio; di non essere sottoposto alla misura della quarantena; di non essere risultato positivo al virus COVID-19; di essere a conoscenza delle sanzioni previste dal combinato disposto dell’art. 3, comma 4, del D.L. 23 febbraio 2020, n. 6 e dell’art. 4, comma 2, del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri dell’ 8 marzo 2020 in caso di inottemperanza delle predette misure di contenimento (art. 650 c.p. salvo che il fatto non costituisca più grave reato); il privato si dichiara, nel modulo, “consapevole delle conseguenze penali previste in caso di dichiarazioni mendaci a pubblico ufficiale (art. 495 c.p.)”.
2. Il reato di cui all’art. 495 c.p. “Falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identità o su qualità personali proprie o di altri”. Preme dunque innanzitutto ragionare sulla configurabilità del reato di cui all’art. 495 c.p., che punisce con la pena della reclusione da uno a sei anni chi dichiara o attesta falsamente al pubblico ufficiale l’identità, lo stato o altre qualità della propria o dell’altrui persona.
Per “identità” devono intendersi il nome, il cognome, la data e il luogo di nascita, la paternità e la maternità; per “stato” si intendono invece cittadinanza, capacità di agire, stato libero o coniugale, parentela, affinità, patria potestà etc.
Nel concetto di “altre qualità” rientrano indicazioni, cui l’ordinamento riconnette effetti giuridici, che concorrono a stabilire le condizioni della persona, ad individuare il soggetto e consentire la sua identificazione, quali
ogni attributo
3 Per le tre dizioni, si veda Cass. sez. V, 5 marzo 2019, n. 19695, Rv. 275920; Cass. sez. V, 4 marzo 2016, n. 9195; Cass. sez. V, 8 novembre 2011 n. 1789, Rv. 251713; Cass. sez. V, 19 aprile 1977, n. 7462; Cass. sez. III, 27 febbraio 1967.
la residenza e il domicilio, la professione, la dignità, il grado accademico, l’ufficio pubblico ricoperto, l’essere convivente, una precedente condanna eche serva ad integrare la individualità della persona .
Venendo al nodo centrale del discorso, attinente alla questione se chi venga fermato per un controllo e dichiari o attesti il falso al pubblico ufficiale rischi una denuncia per violazione dell’art. 495 c.p., si può rispondere in maniera affermativa solo se l’oggetto del mendacio abbia riguardato gli elementi innanzi citati.
Nel caso in cui, ad esempio, ad essere falsa sia la motivazione sulla propria presenza in strada, non potrà applicarsi l’art. 495 c.p., nonostante quest’ultimo sia richiamato in maniera verosimilmente onnicomprensiva nel modulo di autodichiarazione reperibile sul sito ministeriale.
Secondo una tesi di recente esposta, la falsità riguardante il non trovarsi
posto in quarantena e il non essere positivo al virus rientrerebbe nelle maglie
letterali dell’art. 495 cit., avuto riguardo alla dizione delle “altre qualità”, già 4
analizzate .
L’orientamento proposto, particolarmente interessante, sollecita comunque
l’osservazione secondo cui non rientra nella nozione di “qualità” personale
ogni connotato della persona cui l’ordinamento riconnette effetti giuridici,
ma solo quello che abbia, a monte, capacità di individuazione del soggetto
nella comunità sociale; si nutrono forti dubbi quindi che l’attributo di
“soggetto non sottoposto a quarantena” o di “soggetto non positivo al virus”
soddisfi adeguatamente detto requisito.
Vero è che con una recente pronunzia di legittimità, la Corte di cassazione ha
sancito che «la tutela penale della fede pubblica — ancorché abbia sempre ad
oggetto i connotati della persona che ne costituiscono l’identità o lo status —
si estende anche ad altri connotati della persona, integrativi o sostitutivi che
siano, se una particolare norma collega loro effetti giuridici e, quindi, se
determinate situazioni di fatto che attengono alla persona costituiscano
5 presupposti o condizioni di legittimazione nei rapporti intersoggettivi» , ma
tale dictum, che a primo acchito potrebbe esporsi ad una lettura ampia, si riferisce, come già indicato in premessa, alla qualità di “convivente”, che avrebbe consentito al soggetto di accedere nell’istituto penitenziario per intrattenere il colloquio con un soggetto ivi ristretto.
3. Il reato di cui all’art. 483 c.p. “Falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico”.
Più complesso il discorso inerente all’applicabilità dell’art. 483 c.p. alle false dichiarazioni rese al pubblico ufficiale diverse da quelle rientranti nel tessuto operativo dell’art. 495 c.p., si pensi – principalmente – alla falsa motivazione che il privato rende al p.u. per giustificare il proprio spostamento da casa; tale falsa dichiarazione verrà di regola inserita per iscritto dal privato nell’autodichiarazione che egli personalmente consegnerà al p.u. su richiesta di quest’ultimo. Giova preliminarmente ripercorrere alcune coordinate dogmatiche in merito alla configurazione della fattispecie delittuosa in parola.
Orbene, l’art. 483 cit. punisce con la pena della reclusione fino a due anni
chiunque attesta falsamente al pubblico ufficiale, in un atto pubblico, fatti dei
quali l’atto è destinato a provare la verità.
Va subito chiarito che, per giurisprudenza consolidata, il reato di cui all’art.
483 c.p. è escluso quando l’atto non provi la verità di fatti, attuali ed
obbiettivi, bensì includa manifestazioni di volontà, intendimenti o propositi
6 futuri .
Secondo un filone giurisprudenziale particolarmente accreditato, il delitto di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico sussiste quando l’atto in cui è stata trasfusa la dichiarazione del privato sia destinato a provare la verità dei fatti narrati, cioè quando una norma giuridica obblighi il privato a dichiarare il vero ricollegando specifici effetti all’atto-documento in cui la
7 sua dichiarazione sia stata inserita dal pubblico ufficiale ricevente .
Tale principio costituisce applicazione dell’insegnamento delle Sezioni unite
le quali nel 1999 si espressero più volte in accoglimento della concezione
formale, secondo cui “il reato di cui all’art. 483 c.p. presuppone che il privato
dichiarante abbia il dovere giuridico – stabilito, esplicitamente o
implicitamente, dalla legge – di esporre la verità in ordine a un fatto in un atto
pubblico che sia destinato – per disposizione di legge – a provare la verità delle
8 dichiarazioni in esso raccolte” .
È stato precisato infatti che l’art. 483 c.p. richiede, per la definizione del suo contenuto precettivo, il collegamento con una diversa norma – eventualmente di carattere extrapenale – che conferisca attitudine probatoria all’atto in cui confluisce la dichiarazione inveritiera, così dando luogo
9 all’obbligo per il dichiarante di attenersi alla verità .
Occorre dunque in primo luogo che una “norma giuridica” specifica obblighi il privato a dire il vero, non potendo peraltro ricercarsi tale obbligo nell’art. 483 c.p., che, al contrario, lo presuppone esistente aliunde nell’ordinamento; in questo modo il p.u. che raccoglie la dichiarazione formerà un documento dotato di efficacia probatoria circa la verità dei fatti narrati.
L’obbligo di verità può trovare anche un aggancio “implicito” e non necessariamente “esplicito” in una norma di legge.
La giurisprudenza di legittimità pare aver fatto uso di tale impostazione, che
rinviene implicitamente il monito di legge alla veridicità delle affermazioni,
prescindendo in certi casi dalla esistenza di un obbligo di verità
espressamente sancito da una norma scritta.
Ad esempio, nel caso dello smarrimento della carta di identità o della patente
di guida, la Corte di legittimità ha ancorato la configurabilità del reato di cui
all’art. 483 c.p. in assenza di una norma che esplicitasse il dovere di verità in
capo al privato in sede di denuncia di smarrimento, ma rinvenendo detto
dovere nella previsione normativa di un obbligo di denuncia e nel fatto che
detta denuncia funge da presupposto per l’avvio dell’iter amministrativo
volto alla formazione e al rilascio del relativo duplicato in favore del
11 denunziante .
In altri termini, viene depotenziato il requisito della preesistenza di un obbligo di verità codificato ma esso, lungi dall’essere negletto, viene ricavato implicitamente dalla necessaria confluenza della dichiarazione del privato in un iter amministrativo di cui si pone quale doveroso incipit.
Sul punto, autorevole dottrina ha inoltre rilevato che «non sempre è agevole
stabilire in quali casi tale obbligo veramente sussista, una volta escluso che
dallo stesso art. 483 sia ricavabile un generale dovere di veridicità nelle
attestazioni che i privati fanno ai pubblici ufficiali», e che pertanto «in linea di
principio il privato dovrà ritenersi tenuto a dichiarare il vero, ogni qual volta
una norma giuridica ricolleghi specifici effetti a determinati fatti, allorché essi
vengano da un privato attestati a un pubblico ufficiale che deve documentarne
12 l’attestazione» .
Tale riflessione, animata da una esigenza di semplificazione in una materia complessa quale quella dei reati di falso, finisce per costituire l’abbrivio per una concezione sostanzialistica in ossequio alla quale si genera un dovere di verità in capo al privato qualora l’ordinamento ricolleghi specifici effetti ai fatti da lui narrati e raccolti dal p.u. in un atto pubblico sicché, parrebbe intendersi, l’obbligo di verità scaturisce in questo caso dall’attivazione di un principio di autoresponsabilità in capo al privato, il quale deve dichiarare il vero laddove la sua dichiarazione verbalizzata sia foriera di conseguenze rilevanti per l’ordinamento.

Va poi ricostruita sinteticamente l’interazione tra la fattispecie criminosa de qua e i documenti noti nella prassi come “autocertificazioni”, nelle quali eventualmente si annidi il mendacio.
Giova focalizzare l’attenzione sul fatto che l’attestazione della motivazione per cui il privato si trovi a derogare all’obbligo di permanenza nella propria abitazione non può rientrare sotto l’egida dell’art. 46 DPR 445/2000, il quale consente al privato di comprovare con dichiarazioni, anche contestuali all’istanza, sottoscritte dall’interessato e prodotte in sostituzione delle normali certificazioni, stati, qualità personali e fatti tassativamente indicati, i quali sarebbero, in assenza di autocertificazione, rinvenibili in pubblici registri o comunque sarebbero già di dominio della pubblica amministrazione. L’attestazione può, al più, rientrare nell’alveo operativo dell’art. 47 DPR cit., il quale consente al privato di sostituire l’atto di notorietà con una dichiarazione sostitutiva che abbia ad oggetto, tra gli altri, “fatti che siano a diretta conoscenza dell’interessato” (co. 1); prevede inoltre la norma che, «fatte salve le eccezioni espressamente previste per legge, nei rapporti con la pubblica amministrazione […], tutti gli stati, le qualità personali e i fatti non espressamente indicati nell’articolo 46 sono comprovati dall’interessato mediante la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà» (co. 3).
I requisiti sanciti dalla giurisprudenza sull’obbligo di verità del privato e sulla efficacia probatoria dell’atto ai fini della configurabilità dell’art. 483 c.p. paiono essere adeguatamente soddisfatti dalla lettura congiunta degli artt. 47 co. 3 e art. 76 DPR 445/2000.
L’art. 47 conferisce al privato il potere di “comprovare” i fatti a sua conoscenza con la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà; così facendo l’ordinamento, in un’ottica di semplificazione amministrativa, ha consentito al privato di sostituire certificati ufficiali con una propria dichiarazione, cui viene attribuita efficacia probatoria.
L’art. 76, invece, assume la generale funzione di vietare il mendacio nella elaborazione dell’autodichiarazione, rinviando per le sanzioni alle norme del codice penale in materia di falso; ed inoltre sancisce che «le dichiarazioni sostitutive rese ai sensi degli articoli 46 e 47 […] sono considerate come fatte a pubblico ufficiale», in questo modo legandosi funzionalmente al tessuto normativo di cui all’art. 483 c.p., il quale prevede, per operare, che le false dichiarazioni siano (appunto) rese al pubblico ufficiale. In sintesi, da un lato la norma imputa al privato l’obbligo di verità; dall’altro, in virtù della fictio ora descritta, le dichiarazioni sono considerate come rese al pubblico ufficiale. Pertanto, chi inserisce in una dichiarazione sostitutiva di atto notorio affermazioni non veritiere è considerato al pari di chi rende al p.u. dichiarazioni false che il secondo, conseguentemente, inserisce in un atto che è destinato a costituire prova della verità del fatto recepito.

Sussistono conseguentemente tutti i requisiti strutturali dell’art. 483 c.p.:
obbligo di verità, efficacia probatoria dell’atto, equivalenza tra
autodichiarazione e dichiarazioni rese al p.u.
L’impostazione giurisprudenziale sul punto è pacifica; si consideri in via del
tutto esemplificativa la massima «in tema di falso documentale, integra il
reato di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico (art. 483 cod.
pen.) la presentazione di una dichiarazione sostitutiva che attesti falsamente
la regolarità contributiva (c.d. DURC), stante l’obbligo di dichiarare il vero, ex
13
art. 76, d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445» , dalla quale risaltano sia
l’interazione tra l’art. 483 c.p. e le dichiarazioni sostitutive affette da falsità, sia il rinvenimento dell’obbligo di dichiarare il vero proprio nell’art. 76 DPR 445/2000.
Orbene, in attesa di una sedimentazione giurisprudenziale avente ad oggetto le fattispecie che si consumano in questo periodo segnato dall’emergenza epidemiologica, può condursi una preliminare riflessione critica circa la condotta di chi, fermato in queste ore in strada dal pubblico ufficiale che gli chieda di dar contezza dei motivi per cui è fuori casa, renda delle dichiarazioni non conformi al vero, mediante consegna dell’autodichiarazione scritta, la quale potrà essere stata compilata prima di lasciare la propria abitazione o durante il controllo delle forze dell’ordine.
V’è in primo luogo da chiedersi se dietro lo schermo “motivazionale” si celi un fatto, come la norma incriminatrice richiede espressamente.
Orbene, posto che irrilevante nel caso di specie è il fatto obbiettivo della presenza in strada del cittadino sottoposto a controllo, occorre porre l’attenzione su altri aspetti, fermo restando che le circostanze obbiettive in cui il soggetto è rinvenuto al momento dell’accertamento potranno a posteriori tornare utili per gli sviluppi investigativi del caso, quando ad esempio denotino prima facie significative incongruenze.
In linea di principio, il privato potrà attestare un “fatto” già compiuto, o meglio già concretizzatosi nella realtà esteriore: il privato può infatti dichiarare di essere in strada per “aver compiuto” una certa azione (es. “sono stato a lavoro presso la sede sita in …”; “sto tornando a casa dopo aver portato generi alimentari e medicinali a mia madre anziana”, etc.) che trovi il proprio fondamento di tutela nei DPCM (lavoro, salute, stretta necessità). In questo caso siamo con ogni probabilità dinanzi ad un “fatto” suscettibile di essere riferito e attestato, in quanto trattasi di un evento della vita o una circostanza che sono prospettati come già realizzati e/o materializzati in rerum natura. Ciò che è accaduto o già venuto ad esistenza può essere oggetto di narrazione ai nostri fini.
Altro è il fatto ancora non verificatosi ma oggetto di una semplice intenzione (es. “sto andando a fare la spesa”; “sto andando a lavoro”; “sto andando in farmacia per acquistare il medicinale X”); questo caso pare rientrare in quei divieti giurisprudenziali anzidetti che non consentono di ritenere configurata la fattispecie delittuosa, in quanto ad essere attestato è un mero intento, un proposito, salvo voler considerare “fatti” rilevanti per il nostro proposito i presupposti fattuali, già esistenti ed eventualmente dichiarati, che costituiscano gli elementi strutturali della esigenza tutelata dalla normativa emergenziale (es. “sto andando a fare la spesa e la porterò a mia madre anziana che è rimasta sprovvista di Y”).
Le argomentazioni che precedono devono essere confrontate con il documento di derivazione ministeriale (aggiornato al DPCM del 22/03/2020), che infatti si compone, per quanto qui di interesse, di due sezioni rilevanti: la prima consta di un breve elenco di motivazioni tra cui spuntare quella giustificativa dello “spostamento”: comprovate esigenze lavorative, assoluta urgenza (per gli spostamenti tra comuni diversi), situazioni di necessità (per gli spostamenti nell’ambito del medesimo territorio comunale), motivi di salute; la seconda consta di uno spazio in cui inserire una dichiarazione tendenzialmente esplicativa del motivo sopra indicato.
Orbene, l’interprete dovrà attentamente verificare, alla luce della lettura congiunta e coordinata delle due sezioni e soppesando sapientemente le parole utilizzate, se il privato abbia dichiarato un “fatto” o piuttosto una “intenzione”: nell’un caso, il dichiarante potrà essere tacciato di falsità; nell’altro caso, la condotta pare sfuggire alle maglie della punibilità in ossequio alla giurisprudenza su richiamata.
Va precisato, e lo si anticipava, che, ai sensi della Direttiva del Ministro dell’Interno del 8 marzo 2020, il pubblico ufficiale, nel caso in cui il privato fosse sfornito della dichiarazione sostitutiva, è abilitato a consegnargli il modulo all’atto del controllo e, previa compilazione dello stesso da parte del soggetto fermato, a controfirmarlo. Le osservazioni sinora svolte valgono anche in questo caso, che si differenzia dal primo solo per il momento in cui avviene la compilazione dell’atto.
Più impervia appare invece la strada verso il riconoscimento della punibilità di chi, sprovvisto dell’autodichiarazione ed interrogato dal p.u. sui motivi della propria presenza in strada, renda dichiarazioni false che il p.u. recepisca a verbale (o di chi, avendo compilato l’autodichiarazione in maniera parziale, la “integri” con dichiarazioni rese oralmente e raccolte nel verbale).
In questa ipotesi, la Corte di cassazione ha ritenuto, in casi assimilabili, che il reato di cui all’art. 483 c.p. non si configuri quando in un controllo stradale il privato renda dichiarazioni mendaci all’agente accertatore, «posto che il verbale della polizia, contenente le dichiarazioni del privato, non è destinato ad attestare la verità dei fatti dichiarati ed il reato in questione è ravvisabile quando l’atto pubblico, nel quale sia trasfusa la dichiarazione del privato, sia
Trattasi comunque di ipotesi marginale e del tutto teorica, avuto riguardo alla direttiva ministeriale anzidetta, la quale prescrive al pubblico ufficiale di consentire al privato di realizzare pur sempre un’autodichiarazione in un modulo che l’appartenente alle forze dell’ordine gli fornirà al momento, e non di raccogliere in un proprio verbale le dichiarazioni del soggetto sottoposto a controllo.
4. Reati di falso e diritto di mentire. Considerazioni lapidarie.
E’ stato autorevolmente sostenuto che ulteriori problemi potrebbero registrarsi in merito alla configurazione dei reati di falso, nell’ipotesi fattuale sinora affrontata, sul piano dell’antigiuridicità, in quanto tale stadio della sistematica del reato verrebbe escluso dall’applicazione del principio “nemo tenetur se detegere”, declinato nel senso che il privato che abbia mentito al pubblico ufficiale per occultare la propria trasgressione delle misure di contenimento non sarebbe punibile in quanto, per definizione, il colpevole

16 illecito, sia sul terreno specifico dei reati di falso .
Sul piano generale – di sistema – la Corte attribuisce al diritto di mentire una natura ed una rilevanza prettamente processuale e non sostanziale, nel senso che la facoltà di taluno di rendere dichiarazioni mendaci all’Autorità trova il proprio alveo epifanico dopo l’apertura di un formale procedimento penale a carico di costui e non precede tale momento. Peraltro, lo stesso diritto di mentire nel procedimento penale a proprio carico incontra forti limitazioni, come quella attinente al divieto di sconfinare nella calunnia, e non si qualifica
17 pertantointerminidiassolutezza .
Sullo speciale terreno dei reati di falso, la Corte pare assegnare posizione prioritaria all’esigenza di affidabilità e veridicità del documento in cui le dichiarazioni confluiscono, sulla cui verità viene riposto affidamento. Peraltro, destinato a provare la verità dei fatti attestati» .
ha diritto di mentire
Orbene, sul punto ci si limita ad osservare che la Cassazione pare aver adottato nel tempo una soluzione difforme, fornendo delle indicazioni sia sul piano generale della esistenza di un diritto generalizzato di mentire al fine di tutelarsi da conseguenze legali per un proprio precedente comportamento può soggiungersi che, con riguardo all’applicazione della causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di mentire al reato di cui all’art. 495 c.p., non vi sarebbe spazio per il principio “nemo tenetur” in quanto, già a livello procedimentale, che costituirebbe in astratto – come detto – il settore di maggior tutela per l’imputato/indagato, esso è escluso dall’obbligo, incondizionato, di verità relativo alle proprie generalità.
Né sarebbe possibile ritenere, a parere di chi scrive, che la richiesta del pubblico ufficiale al privato di indicare le ragioni della sua presenza in strada o altri dati caratterizzanti si collochi in un terreno lato sensu procedimentale, considerato che il privato è eventualmente attinto da indizi di reità solo dopo aver illustrato le proprie ragioni o aver fornito i su indicati dati ed essere incorso in incongruenze che attivino un più approfondito controllo sulla fondatezza delle asserzioni giustificative fornite.
Pertanto, si ritiene che il nucleo tematico su cui si annidano le maggiori problematiche di configurazione dei reati di falso in merito alla fattispecie concreta oggetto del presente contributo non pare essere rappresentato dallo stadio sistematico della antigiuridicità ma da quello della tipicità, per le motivazioni espresse ai paragrafi 2 e 3.